Territori Occupati: il Rapporto della Relatrice speciale della Nazioni Unite

l 13 gennaio scorso, nella Sala Zuccari del Senato, la Relatrice speciale Onu per i territori occupati, Francesca Albanese, ha presentato il Rapporto sulla situazione in Cisgiordania, già consegnato allo Human Rights Council dell’ONU lo scorso settembre. Al suo fianco il professor Alon Confino, israeliano, docente all’Umass Amherst negli Stati Uniti, direttore dell’Istituto per gli Studi sull’Olocausto, il genocidio e la memoria. Egli è uno degli estensori della Jerusalem Declaration on Antisemitism, pubblicata nel 2021, un documento (tra i firmatari Abraham Yehoshua e Carlo Ginzburg) che costituisce un prezioso strumento per chi, critico delle politiche messe in campo da Israele nei confronti dei palestinesi, non si rassegna ad essere liquidato per questo con la scontata e pur tuttavia sempre infamante accusa di antisemitismo. Promotori dell’incontro la rivista Altraeconomia, in collaborazione con il senatore Tino Magni dell’Alleanza Verdi e Sinistra italiana e con Amnesty International Italia.
Necessità di un cambio di paradigma
Dopo aver riaffermato la gravità della situazione sul terreno per quanto riguarda la violazione dei diritti umani dei palestinesi ed elencato la serie di abusi e crimini contro l’umanità di cui Israele, potenza occupante, si macchia, la Relatrice ha sottolineato come l’obiettivo del Rapporto sia quello di avviare un cambio di paradigma nell’esame della questione, che va decisamente inquadrata, anche a fronte del fenomeno permanente dell’occupazione, attraverso la lente del principio di autodeterminazione.
Il cambio di paradigma mette anzitutto in discussione gli approcci fin qui adottati rispetto all’occupazione, affrontata dagli osservatori internazionali prevalentemente entro le seguenti tre visuali: (a) quella umanitaria, che vede l’occupazione come una emergenza da gestire dal punto di vista umanitario e non come un questione da risolvere; (b) quella politica, che inquadra la situazione come un conflitto tra parti simmetriche da risolversi con negoziati; (c) quella economica, che si basa sul presupposto che favorendo il miglioramento delle condizioni economiche la situazione si normalizzerà. Nessuno di questi approcci affronta le radici del conflitto, vale a dire l’occupazione militare dei territori palestinesi e la conseguente violazione sistematica dei diritti umani, civili e politici dei palestinesi, e del diritto internazionale.
La Relatrice afferma: “L’occupazione israeliana è illegale perché ha dimostrato di non essere temporanea, è deliberatamente amministrata contro gli interessi della popolazione occupata e ha portato all’annessione del territorio occupato, violando la maggior parte degli obblighi imposti alla Potenza occupante. La sua illegittimità deriva anche dalla sistematica violazione di almeno tre norme imperative del diritto internazionale: il divieto di acquisizione del territorio mediante l’uso della forza; il divieto di imporre regimi di sottomissione, dominio e sfruttamento alieni, compresa la discriminazione razziale e l’apartheid; e l’obbligo degli Stati di rispettare il diritto dei popoli all’autodeterminazione”.
Un nuovo approccio
È indispensabile, secondo Albanese, adottare un nuovo approccio a partire dal lessico che si utilizza. Piuttosto che parlare di insediamenti si dovrebbe usare il termine colonie e inquadrare le modalità specifiche dell’occupazione israeliana dei Territori come pratiche tipiche del colonialismo da insediamento. Come indicato dal compianto Patrick Wolfe, e ribadito da Lorenzo Veracini (vedi intervista sul n. 102-103 de Gli Asini), tale forma di colonialismo si basa sulla logica di eliminazione del nativo e la cancellazione del carattere indigeno della terra colonizzata. Le colonie sono fondate con lo scopo di soggiogare ed espropriare i nativi assicurando il controllo permanente della potenza occupante su aree specifiche. Inerente al colonialismo da insediamento è la violazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione. Solo assicurando il diritto all’autodeterminazione sarà possibile soddisfare le legittime rivendicazioni del popolo palestinese, prima fra tutte l’emancipazione dall’occupazione.
Qualsiasi soluzione che perpetui l’occupazione, si afferma nel Rapporto, che non riconosca le asimmetrie di potere tra il popolo palestinese soggiogato e lo Stato occupante di Israele e che non affronti una volta per tutte il colonialismo israeliano, viola, tra le altre disposizioni fondamentali del diritto internazionale, il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.
Il rapporto si sofferma sugli aspetti legali e sulla discussione nata e sviluppatasi a seguito del processo di decolonizzazione a partire dagli anni ’60 e dalla Risoluzione 1514 (XV) (1960) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che recita: “Tutti i popoli hanno il diritto inalienabile alla completa libertà, all’esercizio della loro sovranità e all’integrità del loro territorio nazionale. Tutti i popoli hanno il diritto all’autodeterminazione; in virtù di tale diritto determinano liberamente il proprio status politico e perseguono liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”. A questo principio si sono appellati in più occasioni, nei 70 anni circa che intercorrono tra l’occupazione della Namibia e l’occupazione dell’Ucraina, i tribunali internazionali quali la Corte internazionale di Giustizia (ICJ), la International Criminal Court (ICC)37, l’Assemblea Generale, il Consiglio di Sicurezza, ecc.
Con la guerra del 1967 e l’inizio dell’occupazione israeliana, ci ricorda Albanese, Il Consiglio di Sicurezza, nella risoluzione 242 (1967), sottolineò “l’inammissibilità dell’acquisizione di territorio con la guerra” e chiese il “ritiro delle forze armate israeliane[i]” dal territorio che Israele aveva occupato, sottolineando il diritto di tutti nella regione a “vivere in pace all’interno di confini sicuri e riconosciuti, liberi da minacce o atti di forza”.
Nel 2016, anche il Consiglio di Sicurezza – generalmente paralizzato su questo tema dal sostegno degli Stati Uniti d’America a Israele – ha dichiarato che “l’istituzione da parte di Israele di insediamenti nel territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est, non ha validità legale”, condannando fermamente l’impresa come “una flagrante violazione del diritto internazionale.
Nonostante questi avvertimenti e condanne, Israele ha considerato sin dall’inizio i Territori terra nullius con l’obiettivo di creare uno Stato unitario dal Giordano al mare attraverso l’annessione della Valle del Giordano e la creazione di bantustan palestinesi demilitarizzati. Per realizzare questo progetto era imperativo prevenire, da un lato, una possibile unità territoriale per i palestinesi operando una frammentazione territoriale e, dall’altro, lo sviluppo economico attraverso l’appropriazione delle risorse naturali dei nativi. Altrettanto importante risultava la cancellazione dell’identità palestinese attraverso l’annullamento dei diritti culturali e civili al fine di annullarne l’esistenza politica e la resistenza.
La stessa richiesta, di per sé ragionevole, di avviare negoziati volti a risolvere il problema appare pretestuosa se si considera che si dovrebbe negoziare e accettare in tutto o in parte uno stato di illegalità imperante quale quello dei Territori occupati e delle sue colonie.
Riportare la questione al centro del dibattito internazionale
È necessario rimettere la questione cardinale dell’autodeterminazione al centro del discorso politico e umanitario internazionale. Entro tale quadro l’uso illegale della forza va considerato un atto di aggressione, una violazione dello jus ad bellum, che non può essere liquidato con giustificazioni di autodifesa preventiva. Tale violazione provoca conseguenze rispetto alla Carta delle Nazioni Unite e alla legge della responsabilità dello Stato. Violazioni del diritto internazionale di questa gravità rendono a) imperativo e non derogabile l’immediato ritiro di Israele cosicché la sovranità sia restituita al popolo palestinese e (b) necessarie le riparazioni come passo verso la giustizia e la pace sia per i Palestinesi sia per gli Israeliani.
Le violazioni descritte nel Rapporto espongono la natura dell’occupazione israeliana; un regime intenzionalmente acquisitivo, segregazionista e repressivo progettato per impedire la realizzazione del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Diritto, quest’ultimo, che può essere realizzato solo attraverso lo smantellamento una volta per tutte dell’occupazione coloniale israeliana e delle sue pratiche di apartheid.
L’eccezionalismo dimostrato nei confronti di Israele, sinora di fatto esentato dal rispetto del diritto internazionale, non solo mina l’efficacia del diritto internazionale stesso, ma, generando una cultura di impunità, offusca l’immagine, l’affidabilità e il ruolo della comunità internazionale e delle Nazioni Unite, compresi i suoi organi giudiziari. Per evitare questo è indispensabile che gli Stati terzi non riconoscano come lecita, e tanto meno favoriscano, la situazione illegale creata da atti internazionalmente illeciti da parte di Israele.
Mentre scriviamo, giungono notizie molto preoccupanti sia dai Territori sia da Israele: l’ultimo raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin ha lasciato sul terreno dieci vittime. La risposta, immediata, è stata altrettanto cruenta: nove morti israeliani, civili falciati all’uscita di una sinagoga. E da ultimo un ragazzo palestinese di appena 13 anni che impugna una pistola e fa fuoco su un gruppo di ebrei ferendone gravemente due. Un arabo israeliano intervistato da Chiara Cruciati sul Manifesto del 27 gennaio, ribadisce il punto illustrato da Francesca Albanese: «Dalla comunità internazionale non vogliamo che ci dica che Ben Gvir è un estremista. Vogliamo che faccia rispettare il diritto internazionale e ponga fine all’occupazione. Quanto avvenuto a Jenin è il risultato di quel crimine originario».