Su “Platero e io” di Jiménez
Questo testo è un’anticipazione dal libro Late Essays 2006-2017 di J.M. Coetzee (in preparazione da Einaudi). Ringraziamo l’autore per l’autorizzazione a pubblicarlo e gli editori Viking ed Einaudi. L’immagine a pagina 100 è una illustrazione di Juan Bernabeu, da Platero y yo edizioni Else 2016 (cartella serigrafica in tiratura limitata di 50 copie) che ringraziamo.
Platero e io (Platero y yo) è comunemente ritenuto un libro per bambini e in libreria si trova nel settore a loro dedicato. Nella raccolta di istantanee tenute insieme dalla figura dell’asino Platero s’incontrano tuttavia cose che potrebbero turbare una mente sensibile, e altre che esulano dall’interesse dei bambini. Per questo preferisco considerare Platero e io una serie di impressioni di vita della città andalusa, Moguer, dove è nato Juan Ramón Jiménez, ricordate da un adulto che non ha perso il contatto con l’immediatezza dell’esperienza infantile. Tali impressioni sono registrate con una delicatezza e una misura appropriate quando accanto al lettore adulto ci sia un pubblico di bambini.
Oltre all’onnipresente sguardo del bambino, c’è un altro e più evidente sguardo nel libro, quello di Platero. Per gli umani gli asini non sono creature particolarmente belle – non come le gazzelle (per fermarci agli erbivori), o anche i cavalli – ma hanno il vantaggio di avere begli occhi: grandi, scuri, liquidi – potremmo dirli profondi – e dalle lunghe ciglia. (Gli occhi dei maiali, più piccoli, più rossi, ci appaiono meno belli. Forse è per questo che non ci riesce di amare o fare amicizia con questi animali intelligenti, socievoli, divertenti? Quanto agli insetti, i loro organi della vista ci appaiono così strani che non è facile affezionarci a loro.)
C’è una scena spaventosa in Delitto e castigo in cui un contadino ubriaco colpisce una giumenta sfinita fino ad ammazzarla. La colpisce prima con una sbarra di ferro, poi la picchia sugli occhi con un bastone, quasi a voler cancellare la propria immagine dai suoi occhi. In Platero e io leggiamo di una vecchia giumenta cieca scacciata via dai padroni ma che si ostina a tornare, facendoli arrabbiare così tanto che alla fine la uccidono a sassate e bastonate. Platero e il suo padrone (è questo il termine usato nella nostra lingua ma non è certamente quello che adopera Jiménez) la trovano morta sul ciglio della strada; i suoi occhi orbi alla fine sembrano vedere.
Alla tua morte, il padrone di Platero promette al suo asinello, non ti abbandonerò sul bordo della strada ma ti seppellirò ai piedi di quel grande pino che ami.
È lo sguardo reciproco che passa tra gli occhi di un uomo – un uomo deriso dai giovani zingari come matto, il narratore di Platero e io piuttosto che di Io e Platero – e gli occhi del ‘suo’ asino a stabilire il legame profondo tra loro, un legame molto simile a quello che si stabilisce tra la madre e il neonato quando i loro sguardi si incrociano la prima volta. Un mutuo legame tra l’uomo e la bestia più volte confermato: “Ogni tanto Platero smette di mangiare e mi guarda. Ogni tanto io smetto di leggere e guardo Platero”.
Platero acquista la sua individualità – come vero e proprio personaggio – con una vita e un bagaglio di esperienze tutte sue nel momento in cui l’uomo che chiamo il suo padrone, il matto, si accorge che Platero lo vede, riconoscendolo così come suo simile. In quel momento ‘Platero’ cessa di essere un nome qualsiasi e diventa l’identità dell’asino, il suo vero nome, l’unica cosa che possiede al mondo.
Jiménez non umanizza Platero, ne tradirebbe l’asinità, mentre è proprio la sua natura asinina a precludere e a rendere inscrutabile agli uomini l’esperienza di Platero. E tuttavia questa barriera viene ogni tanto infranta quando per un attimo la visione del poeta riesce a illuminare come un raggio di luce il mondo di Platero; o per dirla in altre parole, quando i sensi che noi esseri umani abbiamo in comune con gli animali, imbevuti del nostro amore, ci consentono, con la mediazione del poeta Jiménez, di intuire quell’esperienza: “Platero, con gli occhi neri tinti del granata del tramonto, se ne va, pian piano, presso una pozza di acqua cremisina, rosa, violetta; affonda dolcemente la bocca in quegli specchi che paiono tornar liquidi quando li tocca lui; e nelle sue fauci enormi vi è come uno scorrere profuso di cupe acque di sangue.”
“Tratto Platero come se fosse un bambino… lo bacio, lo inganno, lo faccio arrabbiare… E lui capisce benissimo che gli voglio bene; e non mi serba rancore. È così uguale a me, così diverso dagli altri, che son giunto a credere che sogni i miei stessi sogni.” Qui siamo sospesi sull’orlo di quel momento così tanto desiderato nella vita fantastica dei bambini in cui la grande barriera tra le specie svanisce e siamo tutt’uno con le creature da cui siamo stati esiliati così a lungo. (Da quanto tempo dura l’esilio? nel mito giudaico-cristiano l’esilio dato dalla nostra espulsione dal Paradiso, e la fine dell’esilio è desiderata come il giorno in cui il leone giacerà con l’agnello).
In questo momento vediamo il matto, il poeta, comportarsi con Platero con la stessa gioia e affetto con cui i bambini trattano i cuccioli e i gattini, e Platero risponde come i giovani animali reagiscono ai bambini, con altrettanta gioia e affetto, come se sapessero, – lo sa il bambino, ma non l’adulto controllato e prosaico – che in fondo siamo tutti fratelli e sorelle a questo mondo, e che per quanto umili, dobbiamo avere qualcuno da amare o appassiremo e moriremo.
Platero alla fine muore. Muore perché ha ingoiato del veleno ma anche perché la vita di un asino non è lunga come quella di un uomo. A meno che non scegliamo di diventare amici di elefanti o tartarughe, capiterà più spesso a noi di piangere la morte dei nostri amici animali che a loro la nostra: è una delle dure verità cui Platero e io non sfugge. Ma in un altro senso Platero non muore: questo “sciocco asinello” ritornerà sempre da noi, ragliando, circondato da bambini ridenti, e inghirlandato di fiori gialli.
(Juan Ramón Jiménez, Platero y yo, a cura di Antonio Gasparetti, Nuova Accademia Editrice, Milano 1959. Il saggio di J.M.Coetzee è tratto da Late Essays 2006-2017, Viking 2017. Copyright © dell’autore.)