Tre apparizioni a Wassen
Le tre poesie seguenti sono nate un po’ a scuola un po’ in treno (e poi al tavolino di casa, naturalmente). A scuola, perché nelle aule e nei corridoi ho potuto osservare e conoscere il disagio profondo di molti ragazzi, come le tre studentesse a cui qui si fa allusione; un disagio che ha molte forme e molti nomi, ma che mi sembra purtroppo crescente, persino dilagante e sempre più visibile, sempre più tormentoso. In treno, perché fino a poco tempo fa chi andava in treno da Milano a Zurigo poteva vedere, non appena oltrepassata la galleria del Gottardo, il paesino di Wassen, con la sua piccola chiesa, che grazie alle gallerie elicoidali appariva tre volte allo sguardo, da tre differenti prospettive (adesso, con il nuovo traforo molto più lungo, il viaggiatore non passerà più da Wassen; e quella chiesa, che era diventata leggendaria e persino stucchevole, tornerà forse nell’anonimato). E passando di lì, mesi or sono, ho associato le tre apparizioni della chiesa con le tre studentesse che portavo nella mente; e queste ultime poi con la famosa canzone dantesca. Una volta, alcuni mesi fa, ho letto in pubblico queste poesie, durante un incontro in una cittadina del Piemonte. In generale credo siano state apprezzate; ma un giornalista è intervenuto in tono piuttosto aggressivo, rimproverandomi di appropriarmi con troppa leggerezza di storie dolorose non mie. È un’accusa pertinente, anche se forse in quell’occasione era solo un pretesto per mettersi in mostra. Chi prova a scrivere ha il diritto di farlo? Ma la domanda si può rovesciare, restando bruciante: chi prova a scrivere ha il diritto di non farlo? Forse la scrittura deve sopportare entrambe le questioni, come una doppia vertigine entro la quale cercare il cammino da percorrere.
Ciascuna par dolente e sbigottita (Dante)
1.Un’ombra di ragazza
sul mesto umidore del vetro
è una scarpata madida che aggetta sul vuoto
e sotto c’è un paese minuscolo
una chiesa arroccata un cimitero secolare
conca tra muri di pietra acque scroscianti
brividi di valanghe sedimenti franosi
una valle di vento che fugge
senza prospettive
un destino di fatica
oggi vorrei non parlare
non posso parlare
per favore non fatemi domande
sono solo un’inutile cosa;
se ogni mattina è soltanto tristezza
grande tristezza
che a volte mi schiaccia nel letto
come montagna nera
sopra succisa rosa
ma oggi sono qui e altrove
sono qui e non so dove
quasi in piedi senza parola
per favore lasciatemi in silenzio
non interrogatemi
2. Seconda apparizione: lontanissimo
nastro grigio che fugge
verso un vago lucore di rame
un improbabile pertugio nelle strettoie
automobili in corsa irraggiungibili
di là non potremo passare
non noi forse altri
non noi massi inerti millenni
nell’angusto rovescio dei prati
ho amici distanti mai visti
amici che non conosco nicknames
con loro sto bene con loro posso
isolarmi, è un’amicizia profonda che non
scuote, non esco molto è vero,
quasi mai, e quando esco scivolo
tra le persone i corpi
non guardo non guardatemi
sono il colore di una galleria
lo spazio vuoto circolare
nelle viscere di qualcosa
certe volte sorrido
3. Più in basso la terza: fanghiglia, pietrame.
Le case ci sovrastano, e sopra le case i costoni
in picchiata sospesi alle nubi,
ostili strapiombano e un’acqua
violenta, verdognola ruggisce sul fianco
erode distrugge le cose abbarbicate
corpi radici argini
la chiesa sembra salire fremendo
il cielo non è più visibile la corsa
del treno svanisce in un buio
tutto si smangia
no, mai. Mai stata
ricoverata, sto attenta non mi lascio
distrarre. Sto vigile, presente,
a un chilo dal ricovero. Intelligente,
lo so; e severa con me stessa.
Ma forse ho imparato a non pretendere
la perfezione assoluta: in questo va meglio.
La pressione degli altri si è allentata
i lupi non bussano alla porta quasi più
benché li senta respirare là fuori
bianche penne neri veltri maschere.
Ma sto meglio
nel segreto di me, un po’ meglio, forse.