Teachers leave them kids alone

We don’t need no education
We don’t need no thought control
No dark sarcasm in the classroom
Teachers leave them kids alone
Hey teachers live them kids alone
All in all it’s just another brick in the wall
All in all you’re just another brick in the wall.
(Another Brick in the Wall, Pink Floyd)
In questi giorni in cui imperversano dibattiti, interventi e comunicati stampa sulla didattica a distanza e la chiusura della scuola, sembra di leggere da parte di molti una grande nostalgia della scuola che esisteva prima della Covid-19. Sembra serpeggiare tra il personale scolastico un desiderio trasversale di “ritorno a casa”, come se quella scuola fosse il migliore dei mondi possibili. Come se i suoi mali endemici, il comune disagio di alunni e insegnanti, la sua sostanziale inefficacia educativa, il suo essere più un’istituzione manipolatoria che conviviale, “un’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è”, come scriveva Illich in “Descolarizzare la società”, siano stati annullati dalla scuola a distanza. Come se bastasse riavvicinare i corpi in presenza reciproca all’interno di un’aula e di un edificio, in un tempo stabilito, che ecco magicamente ristabilirsi i valori pedagogici più alti su cui la scuola si dovrebbe fondare e che la didattica a distanza ha solo temporaneamente oscurato.
Nello stesso tempo ciò che il distanziamento sociale di questi mesi ha messo in luce è la scomparsa di bambini e adolescenti dal nostro orizzonte sociale, relegati dentro le case con un solo strumento di connessione con l’esterno: gli schermi per la didattica a distanza dove incontrare maestri e insegnanti. Mentre gli animali domestici, i cani, hanno la deroga per la passeggiata, i bambini e i ragazzi non ne hanno diritto. Come se i bambini e gli adolescenti esistano solo in quanto studenti e con le scuole chiuse abbiano perso l’unica identità sociale riconosciutagli. In molti si sono affrettati a ribadire che la scuola ha un ruolo fondamentale nella vita sociale dei giovani come rito di appartenenza a una comunità, non si tratta solo di educazione e istruzione ma del conferimento a migliaia di discepoli di un loro statuto in seno alla società. Infatti che cos’è la scuola se non il rito di iniziazione più onnicomprensivo, lungo, costoso e spesso noioso e distruttivo che le società moderne abbiano messo in campo? Sarà per questo allora che mentre un virus sta profondamente mettendo in crisi le istituzioni e le certezze delle nostre società capitalistiche, che delle giovani generazioni si continua a parlare solo nel quadro legislativo del ministero della Pubblica Istruzione, come si faranno gli esami, come le valutazioni, quando e come si rientrerà a scuola affinché il mondo produttivo possa riprendere a funzionare. A parlare di loro sono soprattutto maestri e insegnanti, qualche voce sporadica di psicologi e pediatri, il mondo della letteratura per ragazzi che attraverso autori, educatori e librai dà ampio sfogo e sfoggio di sé attraverso letture di albi illustrati in videoconferenza. Insomma, in questa situazione di emergenza, il senso di responsabilità dei vari pedagoghi istituzionali tende ad assorbire ancora di più la loro vita e le loro energie “perché nessuno sia lasciato indietro” in uno stretto dialogo tra istituzione e studenti affinché quella ritualità onnicomprensiva non venga meno. Si sta facendo del ruolo di organizzatore sociale della scuola una bandiera non pensando o non ricordando quale altre funzioni latenti sono dietro questo ruolo: custodia, manipolazione, ammaestramento, omologazione, selezione. La scuola per sua stessa natura tende a rivendicare e assorbire totalmente il tempo e le energie di chi ne fa parte, non solo degli alunni ma anche degli insegnanti, ieri nella soffocante atmosfera delle aule, oggi fin dentro le case attraverso gli schermi digitali.
Se è vero che prima della Covid-19, come oggi con la pandemia in corso, la scuola ordina e organizza, istituzionalizzandolo, un cospicuo tempo di vita di migliaia di ragazzi, la differenza è che prima almeno i giovani potevano sgattaiolare trovando altre realtà di riferimento. Realtà più di rifugio che di conquista e desiderio, più private che pubbliche, più relazionali-intime che pratico-esperienziali-lavorative, ma almeno c’erano gli amici, gli amori, i parchi, lo sport, i bar, i cinema, i grandi magazzini, le parrocchie, la musica, piccole forme di lavoro e apprendistato, altri adulti incidentali, associazioni e progetti di educazione e assistenza, poco, pochissimo, la città, la strada, la piazza. Ma era pur sempre qualcosa con cui diluire la loro unica identità scolarizzata.
È vero, più scompare il mondo fuori dalla scuola, più si assottigliano e vengono mortificate e manipolate le possibilità del libero apprendimento dove non si confondono come spesso accade nella scuola che conosciamo, insegnamento e apprendimento, promozione e istruzione, diploma e competenza, facilità di parola e capacità di dire qualcosa di nuovo, e più la scuola amplifica la sua centralità nella vita dei ragazzi, e la sua insostituibilità. E così la bandiera della scuola come organizzatore sociale viene issata a rivendicare il suo ruolo, a sottolineare quanto sia utile e preziosa per dare ritmo alla vita delle famiglie oltre che degli studenti, e quanto l’economia ne ha bisogno per continuare a produrre. In altri termini si potrebbe anche dire che si conferma quanto la scuola sia una delle principali forme di manipolazione della società capitalista di mercato che ha come scopo la formazione di individui adatti e utili alla produzione industriale e al consumo.
A quanto pare una delle ragioni per cui in Germania il numero dei morti a causa del coronavirus è molto più basso che nel resto d’Europa dipende dal fatto che la chiusura delle scuole ha coinciso con la chiusura del mondo produttivo e così gli studenti-nipoti non hanno diffuso il contagio tra le generazioni più a rischio, i nonni, potendo restare a casa con i genitori e circoscrivendo il contagio nell’ambito familiare ristretto. Ovvero il legislatore ha coordinato l’ovvio: il mondo della scuola con il mondo produttivo. Come si pensa in Italia di ripartire senza un ritorno a scuola? Forse qui in Italia è lecito pensare ancora alla donna come casalinga e quindi mamme e figli a casa, uomini a lavorare, insegnanti agli schermi.
Su questa traiettoria diventa evidente quanto sia assurdo crescere in una società che riconosce i giovani esclusivamente come studenti in seno non a una società ma a un sistema produttivo. Anche questo vuol dire crescere in una società assurda. Cioè aver confinato milioni di giovani a un solo orizzonte sociale, quello scolastico. Eclatante in questo senso è il decreto legge dell’8 aprile che all’articolo 7 vieta agli studenti privatisti la possibilità di fare a distanza gli esami preliminari per accedere alla maturità, costringendoli a farli solo in presenza e quindi rimandandoli a quando l’emergenza sarà cessata senza individuarne modalità e tempi. I privatisti, non essendo studenti della pubblica istruzione, ma giovani fuoriusciti dalla scuola per le più diverse ragioni, non si vedono riconosciuto nessuno statuto e quindi possono essere abbandonati a se stessi e andare a ingrassare l’ampio numero dei dispersi scolastici. Anzi di più, non garantendogli per legge, come per gli altri studenti-cittadini, il raggiungimento della maturità alle stesse condizioni, gli si preclude la possibilità di continuare il loro percorso di formazione e apprendimento sospendendo così i loro diritti civili e sociali.
Ma la scuola si dice, non è solo il luogo fondamentale della vita sociale dove le giovani generazioni costruiscono la loro appartenenza a una società, è anche il luogo vitale dell’apprendimento, della partecipazione, del dialogo e dell’ascolto, è dove si realizza l’apprendimento e si sviluppa l’elaborazione culturale attraverso la relazione tra pari e gli insegnanti come mediatori. Ma se fosse proprio così allora non si spiegherebbe l’alto tasso di dispersione scolastica e soprattutto quanto la scuola proprio alle fasce più fragili e marginali non riesca a dare risposta allontanandole e rigettandole. Nel 2018 l’Istat ha conteggiato 598mila giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno conseguito solo il diploma di terza media (criterio, questo, suggerito dagli organismi internazionali per calcolare i numeri reali della dispersione scolastica in un paese). Tra questi si rileva un’alta percentuale di ragazzi di origine straniera e quella delle ragazze in forte crescita. Come sempre l’Italia maglia nera in Europa.
A tutt’oggi basta che un ragazzo “soffra” una ipersensibilità, o che abbia delle ombre caratteriali e inconsapevoli di resistenza e conflittualità nei confronti del mondo, degli adulti e dei propri coetanei, o delle caratteristiche di minorità sociale, che eccolo non essere in grado di finire la scuola, il cui percorso non si chiude con l’obbligo scolastico ma finisce veramente solo con la maturità. E alla maturità arrivano solo i più forti psichicamente e socialmente o i più ricchi. È proprio negli ultimi anni delle superiori che aumenta infatti il numero degli abbandoni. Studenti come maratoneti che non riescono ad arrivare al traguardo, spossati, disidratati da una lunga marcia di cui alla fine non riescono più a cogliere il senso.
La scuola è fortemente inadeguata a raccogliere la sfida del disagio giovanile di questi tempi e delle grandi mutazioni in atto. Sembra che la scuola sia il luogo dove depositare belle parole d’ordine, rispettabilissime, che nessun insegnante si sognerebbe di smentire nella teoria come buone, giuste, auspicabili, patrimonio di tutti, ma che di fatto risuonano a vuoto e non hanno nessun peso e impatto positivo con il mondo soprattutto della pubertà e dell’adolescenza. In effetti la scuola sembra che sia un luogo ben poco pensato per i ragazzi, aule come pollai, edifici orridi e cadenti, disadorni e impropri a qualsiasi attività che esuli dal banco e dallo stare seduti su una sedia per ore e ore al giorno, ma che sia soprattutto un luogo di lavoro per gli adulti, l’impiego, e per alcuni la strada salvifica della propria creatività.
Ora c’è la didattica a distanza ma siamo sicuri che prima una scuola in presenza garantisse davvero l’apprendimento come esplorazione, scoperta, costruzione di conoscenza attraverso esperienze dotate di senso, cariche di significati?
La scuola in presenza non garantisce l’apprendimento e “il saper stare al mondo”. La scuola in presenza non garantisce che lo studente sia posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi.
E non garantisce che i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, e che sono portatori di domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.
Non garantisce una scuola come la immaginava Dewey “un embrione di vita comunitaria, resa attiva da tipi di occupazione che riflettano la vita della più vasta società, e permeata dello spirito dell’arte, della storia e della scienza”.
Una scuola pubblica e di presenza a differenza della Dad non garantisce l’acquisizione da parte del ceto pedagogico che sia utile condividere pratiche di scambio, di scrittura collettiva, di corrispondenza, di ascolto, di attività di scoperta degli spazi e del corpo come ci ricordano da molti anni ormai i diversi movimenti e le diverse esperienze pedagogiche che si battono per una didattica viva, laboratoriale e vicina alle grandi domande non di alunni ma di giovani persone.
La scuola si è poi posta sempre e solo la domanda sbagliata: “Che cosa dovrebbe imparare una persona?”, ma non si è mai fatta veramente la domanda suggerita da Ivan Illich: “Con quali oggetti e quali persone possono voler mettersi in contatto i discenti per poter imparare?”.
Meno che mai la scuola sembra capace di una proposta didattica che sappia sollecitare l’immaginario sui futuri possibili. Se il presente e le sue connessioni con il passato non entrano nelle classi, come può entrarci il futuro? È solo allenando l’immaginazione del futuro che poi questo può premere sul presente e nutrire così sentimenti di cambiamento per se stessi e per gli altri. Questo spirito è difficile rintracciarlo nelle aule di scuola e vederlo nei percorsi di crescita dei ragazzi.
La scuola in larghissima misura non si è mai saputa assumere questi compiti essenziali ben prima della didattica a distanza. Dovremmo smettere di confondere le buone pratiche di singoli attori in campo con lo stato di salute generale di un’istituzione come la scuola. E non bisogna fare in modo che le buone pratiche di singoli o di gruppi nascondano ciò che nella scuola strutturalmente, antropologicamente, burocraticamente impedisce la diffusione di quelli che dovrebbero essere i suoi principi e le sue pratiche fondanti.
La didattica a distanza ci fa riscoprire non solo quanto fa la differenza l’essere vicini con i corpi condividendo uno stesso luogo e quanto i luoghi di incontro collettivo siano fondamentali, ma soprattutto a quanta inazione, inedia, passività abbiamo ridotto quei luoghi, privi di azione, espressione corporea, manualità, attività laboratoriale, lavori di gruppo, ricerche, pratiche artigianali e artistiche, relazioni con l’esterno, esplorazioni nella città e nell’ambiente eccetera. La compresenza si è ridotta al rimanere incollati alle sedie, studiando su orribili libri di testo nozioni inutili e già dimenticate prima di essere apprese perché in nessun modo collegate all’esperienza di vita dei ragazzi e al loro innato desiderio di apprendere e conoscere, tutto ciò nel perenne sibilo dell’insegnante e del suo ssshhhh tra un whatsapp e un altro.
Lì dove si prova a tessere l’ordito di un’altra scuola bisognerebbe imparare a distinguere quanto ciò possa risultare necessario più all’educatore, come atto narcisistico creativo, che non come atto politico e di amore verso gli alunni, la scuola e una società migliore tutta. La scuola non offre nessuno strumento robusto e serio per affrontare il mondo di oggi, per comprenderlo, per criticarlo, per orientarcisi, nessuno strumento per stare al mondo e invece nutre di noia un cospicuo tempo di vita di migliaia di giovani, lasciandolo colpevolmente riempire da altri educatori ben più influenti e pervasivi, il capitalismo, il neoliberismo, il fascismo, il consumismo, l’idiozia imperante di un tempo che muore e scorre velocemente attraverso il gesto delle dita sul proprio touch screen. In un attimo il pomeriggio e la notte sono passati senza lasciare nessuna traccia solo un leggero stordimento, intorpidimento fino alla prossima sveglia, in un rituale che molto poco assomiglia a un agire in seno alla propria comunità ma molto a un irrigidimento, a un controllo sociale fino ai sinistri sarcasmi in classe, ai giudizi gratuiti, ai voti sommatori, alle valutazioni moraleggianti. Viene da pensare che adulti e ragazzi, tutti noi, non siamo all’altezza dei grandi cambiamenti di quest’epoca che un virus divenuto pandemia ha così velocemente e drammaticamente svelato. Eravamo e siamo, chi più, chi meno, già ammalati di “didattica a distanza”, di virtualità, di irrealtà, di distanziamento sociale, di irresponsabilità verso il nostro tempo.
È incredibile poi che solo ora sperimentando la Dad molti insegnanti si scoprano, loro stessi, analfabeti digitali perché poco e male sanno usare un computer e i suoi programmi. Ma ancora più grave è che solo ora scoprano, dopo tutta la retorica sulle Lim, sulle aule di informatica, sul digitale, sull’innovazione nella scuola, che almeno dal Duemila abbiamo allevato, il capitalismo ha allevato, una generazione disabile digitalmente che ha familiarità esclusivamente con gli smartphone che sono tutt’altra cosa da un computer inteso come strumento di lavoro. È stata la generazione che veniva dalle macchine da scrivere, dalle Olivetti, da quel tempo remoto, poco prima di internet, che usava il fax e poi i floppy disk e prima ancora il ciclostile, la stampa a caratteri mobili, la linografia, la composizione grafica, ovvero pratiche che contemplavano ancora una certa manualità, a imparare a utilizzare il computer per scrivere, comporre e creare giornali, fare ricerca, non le generazioni nate con il touch screen dei telefoni. Da genitori e insegnanti questo lo avremmo già potuto osservare e capire prima della didattica a distanza.
Il caos in cui si sono ritrovati alunni, insegnanti e famiglie è dovuto proprio a questo, un mondo che si è nutrito e drogato di virtuale ma che non sa assolutamente utilizzare gli strumenti tecnologici per i propri scopi e ne è solo un consumatore e un fruitore passivo. Questa disabilità rende evidente non solo quanto siamo consumatori ma anche consumati da mezzi di cui non abbiamo il benché minimo controllo né competenza.
Il computer, diversamente da altri dispositivi mobili come smartphone, tablet, palmari, lettori mp3, eccetera, può essere altro dal futile e dannoso intrattenimento digitale, può essere uno strumento che ha in sé grandi potenzialità attraverso cui estendere il raggio d’azione di ciascuno all’interno di una dimensione creativa e lavorativa. Imparare a usare il computer non vuol dire dismettere le abilità manuali, le pratiche corporee o le facoltà dell’immaginazione, per altro davvero poco frequentate a scuola da insegnanti e studenti, ma anzi può rafforzare la capacità di fare la spola tra pratiche concrete e pensiero/astrazione. Il computer rimane fisso su un tavolo, non ti segue ovunque come i dispositivi mobili e non permea tutto lo spazio/ tempo di vita. In questa corsa vertiginosa di continuo aggiornamento dei dispositivi questo oggetto che ci appare sempre più obsoleto, appartiene effettivamente a un’altra epoca, a un’altra cultura che riconosciamo in quei comandi che hanno come simbolo il floppy disk per salvare, la lente di ingrandimento per cercare, la forbice per tagliare, la gomma, il tampone, il secchiello, il lazzo, la penna stilografica, il contagocce e così via, simboli che sono il retaggio dell’immaginario di un’altra epoca che le nuove generazioni possono imparare a utilizzare ma senza ricondurli a oggetti di uso comune non appartenendogli gli input psichici e culturali che li hanno creati. Quando li apostrofiamo nativi digitali in realtà stiamo dicendo “consumati dall’intrattenimento digitale” attraverso i vari dispositivi mobili. Questo nulla ha a che vedere con il computer come strumento di lavoro che di per sé potrebbe rivelarsi meno didattica a distanza di quello che pensiamo.
E allora se è vero che “fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi”, se mai ci sarà un ritorno a casa, non dovremmo festeggiare quella casa ritrovata come il migliore dei mondi possibili che il virus ha momentaneamente oscurato. Sarebbe la più perversa delle restaurazioni, perché è da quel prima che si sono addensate quelle tenebre, tenebre che riguardano l’economia, l’ecologia e i cambiamenti climatici, la salute pubblica, il modo di produrre i generi alimentari e di sfruttare le risorse, l’inquinamento, tutte quelle gioie violente che non possono che avere fine violenta. Non è in quella casa che si può tornare ma una nuova bisognerà immaginarla, deve nascere una nuova utopia, un desiderio di ricostruzione, di politica, di essere cittadini prima che studenti, e sarebbe giusto cominciare a pensare al mondo che verrà da dentro le nostre aule, non come vecchio mattone di quel muro di clausura che ci eravamo costruiti ma come un mattone da abbattere.
La Dad è una parentesi che si prolungherà sul futuro se il prima che l’ha generata non verrà compreso e profondamente modificato. Torniamo in classe e guardiamo quei banchi e quelle sedie lasciate vuote per tante settimane non con nostalgia ma con l’impulso di gettarle dalla finestra, anche quella era didattica a distanza.