Sui fratelli Mancuso e la loro musica
La parola fame. Un alieno sentito dire per gli italiani dell’ultimo sessantennio, ma esperienza di vita per molti della generazione nata tra gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, nella finitezza di una sola esistenza convivendo mondi completamente opposti: quello autarchico e indigente “dell’antichissima sapienza e del paziente dolore” della civiltà contadina – parole di Carlo Levi nella prefazione a Cristo si è fermato a Eboli-, e la spaesante globalizzazione del postmoderno. Che spesso traumaticamente confliggono.
Un’originale sintesi trovano invece nella produzione artistica dei fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso; con i loro concerti e i loro album portano nel mondo la cifra di una musica che nella tradizione popolare siciliana trova la matrice, e in un ininterrotto dialogo con la storia, passata e presente, la rappresentazione; sempre però nel segno di una profonda discontinuità, sonora ed etica, rispetto al trionfante capitalismo della sorveglianza, in cui dolore e ingiustizia sociali continuano a non trovare riscatto. Da qui la centralità nel recente album –Manzamà– del tema dei migranti, di cui lo stesso titolo è metafora: Manzamà! (che mai sia!), esclamano nella zona tra Sutera e Agrigento per esorcizzare la minaccia di una possibile, incombente, disgrazia; insieme scongiuro e preghiera che in altre zone della Sicilia diventa Nzammaddiu! (non fare che accada, Dio!), e in arabo Allahyahfadnà!
A quest’ultimo lavoro dei Mancuso è stato assegnato il prestigioso premio Città di Loano per la migliore produzione discografica del 2020, già nel 2017 attribuito loro alla carriera. Per i sessanta giurati, giornalisti e studiosi del settore, quest’album -hanno scritto nella motivazione- consacra i fratelli Mancuso definitivamente tra i grandi narratori della Sicilia, la cui memoria e la cui tradizione hanno saputo trasfigurare attraverso la propria personale sensibilità, in una ricerca musicale originalissima che tiene insieme arrangiamenti classici e popolari, gli strumenti a corda del Mediterraneo e del vicino Oriente con il quartetto d’archi della musica europea.
La Sicilia, da cui i due musicisti provengono, non conosce la fascinazione cromatica di mare e aranceti della costa, ma la monocromia severa, quasi ascetica, delle terre fredde dell’interno; un paesaggio di solitudini e migrazioni scabro e riarso: d’inverno, nebbie che confondono; d’estate luce che abbaglia.
Montagne si susseguono a montagne. In mezzo valloni, slarghi seminativi, residui industriali di salgemme, cave di gesso, zolfatare dismesse. E paesi, spopolati dall’emigrazione, sui fianchi e sulle cime di quei monti: oscurati scenari di feudi, mafie, sofferenze, ma anche di rivolte e strenue resistenze di giornatari e minatori, come Sutera, con poco più di mille abitanti, al confine tra le province di Caltanissetta e Agrigento.
In questo antico borgo di stradine tortuose e case prevalentemente disabitate sono nati e hanno trascorso l’infanzia e l’adolescenza Enzo e Lorenzo, i più giovani di quattro figli maschi, con un preordinato destino di migrazione. Cifra dell’esistere -hanno detto in un’intervista, raccontando la strutturale interferenza tra percorso artistico e geografia del vissuto- era l’attesa della partenza. Un destino che si compì anche per loro negli anni settanta, ma nel loro bagaglio di migranti insieme al necessario, c’era anche una grande passione per la musica, che, autodidatti, da anni insieme praticavano, cantando e suonando in gruppi e feste locali; e un’intransigente coscienza di classe: l’utopia di una storia altra -certi come quasi tutta una generazione- che sarebbe venuta. Che doveva venire. Resistere perciò. Non accettare compromessi.
Che non accettano. Nella fabbrica dove lavorano –l‘uno in fonderia, l’altro alla catena di montaggio- lottano, fanno sindacato; sempre più emarginati e con mansioni lavorative sempre più dure man mano che si avvicinavano gli anni del liberismo senza regole della Thatcher. Ma è la musica a sostenerli, spingendoli a trovare un filo col passato per ricostruire la loro identità maltrattata.
La sera, al ritorno dal lavoro -stanchi, avviliti- accendono lo stereo e l’angusta stanza con cucinino della periferia industriale londinese si fa mondo; insieme ai cantautori cubani, americani, al fado, al choro, ai ritmi arabi, riaffiorano le voci della Sutera dell’infanzia, inconsapevolmente assorbite: il salmodiare di rosari e litanie delle donne nelle processioni; il canto dei suonatori ciechi che nel periodo di Natale andavano di casa in casa a cantare le novene, accompagnandosi con violini o violoncelli che, però, troppo fastidiosi da trasportare, legavano al corpo in una fusione di muscoli, vibrazioni, luce di fede e opacità d’occhi; la sapienza secolare dei lamenti, che contadini e congregati il Venerdì Santo intonavano per esprimere il dramma della passione e della morte. E le ninne nanne. E i melodiosi richiami dei venditori ambulanti per promuovere strada dopo strada la loro merce: un mistero la loro genesi.
Si nasce per caso in un luogo, che può diventare scelta e destino. E sempre, per ogni artista nato in Sicilia, ineludibile connotazione espressiva; si fa infatti sempre più chiara in loro la consapevolezza di far parte di una voce corale, che risale dal profondo dei tempi e li attraversa, nel folk trovando una dimensione sonora dove tutto coincide: l’istanza politica e artistica, quella sociale e il bisogno di ricostruire la loro identità.
E’ l’inizio di un rigoroso percorso, che ancora dura: da un lato l’esplorazione della sommersa deriva di suoni, vissuti, sofferenze. compressi ma oscuramente pulsanti nella stratificata verticalità di tempi e storia della comunità di Sutera, in cui si inscrive la loro esistenza; dall’altro una grande apertura conoscitiva verso altri popoli e altre culture, che col passare degli anni li porterà a sperimentare strumenti acustici provenienti dai tempi più remoti e dalle più diverse latitudini -dalla ghironda piemontese ai liuti, al darbuka agli strumenti orientali- con un inedita lettura sonora e sociale della tradizione popolare siciliana: nella loro rielaborazione anche i brani di devozione –rosari, novene, lamenti- diventeranno un canto laico. Ma lo strumento dominante -se non esclusivo- della loro musica resta sempre la stupefacente dilatazione polivocale con un uso accentuato a cappella della voce.
Prendendo le distanze da tamburelli e tarantelle di un versante canoro popolare sempre allegro e giocoso -ma anche da ogni nostalgico sentimentalismo- procedono con un intenso lavoro di interiorizzazione ad accordare il materiale tradizionale con l’intensità di un sentire -se stessi e il mondo- che non assume mai forma di memoria privata, di esplicita messinscena dell’io; alla luce di un’acuta sensibilità contemporanea vanno invece alla ricerca di sonorità che, senza soluzione di continuità tra storia personale e collettiva, tra passato e presente, possano far vibrare le corde drammatiche dell’umano esistere nel fondale di una mai risolta storia d’ingiustizia
Una scelta radicale, quella di Enzo e Lorenzo, tesa a educare e a modellare la loro vocalità in direzione opposta al bel canto, con un rigore espressivo che nulla concede al melodioso, cercando la dissonanza, il canto che disturba. Che costringe a vedere il dolore del mondo.
Tornati in Italia nel 1981 si fermano a Città della Pieve dove ancora adesso abitano, con l’aiuto di un amico trovano lavoro -lavori umili: nell’edilizia, in campagna- ma la musica torna a soccorrerli con la realizzazione del loro primo concerto, Canto per una Sicilia Nuova; la condizione dei contadini, l’emigrazione, la mafia -ma anche l’amore, la paura della morte, la solitudine- costituiscono il nucleo tematico dei brani in dialetto, recuperati dal patrimonio tradizionale o scritti da uno dei due fratelli; in quel primo concerto cantano accompagnati dai pochi strumenti in loro possesso -due chitarre e un violino-: un canto, insieme osseo e affabulante, terrigno e spaesante, che scavando nella radice interroga il presente. Un coinvolgimento sentimentale e intellettuale a cui non ci si può sottrarre.
II giornali cominciano ad occuparsi di loro, vengono invitati all’estero: Germania, Francia, Spagna, dove in un congresso di etnomusicologia, Joaquin Diaz, affascinato dalla loro musica, con la sua casa discografica produce il loro primo album Nesci Maria.
A seguire video, lezioni, conferenze, premi, l’incontro col cinema e con il teatro: autori del canto devozionale e loro stessi attori scelti dal regista Anthony Minghella per una scena del film Il talento di mr. Ripley, mentrenel 2004 per l’allestimento scenico di Emma Dante traducono in siciliano le parti del coro della Medea di Euripide e compongono le musiche, da loro cantate in teatro sera dopo sera. Ma soprattutto impegnati in concerti, nella preparazione di nuovi album.
Infine -a distanza di più di un decennio dal precedente– Manzamà, alla cui realizzazione hanno collaborato grandi maestri: da Betta a Diaz, da Sollima a Spinelli, a Battiato; ad accompagnare l’album un raffinato libretto con i testi dei canti, impreziositi dagli acquerelli di Beppe Stassi.
Quasi tutti i testi sono stati scritti da Enzo -ma partire da un calco musicale- con poche eccezioni che arrivano da fonti spesso sorprendenti.
Dai documenti sonori di un archivio etnomusicale siciliano è riemersa la straordinaria intensità poetica della ninnananna Nti la nacuzza ci trasi lu suli (Nella culla ci entra il sole); la sua origine si perde del tempo, ma negli anni della ricostruzione era ancora viva nella memoria collettiva; la scrivente la sentiva cantilenare dalla madre per quietare il fratello nella naca; un’economica culla di stoffa in forma di altalena -attaccata alle travi del tetto e sospesa sul letto coniugale- da cui pendeva una cordicella per cullare l’insonne senza doversi alzare. Un po’ diverse erano però le parole delle strofe, come è tipico della musica popolare i cui testi subiscono variazioni da luogo a luogo e da generazione a generazione; uguale invece l’ipnotica melodia: canto superstite a una rurale atlantide sommersa
A un’altra atlantide -il mitico occidente di benessere e felicità, che muove il piede e la speranza di milioni di migranti- rimanda invece il brano Animi, un canto che non racconta, non descrive, semplicemente nomina: la ripetizione struggente e terribile di un nudo elenco di nomi di bengalesi, eritrei, arabi cinesi, e di tutte lingue plurali dell’esilio, che i due musicisti hanno desunto dalla rivista Internazionale; l’inserto -del 2018- ne elencava 34.361 per restituire il nome all’interminabile, anonima, fila di camminanti in fuga da guerre e povertà: intorno a nove milioni nel mondo nel 2020.
Ma ci sono quelli, che non rientrano in nessuna contabilità, morendo invisibili prima dell’approdo; una quotidiana contabilità di morti, respingimenti, approdi; numeri di umani privati di nome e dignità tra frastuono consumistico e sordità sociale, contro cui insorge, con la potenza affratellante della musica e la specificità del dialetto il canto di Enzo e Lorenzo Mancuso.
Perchè -è stato detto- dove le parole falliscono resta la musica.
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