Sulla frontiera, da Ventimiglia a Claviere

Ero venuto a Ventimiglia due anni fa, nei giorni di Natale e poi di Pasqua, per capire da vicino la situazione di questa “nuova” frontiera e mappare le persone, le forze che portavano avanti un impegno militante a favore dei migranti in transito. Oggi la cittadina alla foce del Roya, sul confine tra Italia e Francia, ha un volto decisamente diverso. Rimane il quadro impressionista che è la città vecchia, con le sue case smangiate dall’umidità che si stringono sul promontorio; rimane la parte nuova anonima e scostante con le sue strade di vetrine tra la stazione e la spiaggia; rimane il torrente Roya a consegnare alle onde le acque gelide azzurre di neve che riversano le Alpi ben visibili in cima alla valle.
A essere cambiato è il flusso di migranti e il loro stazionamento. Non ci sono i numeri di qualche anno fa, quando si arrivava tranquillamente a quattro, cinquecento persone accampate in condizioni disumane sotto il cavalcavia dell’autostrada, nel greto del fiume. Oggi quell’accampamento simbolo della non gestione e dell’esclusione è stato rimosso, smantellato, ripulito, naturalmente in nome del decoro e dell’ordine.
Eppure, mi dicono in Caritas, esistono ancora almeno un centinaio di migranti che dormono nascosti in città, in attesa di tentare la traversata in Francia. Dove dormono? Non si sa, o meglio si sa: in anfratti ancora più dolenti e invisibili, del tutto all’addiaccio, in pieno inverno. I volontari parlano al momento di almeno 40 afghani, perché anche la provenienza è cambiata, e perfino qui, dall’altra parte d’Italia, si è aperto il transito dalla famigerata rotta Balcanica con persone reduci da mesi, anni di cammino dai paesi più problematici del Medioriente.
A Ventimiglia oggi la situazione è molto più desolante dal punto di vista dell’accoglienza. Molte forze in campo sono state espulse o marginalizzate, o ancora subiscono la spossatezza dell’isolamento e della “criminalizzazione” sociale persistente. Se è vero che l’afflusso non è più emergenziale (ma a che prezzo? Di migliaia di persone torturate nei centri libici?) è anche vero che la frontiera continua a essere raggiunta da migranti, solo che nel frattempo le risorse accoglienti sono state vessate in ogni modo.
È il caso del colombiano don Rito Alvarez, il primo qui nel 2015 ad aver aperto la chiesa delle Gianchette ai migranti accampati sul fiume. Un improvvisato centro di accoglienza con anche mille pasti al giorno, che per circa due anni grazie a volontari e a solidarietà diffusa ha supplito alla completa mancanza di reazione e di organizzazione da parte degli organi statali, comunali ed ecclesiali. Due anni fa don Rito mi aveva ospitato proprio in quella chiesa, mentre passava giornate e serate a coordinare iniziative di accoglienza, assistenza e inclusione. Il distributore dell’acqua sul sagrato era sempre pieno, la distribuzione del pane avveniva più volte a settimana, nelle sere più fredde un sacrestano accendeva un falò perché i migranti sul fiume venissero a scaldarsi. Quella delle Gianchette animata da don Rito è stata forse l’esperienza più significativa di coinvolgimento della popolazione intemelia nel supporto ai migranti. Oggi don Rito è stato trasferito dal Vescovo Suetta e isolato nientemeno che a Perinaldo, 20 chilometri di stradine sui monti tra Ventimiglia e Bordighera. Con tre parrocchie di paesini assegnate alle sue cure, ma soprattutto con un nuovo parroco inviato alle Gianchette allo scopo evidente di “normalizzare” ogni attività pro migranti e ricondurre la vita parrocchiale alla sola spiritualità.
L’Agesci Liguria ha voluto nei mesi scorsi consegnare a don Rito un premio per aver accolto senza tregua gruppi Scout a svolgere servizio negli anni del suo lavoro con i migranti di Ventimiglia. Un prezioso riferimento, letteralmente un “prete di frontiera”, la cui mancanza oggi si sente, come il vuoto che si percepisce lungo la strada tra la parrocchia e il fiume.
Su quella strada pesa un altro vuoto, la chiusura un anno fa dell’Infopoint Eufemia gestito dal Progetto 20K grazie a volontari di tutta Italia; un presidio che offriva assistenza legale e orientamento multi-lingue ai migranti in arrivo. I proprietari del locale hanno rifiutato di rinnovare l’affitto in nome delle lamentele dei residenti: è colpa dei volontari se arrivano i migranti. Come no. Parlando con alcuni attivisti del 20K si capisce come il clima di isolamento e gli effetti delle politiche repressive sulla presenza di migranti abbiano oggi “sgonfiato” in parte anche il loro movimento che garantiva presidi sul territorio, accoglienza di volontari e monitoraggio delle violazioni dei diritti in frontiera. Un’esperienza originale nata da 20K circa due anni fa è il campeggio sopra Rocchetta Nervina, quindici chilometri nell’entroterra, dove hanno convissuto volontari e migranti nel tentativo di fare comunità e riprendere una serie di fasce d’uliveto. Oggi però anche questo presidio è in un limbo: non solo per la stagione fredda, ma per le frane da alluvione che hanno interrotto la strada di accesso alla valle.
La maggior parte dei migranti presenti “legalmente” a Ventimiglia sono alloggiati nel campo della Croce Rossa, risalendo il Roya fino a uscire dalla città. Lontani quanto basta dal centro, invisibili, ma anche irraggiungibili. Il campo è interdetto a quasi tutte le realtà di volontariato e risulta anche difficile verificare le condizioni di vita al suo interno. Qualche attivista mi assicura che comunque, persino da lì, ci sono migranti che riescono a partire tentando la traversata. Chi sui sentieri di montagna che conducono ai famosi “buchi nella rete” di confine, chi sul treno, chi camminando pericolosamente di notte lungo i binari o addirittura in galleria stradale. Una sfida costante al rischio di essere intercettati e respinti brutalmente dalla polizia francese, a piedi o a volte chiusi in un container. Qui, dove una volta c’era l’Europa con i suoi confini aperti, i suoi valori e i suoi diritti umani.
Verso la metà di dicembre, raccontano molti dei volontari che incontro, almeno duecento migranti sono riusciti a passare in blocco dalla strada statale a mare, perché si sono accorti che a causa degli scioperi generali in Francia anche la dogana era sguarnita di gendarmerie.
Quello che rimane oggi a Ventimiglia, il cuore dei servizi, è la sede Caritas attaccata alla stazione, la palazzina bianca con il cortile dove si svolge la raccolta e distribuzione di vestiti pesanti, coperte, scarpe. Sandro è il cuoco veterano che si occupa di preparare le colazioni e i pranzi per l’andirivieni di migranti che ogni mattina si recano qui. Nei periodi “caldi” sono arrivati a fare 600 pasti, a turno, in una saletta da 30 persone. Molti usufruiscono di assistenza legale, chiedono medicine, cercano un vestito della loro misura in base al freddo. Ci sono gli sbarcati, arrivati qui in treno, ma ci sono anche i respinti alla frontiera, e poi scopriamo la categoria dei “dublinati”, quelli finiti nuovamente in frontiera dopo aver vissuto magari mesi, anni in un altro paese europeo prima che scoprissero che le loro impronte digitali erano state prese in Italia. Vite spezzate e traumi psicologici.
Passo la giornata in Caritas per avere il tempo di fare due parole, di osservare chi viene e chi va, di partecipare allo smistamento abiti o alla distribuzione del pasto. Un ragazzo maliano sta facendo qui il servizio civile, ma ha la gamba ingessata. Racconta di essere stato scaraventato giù dal secondo piano, in un centro di detenzione libico. È passato un anno prima che arrivasse qui e all’ospedale gli mettessero un gesso. Ora spera di guarire del tutto.
Ci sono volontari, soprattutto donne, che arrivano da Mentone, il primo paese in Francia, e raccontano di aver reagito d’istinto nel momento della chiusura della frontiera, dovevano fare qualcosa; poi è diventato parte della loro vita dedicare anche più giornate alla settimana a favore dei migranti. Sono persone consapevoli, solide, lucide sulla disumanità messa a sistema da questa Europa nel complicare il movimento e l’inclusione delle persone. Ci raccontano scene viste in prima persona di migranti respinti con la forza, in violazione dei diritti umani, anche se minori o donne incinte.
La storia stessa, da queste parti, mette in scena le contraddizioni: dove sorge la dogana si trova anche il Museo dei Balzi Rossi, con testimonianze preistoriche sul passaggio (proprio da qui) dell’homo sapiens sapiens proveniente dall’Africa, prima di colonizzare l’Europa. I nostri progenitori sono arrivati da quelle rocce a picco sul mare dove in questi anni sono stati fermati e respinti innumerevoli giovani africani in cerca di una comunità dove abitare e ricominciare. Non distante da Mentone, una volta in Francia, si può raggiungere il Cimitière du Trabuquet, dove giacciono migliaia di africani delle colonie francesi portati d’obbligo a combattere in trincea per la patria, durante la prima guerra mondiale. Se si leggono i cognomi sulle lapidi, sono i bisnonni di quelli che la patria francese respinge oggi. Danno e beffa.
I francesi impegnati su questa frontiera invece resistono in maniera esemplare. Una forza fondamentale è quella del collettivo internazionale Kesha Niya, che fin dall’inizio dell’emergenza si è organizzato per portare a Ventimiglia pasti caldi ogni singolo giorno, nel parcheggio tra il fiume Roya e il cimitero. Due anni fa avevo dato una mano alla distribuzione di una cena, la vigilia di Natale, esterrefatto dell’efficienza con cui servivano anche due o trecento pasti caldi e sostanziosi in meno di un’ora, portando tutto il necessario con un furgone. Fanno raccolta fondi sui social, dove rendicontano in maniera puntuale il lavoro quotidiano. È grazie alla complementarietà tra loro e la Caritas se i migranti accampati al di fuori delle strutture istituzionali (proprio perché in transito si rifiutano di farsi bloccare in Italia con le impronte) hanno una copertura giornaliera di pasti minimi.
A voler risalire la val Roya, nell’area rurale di Breil sur Roya, continua le attività anche la rete Roya citoyenne animata tra gli altri dal contadino Cédric Herrou, esempio di disobbedienza civile per aver ospitato e assistito nel passaggio di frontiera centinaia di migranti. Nell’ultimo anno l’esperienza spontanea di Cédric e della sua rete solidale si è trasformata nella comunità Emmaus Roya, organizzata per dare ospitalità e borse lavoro agricole ad alcuni migranti che scelgono di fermarsi. Cédric è reduce dall’assoluzione da tutte le accuse che gli erano state imputate nel corso delle attività di assistenza ai migranti. Ha vinto la battaglia dimostrando che sopra i regolamenti disumani stanno ancora i principi fondanti delle costituzioni.
Raggiungo il Bar Hobbit di Delia per mangiare qualcosa. Resiste ancora, Delia, ma pare che a breve chiuderà per l’affitto insostenibile. Questo baretto nascosto è diventato famoso tra gli attivisti e gli operatori di tutta Italia, per essere il punto di riferimento di tutti i migranti che arrivano in città. Delia è il raro caso di una semplice cittadina, non un’operatrice sociale o un’attivista, che si è trovata il flusso migratorio alla porta, a due passi dalla stazione. E che ha detto “sì” piuttosto che no. Quel sì l’ha travolta in una serie di conseguenze inarrestabili: ha perso tutta la clientela italiana, è diventata oggetto di attenzioni e controlli da parte delle forze dell’ordine, si è trovata ad attrezzare il bar per le esigenze primarie dei migranti, raccogliendo anche lei vestiti da distribuire, consentendo la sosta anche senza consumare, a tempo indeterminato, e la ricarica dei telefoni. Si è procurata anche un fasciatoio per le madri. Ci tiene sempre a dire che tratta le persone da pari, sempre, e che non fa del buonismo ma pretende da tutti rispetto, educazione e contraccambio. È importante per lei fare cultura, prima di tutto. Così può aiutare veramente chi arriva a sentirsi “persone”. E naturalmente è diventata il ritrovo di tutta la rete di persone impegnate a Ventimiglia. Rete sempre più sgonfiata, oggi, come la resistenza di Delia a tenere aperto un bar in queste condizioni di pressione. Basta fermarsi un’oretta per toccare con mano i suoi racconti. Passano alcuni migranti (la chiamano “Mama”), passano alcuni attivisti, chiama qualcuno del collettivo Kesha Niya per sapere se quella sera può preparare lei il riso che acquisteranno per la cena dei migranti. Ci racconta della visita recente di un europarlamentare di origini africane, con il quale hanno fatto un esperimento sociale: si è vestito in maniera casuale ed ha provato a prendere un caffè in altri bar della zona, venendo rimbalzato con prezzi sproporzionati, a dimostrazione – dice Delia – che la cittadinanza qui non ha fatto sua una scelta solidale, lasciando soli ad arrancare chi come lei ha sentito il richiamo di una umanità primaria.
Ventimiglia non è certamente solo questo. Ma questa è l’atmosfera che ho respirato tornando a due anni di distanza e ripercorrendo quelli che erano i “punti chiave” della militanza pro migranti. Nel frattempo è cambiata anche la giunta comunale, naturalmente a destra. Ha vinto la paura e la voglia di “decoro”, di “pugno duro”. Una cittadina in cui le risposte militanti all’emergenza migranti avevano creato un clima “caldo”, di mescolanza, di gruppi da fuori, di progetti e iniziative, sembra oggi sgonfiata e bolsa. Bene ha riassunto Delia citando il luogo comune del “ci rubano il lavoro”. “La verità è che qui i migranti il lavoro lo hanno portato: l’indotto legato a strutture di accoglienza, operatori sociali, mense, forze dell’ordine, sanità, progetti e volontariato è andato tutto a vantaggio di commercianti e ristoratori. E la gente di questa città non ha neanche saputo ammetterlo, conti alla mano, e approfittare di questa opportunità. Veramente una volontà autodistruttiva incomprensibile, oltre al discorso umano”.
Pochi giorni dopo ho fatto visita a un’altra frontiera del nord-ovest italiano. Una che è nata proprio in seguito alla chiusura e militarizzazione di quella di Ventimiglia. I passi di Bardonecchia e Claviere, nelle valli sopra Torino. Di qui sono transitati negli ultimi quattro o cinque anni numeri molto più bassi di Ventimiglia, ma un flusso costante – in virtù di una frontiera molto più “porosa” – e ben più pericoloso. Come a Ventimiglia, anche qui si sono registrate violazioni di diritti da parte della gendarmerie francese, respingimenti indiscriminati, agguati nel bosco, trattenimenti, ma la frontiera alpina è finita sui giornali quando sono cominciati gli incidenti: migranti dispersi di notte nella neve, persone assiderate e scottate dal freddo, anche alcuni morti finiti al buio in qualche crepaccio e ritrovati allo scioglimento in primavera. Nei mesi di picco degli arrivi questa frontiera ha visto un centinaio di passaggi al giorno. Oggi è un flusso esile, dieci o quindici persone, ma il pericolo rimane tutto.
Ho partecipato a un turno di volontariato al rifugio Fratellanza Massi di Oulx, una struttura accogliente aperta tutti i giorni, finanziata dalle Fondazioni Magnetto e Talità Kum Budrola e sostenuta grazie a una rete di associazioni tra cui Rainbow for Africa e il coordinamento No Tav. Si trova a pochi metri dalla stazione ferroviaria di Oulx, dalla quale i migranti prendono una corriera per Claviere. Il rifugio offre una camerata riscaldata con 25 posti letto, due bagni con docce e un container dove vengono distribuiti vestiti pesanti, soprattutto scarpe da neve, cappotti, guanti e berretti. Quasi nessuno dei migranti che sbarca dal treno è vestito in modo adeguato per la neve, e probabilmente non sa nemmeno cosa sia, dunque sottovaluta la traversata del bosco da Claviere a Briançon. Il lavoro dei volontari è esattamente il monitoraggio di ogni treno che arriva a Oulx, uno all’ora tra le 17 e le 24, per individuare i migranti di passaggio, spiegare loro del rifugio e convincerli a non tentare la traversata di notte, come molti tendono a preferire anche in pieno inverno, ma optare per un pasto caldo, la notte al rifugio e la ripartenza al mattino dopo. Così abbiamo fatto per tutta la serata, raccogliendo poco per volta una decina di ragazzi provenienti dal Mali e dalla Nigeria. All’interno del rifugio un operatore che gestisce la casa prepara ogni sera la cena in modo tale da poter fare un piatto caldo a orari diversi, man mano che i ragazzi arrivano.
Mangiare qualcosa insieme in una cucina a dimensione famigliare è un’occasione informale e protetta per capire qualche pezzo della storia di chi arriva, offrire nozioni su come muoversi in questo territorio, e soprattutto individuare problemi più profondi. Al rifugio è disponibile per un paio d’ore una giovane assistente legale proprio per ricostruire meglio la situazione di ciascun ragazzo e poter consigliare eventualmente gli step burocratici più adatti a fare un passo avanti. In questo modo alcuni decidono di fermarsi in Italia e occuparsi dei documenti, potendo accedere a strutture residenziali nel circondario. C’è chi rivela problemi seri di salute e si cerca di convincerlo a effettuare una visita più attenta il giorno dopo. C’è chi non ha idea dei pericoli della traversata e chi arriva già consapevole di ogni passaggio, per la rete informale di notizie che si scambiano i migranti.
A tutti viene data una cartina in cinque lingue che rappresenta dove ci troviamo, dov’è la frontiera, quali sono le zone più pericolose a livello morfologico, e dove si trovano nei paesi i presidi sanitari, i rifugi, i posti di soccorso. Sul retro la stessa cartina è suddivisa in quadranti numerati, e indica come chiamare soccorso e indicare dove ci si trova, nel caso ci si perdesse sulle montagne.
A tavola ascolto storie tutte diverse e tutte uguali, che escono a gocce, una parola qui una là. C’è chi ha già vissuto a Parigi prima di trovarsi espulso. Chi, “dublinato”, è capitato qui dalla Germania perché alla stazione di Milano la polizia gli ha detto che qui c’era un rifugio accogliente. C’è chi arriva dal Sud Italia per tentare la traversata, diretto in Francia o in Inghilterra, a ricongiungersi con i parenti. C’è chi non dice nulla, stremato dal continuo viaggio che va avanti da chissà quanti anni.
Due volontari No Tav ogni sera vengono per fare monitoraggio itinerante in frontiera, nel caso qualche migrante decida comunque di tentare il passaggio di notte. Essere respinti nella neve al buio e trovarsi in una Claviere deserta a 1.400 metri per tutta la notte può essere letale.
Oltre al rifugio, a Oulx c’è un altro presidio di accoglienza che monitora, ospita e segue i ragazzi tenendosi in contatto con l’altro rifugio speculare, quello di Briançon. È la “casa cantoniera”, un rifugio autogestito chiamato Chez JesOulx, inizialmente occupata da attivisti italiani sgomberati dalla parrocchia di Claviere, e oggi presa in mano da attivisti francesi. Lo stile è molto più anarchico e da centro sociale. Incontro due ragazze del collettivo il mattino dopo, mentre anche io con alcuni migranti prendo la corriera per Claviere. Sono preoccupate perché nella notte su ha nevicato quasi un metro, e cominciano a spiegare ai ragazzi di non prendere il consueto sentiero nel bosco, assolutamente impraticabile. Non è la giornata giusta per rischiare. Loro vogliono partire lo stesso, ora che sono così vicini al confine.
In una Claviere immobilizzata dalla nevicata, con alberi tetti e macchine sovraccariche e persino la strada provinciale bianca invisibile, li seguo con lo sguardo mentre nonostante tutto si avviano a piedi. Uno di loro cammina con la stampella, chissà per quali precedenti disavventure. Mi colpisce che una ragazza a cui chiedono informazioni si riveli subito disponibile a indicargli alcuni passaggi chiave, già nell’ottica di non mandarli in bocca alla polizia. Una persona presa a caso, e conosce i rifugi e i coordinamenti, oltre a esporsi in prima persona. Vuol dire che anche in questi luoghi sperduti ci sono punte di umanità che restano reattive.
Cammino anche io per sentire sulla pelle la frontiera, il tragitto a piedi, le distanze. A Monginevro prendo un autobus per Briançon che è ben lontano. I migranti con un sentiero che passa nascosto dagli abeti impiegano più di quattro ore a scendere da Claviere, sempre che non si perdano e non si facciano male. Una volontaria del rifugio di Oulx mi raccontava che spesso la gendarmerie li aspetta in agguato dietro il primo fortilizio all’ingresso della città, o li sorprende nel bosco rastrellandoli con la forza e riportandoli giù alla stazione di Oulx.
A Briançon trovo il rifugio che accoglie chi riesce ad arrivare, attrezzato in modo grezzo ma conviviale, a metà tra un ostello e una casa di campagna. C’è un mediatore senegalese, una cucina, un punto per farsi il caffè e un piccolo ufficio per l’assistenza legale. Alle pareti sono incollati ritagli di giornale, fotografie, dediche commosse di qualche ospite, vademecum multilingue per orientarsi da Briançon con i treni verso tutta la Francia.
Ventimiglia e Oulx hanno diverse cose in comune. Sono centri piccoli, che non erano abituati ad affrontare la migrazione, né quindi erano attrezzati. In pochi anni si sono gonfiati e in parte sgonfiati, sono stati esposti mediaticamente in modo impensabile diventando simboli di opposte narrazioni. Qui sono risorte quelle frontiere militarizzate che pensavamo come Europa di esserci lasciati alle spalle, spesso nella connivenza di amministrazioni e cittadini. Nel giro di poco tempo è interessante osservare, ma soprattutto toccare con mano, conoscere, vivere, come in questi piccoli centri si siano messe in moto delle azioni resistenti, reazioni spontanee, più o meno organizzate, alle esigenze immediate e impreviste. Azioni sia personali sia di gruppo, animate dalle persone più disparate, spesso provenienti anche da lontano. Un impegno capace nel bene e nel male di mutare, trasformarsi, adattarsi in relazione alla velocità con cui cambia il fenomeno; ma anche un impegno sensibile ai colpi bassi di una politica che ha visibilmente abdicato ad affrontare questo fenomeno territoriale con criterio e umanità, inaridendo il terreno fino a compromettere e spompare anche le stesse reazioni civiche più meritevoli, le quali se non vengono messe a sistema rischiano di passare come meteore, l’ennesima opportunità persa di passare dall’emergenza a una costruttiva e creativa normalità.