Terrorismo, narrativa e ritorno al reale
Nel mio L’album di famiglia. Gli anni di piombo nella narrativa italiana (Transeuropa 2013), ho cercato di capire in che modo la letteratura ha raccontato quella che è passata alla storia come la stagione del terrorismo e della strategia della tensione.
Essendo nato nel 1983, appartengo a una generazione successiva a quella formatasi e maturata negli anni Settanta, ragion per cui, all’origine del mio interesse verso questo decennio, c’era sicuramente il desiderio di conoscere il mondo che mi ha preceduto, poiché, come ha scritto Franco Fortini, «la sola storia che conti davvero, la sola veramente traumatica è quella cui dobbiamo la nostra nascita». Accanto a questa motivazione di carattere, diciamo così, esistenziale, v’era anche un più urgente bisogno di confrontarmi con un periodo storico nel quale – a differenza di quello attuale – i giovani godevano di un enorme peso nella vita pubblica del Paese.
La mia età può suscitare forse qualche sospetto in chi ha vissuto da testimone più o meno diretto i fatti e gli eventi che io, al contrario, conosco soltanto tramite i resoconti scritti. Per evitare ogni equivoco, tengo a precisare che in realtà non mi occupo di anni Settanta, ma della loro letteratura; non mi occupo di storia, ma di immaginario; non mi interessa ricostruire l’esatto svolgersi degli eventi, bensì capire in che modo sono stati raccontati.
Benché non mi ritenga uno storico, mi permetto di osservare che la ricerca storiografica sugli anni Settanta sconta un grave ritardo. Al posto di ricostruzioni storiche, abbiamo un proliferare di memorie diverse spesso in conflitto tra loro. «Troppa memoria e poca storia – ha sintetizzato bene Giovanni De Luna – Troppi ricordi e pochi documenti, troppi sentimenti e poca filologia» (Le ragioni di un decennio 1969-1979, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 162). La memoria (che, contrariamente all’uso che spesso se ne fa, è un concetto legato al vissuto individuale di una singola persona) non va mai confusa con la storia, così come il testimone non va confuso con lo storico, ma può, al massimo, aspirare a diventare una sua fonte. Si tratta, com’è noto, di un problema che non riguarda soltanto il periodo in questione ma anche tanti altri eventi cruciali della storia del Novecento.
Va detto, inoltre, che la soggettività della memoria personale si registra a volte anche nelle ricostruzioni effettuate da storici di professione: penso, ad esempio, a un libro notevole come Le ragioni di un decennio dello stesso De Luna. Si tratta, per certi versi, di un fatto inevitabile che troverà una sua soluzione forse soltanto con l’avvento di una nuova generazione di storici, che potrà trarre beneficio dalla giusta distanza dai fatti.
Rimanendo in tema di nuove generazioni, vorrei sottolineare come gli anni Settanta costituiscano anche una sfida per l’insegnamento della storia nelle nostre scuole. Com’è noto, a dispetto delle raccomandazioni ministeriali, è molto difficile affrontare con gli studenti del quinto anno la storia dell’Italia repubblicana. E, del resto, se storicizzare gli eventi successivi alla contestazione giovanile è un’operazione difficile per gli stessi addetti ai lavori, cosa si può pretendere dal mondo della scuola? Inutile, quindi, scandalizzarsi se, stando ai risultati di numerose indagini, i nostri studenti ignorino quel che è accaduto a piazza Fontana o alla stazione di Bologna.
2. Gli anni di piombo: una categoria dell’immaginario.
Gli anni Settanta sono un periodo storico difficile da decifrare, un decennio, com’è stato più volte detto, di transizione, all’interno del quale si intrecciano in modo inestricabile fenomeni di segno regressivo con altri di segno di progressivo. L’ambivalenza che ne deriva impedisce qualsiasi interpretazione unica e totalizzante.
Tra le tantissime pietre d’inciampo che complicano la nostra lettura della decade, possiamo ricordarne alcune, come la questione controversa del rapporto tra movimenti e gruppi armati; la difficoltà di distinguere l’uso violento del linguaggio dal linguaggio della violenza; la necessità di inquadrare storiograficamente come fenomeni contemporanei due processi apparentemente opposti come la militarizzazione della politica, da un lato, e la nascita di una nuove pratiche di cittadinanza, dall’altro; i vuoti di ordine giudiziario, ovvero l’impossibilità della magistratura di individuare gli autori delle stragi; e, infine, il persistente silenzio attorno al grande tema del ruolo giocato dai poteri occulti dietro vicende come la strage di piazza Fontana e il caso Moro. Tali nodi irrisolti sono all’origine di quelle “patologie del ricordo”, di cui ha scritto efficacemente Giovanni Moro nel suo lucido libretto intitolato Anni Settanta.
Un elemento che, però, viene spesso dimenticato o ritenuto secondario è l’egemonia esercitata già a ridosso degli eventi dagli organi di comunicazione di massa nel discorso pubblico sul terrorismo. A ben vedere, sono stati i giornali e la televisione a codificare una prima interpretazione dei fatti, a scegliere le parole per descriverli e analizzarli e, infine, a diffondere un immaginario su di essi. Per questa ragione, come ha osservato Marco Scavino, gli storici hanno svolto un lavoro doppiamente faticoso, in quanto, come necessaria operazione preliminare, hanno dovuto “smontare” il linguaggio con cui era stato raccontato il terrorismo, e sottoporre a revisione critica alcune categorie, prima fra tutte quella di “anni di piombo”.
Quest’espressione addossa, infatti, tutta la responsabilità della crisi degli anni Settanta al terrorismo, rimuovendo così la corruzione e il degrado della vita politica giunto già allora a vette allarmanti. L’allusione, contenuta al suo interno, alle armi da fuoco (usate prevalentemente dal terrorismo di sinistra) sembra di per sé un fatto innocente, ma, in realtà, è il frutto di una rimozione del terrorismo neofascista, il quale faceva uso più volentieri delle bombe. Più in generale, com’è stato già notato, l’impiego di tale categoria interpretativa comporta un appiattimento del decennio sotto il minimo comune denominatore della violenza. Un’operazione scorretta che, oltretutto, promuove i terroristi al rango di protagonisti del decennio, lasciando agli altri – gli studenti, gli operai e le vittime – il ruolo di mere comparse secondarie.
Dicendo questo, non intendo affatto sminuire il significato storico del terrorismo ed espormi al rischio di una rimozione di segno opposto. In altre parole, non si può, a mio avviso, ridurre il terrorismo italiano – come ha proposto di recente Giuliano Amato – a un «residuo violento e intellettualmente primitivo e arcaizzante di un’epoca già esaurita nel momento del suo nascere, ma temporaneamente rivitalizzata dal 68» (G. Amato, A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, Il Mulino, Bologna 2013, p. 132). Tale ridimensionamento appare ancor più indebito, se si adotta un’altra prospettiva e si guarda alla dimensione dell’immaginario.
Il sottotitolo del mio libro è Gli anni di piombo nella narrativa italiana. Ora, se “anni di piombo” è una categoria errata dal punto di vista storiografico, perché continuo a usarla? La ragione è molto semplice: per la letteratura e l’immaginario collettivo, gli anni Settanta sono gli anni di piombo. In che senso? Nel senso che ad attrarre la fantasia e l’immaginazione degli scrittori e dei registi è, in primo luogo, la violenza politica che caratterizza quegli anni.
Grazie al suo potere metaforico, la categoria in questione è riuscita a imporsi nel discorso pubblico e, per così dire, a “fare sistema” con altre immagini prodotte da giornali e televisione (e, a tal proposito, il pensiero non può non andare alla foto del cadavere di Aldo Moro avvolto come un feto dentro il cofano della Renault 4 o ad un’altra foto-icona, scattata il 14 maggio del 1977 a Milano, che ritrae un autonomo a gambe divaricate mentre punta la P38 contro i poliziotti).
In conclusione, benché sia errata dal punto di vista storiografico, “anni di piombo” resta una categoria dell’immaginario a cui non è possibile rinunciare. Malgrado tutte le nostre buone intenzioni, gli anni Settanta continuano, purtroppo, a essere raccontati e simbolizzati come gli anni del terrorismo.
3. I libri di piombo: una moda letteraria.
Quando ho iniziato a occuparmi di narrativa e terrorismo, i romanzi sugli anni Settanta erano già da qualche tempo un fenomeno di moda. Tanto per dare un’idea, nel solo 2004 erano usciti in libreria almeno dieci romanzi nei quali il tema del terrorismo aveva qualche rilievo. Ricordo tra gli altri Il paese delle meraviglie di Giuseppe Culicchia, Tuo figlio di Gian Mario Villalta e Tristano muore di Antonio Tabucchi. Cito questi tre scrittori per mostrare come il terrorismo rappresenti un tema narrativo interessante per autori molto diversi tra loro sotto tutti i punti di vista.
Nei primi del duemila, la moda del terrorismo non riguardava esclusivamente la letteratura, ma rientrava in un revival diffuso in tutti gli ambiti dell’immaginario artistico: il cinema, la televisione, il teatro, la musica e i fumetti.
Una prima spiegazione di tale fenomeno “culturale” è abbastanza facile: all’inizio del duemila, dopo l’assassinio di Massimo D’Antona (20 maggio 1999) e di Marco Biagi (19 marzo 2002), il terrorismo è tornato al centro del dibattito pubblico. Ma questi eventi – ai quali potremmo aggiungere gli scontri avvenuti durante il G8 a Genova o l’emergenza del terrorismo fondamentalista – non sono spiegazioni sufficienti, anche perché, nel corso degli anni Novanta, i romanzi sul terrorismo erano già cresciuti di numero.
Vanno menzionati anche alcuni fattori più intrinsechi al campo letterario. La moda degli anni di piombo è, infatti, un fenomeno concomitante con il cosiddetto “ritorno al reale” che, secondo molti critici, interessa la letteratura italiana degli ultimi quindici anni o più.
Di tale mutamento, senza dubbio positivo, i romanzi sul terrorismo attestano purtroppo gli aspetti più superficiali e deteriori, come un generico gusto per le “storie vere romanzate” e un ritorno ad una narratività intesa come puro e semplice intrattenimento: gli anni di piombo sono sfruttati come un inesauribile serbatoio di storie per costruire trame coinvolgenti, fondate sulla presenza di azioni “forti”.
I romanzi sul terrorismo evidenziano, insomma, i limiti e le contraddizioni in cui incorrono tanti realismi contemporanei, a proposito dei quali occorrerebbe ricordare le ancora attuali raccomandazioni di Gadda: «il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto… Il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia… ».
Dobbiamo, infine, ricordare la funzione simbolica di questo ritorno agli anni Settanta nel nostro immaginario collettivo. Al fondo di esso vi è, a mio avviso, un profondo e struggente sentimento di nostalgia, che si rapprende in citazioni di oggetti desueti, pezzi musicali e trasmissioni televisive. Per molti autori, si tratta della nostalgia per gli anni della propria giovinezza, ma è anche il rimpianto per un’Italia ricca di fermenti politici, un’Italia in cui i destini individuali sembravano coincidere con quelli collettivi.
Come si vede, questo sentimento presuppone l’idea degli anni Settanta come una età dei Grandi Eventi: una mitizzazione indebita che non aiuta a capire il passato. D’altronde, come ha osservato Emiliano Morreale nel suo bel saggio sulla nostalgia, quest’ultima «non ci dice niente del periodo che rimpiange, ma ci parla in maniera obliqua della situazione presente» (L’invenzione della nostalgia, p. 5). Ed è proprio in questo cortocircuito tra passato e presente che è possibile cogliere il senso profondo di tanta fiction sul terrorismo. Infatti, se è vero che i media hanno diffuso un’immagine luttuosa e buia degli anni Settanta, è possibile chiedersi, tuttavia, se la moda del terrorismo non ci suggerisca qualcosa di opposto, ovvero, che la vera epoca buia, illuminata appena dalla luce smorta dei televisori, sia il presente in cui ci troviamo a vivere.
4. Rimozioni, cesure e proiezioni mitiche: il romanzo contro la storia.
In Italia, la critica si è accorta con un certo ritardo dell’interesse degli scrittori verso gli anni Settanta e il terrorismo. Il primo a farlo e a tentarne un’interpretazione è stato Demetrio Paolin con il suo La tragedia negata, un lavoro contenente molte intuizioni illuminanti, ma viziato da un pregiudizio di fondo di tipo normativo: che la storia del terrorismo debba essere raccontata, per forza di cose, come una storia tragica. In realtà, come qualsiasi fatto umano, il terrorismo può essere raccontato in qualsiasi modo: a seconda dell’effetto estetico che si vuole ottenere, si può adottare un codice comico, grottesco, tragico o onirico. E del resto, uno dei romanzi più interessanti che prendono spunto dal caso Moro è la satira grottesca di Giampaolo Rugarli, La troga, e, spostandoci sul cinema, non si può non ricordare il capolavoro di Mario Monicelli, Vogliamo i colonnelli, una commedia amara ispirata al golpe Borghese.
In sostanza, il peccato originale di tanta narrativa sul terrorismo non è tanto la presunta rimozione del tragico, quanto quella della dimensione storica, politica e ideologica del conflitto. E qui si arriva ad una tesi centrale del mio saggio. A mio avviso, infatti, interpretare la fortuna letteraria degli anni di piombo come espressione positiva del superamento della loro rimozione collettiva è fuorviante. Essa è, infatti, forse segno di patologia piuttosto che di salute, poiché, lungi dal riportare finalmente a galla un passato per troppo tempo dimenticato – quello che con un’espressione alquanto retorica viene considerato il “buco nero” della nostra storia – , la moda dei “libri di piombo” (l’espressione è di Giuliano Tabacco) segnala ancora una volta la nostra difficoltà e resistenza a capire e raccontare il terrorismo.
Non è questa la sede per entrare nei singoli testi, ma vorrei almeno citarne qualcuno a mo’ di esempio, come il romanzo di Rocco Carbone, Libera i miei nemici, dove viene raccontato l’incontro dopo tanti anni tra un’ex-terrorista e il fidanzato di una sua vittima, che insegna nel carcere dove lei è rinchiusa. Oltre all’assenza di coordinate spaziali e temporali, il racconto evita ogni tipo di riferimento ideologico e politico; persino le parole “sinistra” e “destra” sono bandite dal testo. Di conseguenza, la voce narrante e i personaggi sono costretti a formulare delle maldestre perifrasi, delle designazioni generiche e vaghe: i fascisti sono definiti, ad esempio, «i ragazzi di idee politiche opposte alle nostre». La realtà storica del terrorismo sfuma, e la concretezza del romanzo cede il posto all’astrattezza dell’apologo e del racconto morale. Questa deliberata rimozione del carattere politico e ideologico del conflitto ricorda stranamente la scelta suicida da parte dell’ex-segretario del Partito Democratico, Walter Veltroni, di non nominare Silvio Berlusconi, durante la campagna elettorale del 2008, preferendo ricorrere a ridicole perifrasi. In entrambi i casi, siamo di fronte alla paura di confrontarsi con la realtà di un conflitto riconoscendone i termini.
E’ legittimo, a questo punto, chiedersi il perché di questa rimozione e di questa resistenza ad ammettere la dimensione politica e ideologica del terrorismo. Si tratta di una strategia, più o meno consapevole, per non fare luce su quegli eventi? O forse di una conseguenza della fine delle ideologie? O piuttosto di un meccanismo di difesa, ovvero, del bisogno psicologico di costruire delle storie rassicuranti, fondate su banali dicotomie moralistiche?
Di un’identica svalutazione della dimensione politica e ideologica del terrorismo, è sintomatica anche la ricorrenza di donne terroriste, specialmente in quei romanzi incentrati sul terrorismo di sinistra. L’equivalenza simbolica tra il terrorismo e il femminile può assumere sfumature diverse. In molti casi, gli scrittori raccontano storie di donne che abbracciano la lotta armata soltanto per seguire il destino del proprio compagno, come avviene in Tornavamo dal mare di Luca Doninelli, negando loro, quindi, la capacità di motivare in termini politici le loro scelte. Ritorna, dunque, lo stereotipo secondo cui la donna è un essere “fuori” dalla politica, suscettibile di agire da protagonista solo dentro una storia d’amore.
In altri casi, il motivo dell’irrazionalità femminile balza in primo piano, assumendo contorni patologici: penso a La guerra di Nora di Tavassi La Greca dove la protagonista, un’ex-terrorista che torna a Roma dopo tanti anni vissuti all’estero, soffre di una forma di schizofrenia che la spingerà al suicidio. Altre volte, infine, alla follia femminile fa da contraltare la razionalità impotente dei mariti, come nel Marito muto di Castellani o nella storia di Giulia e Nicola raccontata da Giordana nella Meglio gioventù.
Una strategia altrettanto efficace per depotenziare la valenza politica del terrorismo è il ricorso al mito. Gli scrittori possono rileggere gli eventi attraverso il filtro di alcuni miti sovra-temporali. Nel mio libro mi sono interessato maggiormente all’uso del mito edipico, ma c’è anche quello del complotto, che funge da carburante per molti noir: da Strage di Loriano Machiavelli a Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo. Si badi bene: non intendo affatto negare l’esistenza di trame, complotti e “zone grige” nella storia italiana, ma, più modestamente, osservare che, sul piano letterario, il complotto diventa molte volte uno schema narrativo monotono e ripetitivo, funzionale al puro e semplice intrattenimento e che, per di più, svolge spesso una funzione consolatoria.
Per quanto riguarda il mito edipico, il suo campo di applicazione è in genere il terrorismo rosso. Quest’ultimo sarebbe espressione di uno scontro generazionale configurabile nei termini dell’uccisione dell’autorità paterna identificata nello Stato borghese.
Leggendo con attenzione i romanzi mi sono, tuttavia, accorto che quella edipica era una categoria inadeguata e obsoleta che non aveva alcun riscontro nella realtà dei plot. Il confronto tra padri e figli è al centro di molte trame – lo si incontra già in Caro Michele, un romanzo di Natalia Ginzburg del 1973- ma quasi mai si risolve in un vero e proprio conflitto. Questo perché il padre non esercita una funzione autoritaria e castrante, ma è al contrario una figura debole e fragile. Il padre di Anatomia della battaglia di Giacomo Sartori, uno dei romanzi migliori su questo tema, sembra quello più vicino ai modelli primo-novecenteschi, e, tuttavia, a dispetto della sua apparenza tirannica, è talmente stolto da risultare persino ridicolo. Ancor più significativi mi sembrano quei romanzi, come Alonso e i visionari di Anna Maria Ortesee Lo Spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo, dove pure si fa riferimento, in modo abbastanza esplicito, al conflitto edipico. Quest’ultimo, infatti, pur sopravvivendo come tema, non è più un dispositivo simbolico privilegiato in grado di orientare la trama del racconto.
Come si sarà forse intuito, la letteratura sul terrorismo registra quel processo di “evaporazione del padre”, già annunciato da Lacan in piena contestazione studentesca, e che negli ultimi anni è al centro del dibattito grazie ai contributi autorevoli e influenti di Luigi Zoja e, soprattutto, di Massimo Recalcati.
5. Conclusioni provvisorie.
Da quanto detto finora, sembrerebbe che il bilancio sul tema del terrorismo nella narrativa italiana debba chiudersi con un saldo negativo. In effetti, sono davvero pochi i romanzi che hanno saputo raccontare questo fenomeno storico all’altezza della complessità che meriterebbe, senza scadere nei cliché e senza censure.
Dopo il picco di pubblicazioni raggiunto intorno alla metà degli anni Zero, si assiste ultimamente ad un salutare indebolirsi della moda dei romanzi sul terrorismo e, contemporaneamente, ad un’insofferenza da parte degli autori verso i loro moduli narrativi convenzionali e ripetitivi, con la conseguente ricerca di nuove strategie di mise en récit. Faccio alcuni esempi.
Nel recente Le colpe dei padri, Alessandro Perissinotto tesse una trama che unisce passato e presente attorno al grande tema del doppio. Il protagonista di questo romanzo è Guido Marchisio, un cinico dirigente d’azienda, il quale viene a sapere, per caso, dell’esistenza di un suo sosia di nome Ernesto Bolle. Tale coincidenza apparentemente insignificante finisce per ossessionarlo. Guido scopre di non avere in realtà alcun sosia: Ernesto Bolle è il suo stesso nome di quando era bambino, prima che i suoi veri genitori, due membri della Brigate Rosse, morissero in un incidente d’auto, e venisse affidato ad una nuova famiglia. Senonché, tale identità alternativa dimenticata finisce per soppiantare l’altra, mettendo in discussione tutte le certezze che hanno guidato fino a quel momento la sua vita.
Malgrado il suo stile piuttosto piatto e grigio, Le colpe dei padri (2013) presenta una trama ben congegnata e puntellata da numerosi inserti saggistici. Il suo limite più vistoso risiede invece nell’eccessivo credito concesso al ruolo giocato dalla lotta armata in Italia. Un giudizio di per sé sintomatico della centralità e del fascino del terrorismo nel nostro immaginario.
Nel suo ultimo romanzo, La legge dell’odio (2012), Alberto Garlini ripercorre la carriera di un giovane fascista friulano, Stefano Guerra, la cui storia s’intreccia con quella delle trame nere e della strage di piazza Fontana. L’autore sposa la tesi della “doppia bomba” avanzata da Paolo Cucchiarelli in una sua controversa inchiesta sulla strage del 12 dicembre. Al di là della dubbia attendibilità di una tesi del genere (che ritroviamo anche nel film molto discusso di Giordana, Romanzo di una strage), la sua fortuna nel cinema e nella letteratura attesta, ancora una volta, l’egemonia, nel discorso pubblico sul terrorismo, del giornalismo e dei media rispetto al rigore storico.
La scelta di raccontare gli anni di piombo attraverso il punto di vista di un terrorista neo-fascista è coraggiosa e controcorrente. Gli unici precedenti sono costituiti da Occidente di Ferdinando Camon e da Avene selvatiche di Alessandro Preiser.
La lunghezza del romanzo (circa 800 pagine) è di per sé sintomatica di un generale ritorno a modi di scrittura realistici e di una rinnovata fiducia nel potere del racconto. E, tuttavia, La legge dell’odio illustra bene i limiti e gli equivoci in cui incappano molti realismi contemporanei. Le continue scene di violenza sempre uguali e il ritmo veloce, frastornante e sincopato della sua trama spossano il lettore e ne anestetizzano il giudizio critico. Sulla volontà documentaristica e di denuncia finisce per avere il sopravvento il gusto per l’azione fine a se stessa, per la trama ben architettata e avvincente, caratteristica di molti noir e romanzi di consumo. Del resto, le stesse scelte stilistiche – penso, ad esempio, alla lunghezza dei periodi, che in media non superano un rigo – sembrano volersi adeguare a un pubblico di lettori più ampio possibile. Qualcuno ha addirittura paragonato La legge dell’odio al tolstojano romanzo di Jonathan Littell, Le benevole (nel quale, a dire la verità, la funzione di voce narrante viene affidata direttamente al protagonista, un ex-ufficiale delle SS; mentre, nel romanzo di Garlini, il narratore è comunque esterno). A voler essere onesti, i suoi modelli vanno cercati piuttosto in Romanzo criminale di G. De Cataldo e Hitler di G. Genna.
Viene il dubbio che, per raccontare una realtà completamente usurata e fagocitata dai media come il terrorismo, la forma del romanzo mimetico tradizionale non sia quella opportuna, perché più esposta alle trappole degli stereotipi, a quello che Gadda chiamerebbe «il residuo fecale della storia».
Sino ad oggi, i risultati artistici più interessanti si sono avuti quando, rinunciando alla pretesa di raccontare il terrorismo per come è realmente andato, si è scelto di sondare degli anni Settanta, non i singoli eventi storici, ma quell’entità più complessa, ambivalente e sintomatica, costituita dall’immaginario. Penso ad esempio al romanzo del 2008 di Giorgio Vasta, Il tempo materiale.
Sullo sfondo di una Palermo desolata, del tutto inedita nella letteratura, e che richiama semmai quella raccontata dai film di Ciprì e Maresco, Vasta allestisce una grottesca parodia dell’avventura brigatista, nella quale un gruppetto di ragazzini mette in scena un sequestro assai simile a quello compiuto ai danni del leader democristiano, qui però sostituito da un ragazzino brutto e malaticcio. Per comunicare fra loro i tre precoci rivoluzionari inventano una lingua in codice, l’«alfamuto», un linguaggio gestuale che riproduce le posture delle icone televisive, come le spalle arcuate a falco di “Yuppi Du” di Celentano o il salto della staccionata di Nino Castelnuovo nella pubblicità dell’olio Cuore.
I modelli ricorrenti e gli stereotipi rassicuranti dei romanzi sugli anni Settanta vengono ribaltati da una serie di scelte stilistiche e narrative stranianti che fanno virare il romanzo verso l’allegoria surreale, la fiaba nera e allucinata. Il tempo materiale può essere, quindi, considerato esempio e modello di un realismo inteso, non come copia della realtà, ma come trasgressione, come squarcio nella rete delle nostre abitudini percettive, che ci costringe a guardare con occhi nuovi il passato.