Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Su esperienza estetica ed esperienza religiosa

Illustrazione di Martina Sarritzu
22 Ottobre 2020
Ivan Illich

È questa la parte finale della seconda di due conferenze tenutesi a Città del Messico nell’ottobre 1966, all’interno di un ciclo organizzato dall’Instituto mexicano de psicoanálisis fondato da Erich Fromm.

Caratteristiche del regno predicato da Gesù

I Vangeli furono scritti da una generazione credente ancora molto prossima a Gesù. Costituiscono perciò il resoconto di ricordi intensi, pieni della sua vita e delle sue parole. L’immenso lavoro critico degli ultimi ottant’anni permette di giungere, attraverso di essi, alla personalità storica di Gesù. Buona parte dei suoi detti sono racconti: parabole, metafore, paradossi. È proprio della sapienza semitica esprimere in racconti ciò che è importante; ogni racconto ha il suo senso, e non conta il racconto, bensì il suo senso. Da anni mi sottopongo a un test, quando leggo il Vangelo: se sono in grado di sorridere, probabilmente ho capito. Gran parte dei racconti evangelici si riferisce al “regno”. Il regno arriva e non c’è modo di fermarlo; chi ha orecchi per intendere lo intende. Arriva di notte, inaspettatamente, come un ladro; viene il giorno del Signore; è fonte di pace e gioia per i credenti e di scandalo per coloro che lo respingono; i credenti sono liberati dai demoni, il cui potere è ormai giunto al termine. Paradossalmente, ciò non significa che questo potere sia completamente finito; per ogni credente arriva l’ora dell’oscurità estrema; ogni credente deve farsi carico della sua croce. Il regno sta sotto il segno della croce, e tra il suo arrivo e il suo compimento c’è la croce; tra la vittoria dell’individuo sui poteri demoniaci e il suo ingresso nel regno c’è la sconfìtta della croce; tra la luce della fede e la visione c’è la paradossale notte della sepoltura. Il regno viene, e già c’è. È il regno di Dio che viene, e che già sta in mezzo a noi (non, soggettivamente, “in” ciascuno di noi né tanto meno, cosmologicamente, al di là di noi bensì tra noi). È il Messia che lo scopre e lo svela. Così come il Messia sta sempre alla porta, altrettanto il regno è sempre “già” presente: in questo momento, nella morte, nella parousia. È difficile distinguere questi tre momenti; perché il regno si è compiuto, secondo le Scritture, anche quando non si sia realizzato completamente. È una realtà paradossale: “già” e al tempo stesso “non ancora”. I credenti ne celebrano la presenza e ne aspettano la venuta. E vittoria sui demoni, e sconfìtta sotto i furiosi poteri che portano alla croce.

N.B. Mi piace molto la prima rappresentazione che abbiamo della croce. È un graffito del II secolo, del quartiere a luci rosse di Roma: un corpo umano con testa di asino. Rappresentazione del paradosso, dell’assurdo. E sotto, quest’iscrizione: (tizio) “saluta il suo Dio”. Non mi importa se l’intenzione dell’autore fosse blasfema; corrisponde alla realtà del mistero: il regno si compie senza realizzazione utopica e si realizzerà senza essere apocalittico.

Aspetti del messaggio che specificano il “regno”

Il regno viene instaurato dalla legge dell’amore. Di che legge può mai trattarsi? Quale può essere la legge che definisce l’amore? Questo era il problema nascosto nella domanda che i farisei fecero a rabbi Yeshua. Volevano tendergli un tranello; volevano farlo incorrere nel paradosso di fondo che sorge dall’esigenza di affermare la necessità di instaurare il regno sotto la legge e al contempo sull’amore. – Cosa devo fare per entrare nel tuo regno? gli chiede un dottore della legge. – Osserva la legge, gli risponde; l’amore di Dio e del prossimo, che sono una stessa legge. – Chi è il mio prossimo? domanda quello di nuovo. E Gesù racconta la parabola del samaritano: Scendeva un uomo da Gerusalemme a Gerico, e cadde nelle mani di briganti, che lo spogliarono, lo percossero e fuggirono, lasciandolo mezzo morto. Per caso scendeva per la stessa strada un sacerdote e vedendolo, girò al largo. Così pure un levita, passando di là, lo vide e passò oltre. Ma un samaritano che era in viaggio giunse presso di lui, e vedendolo fu mosso a compassione; si avvicinò, gli bendò le piaghe versandovi olio e vino; lo fece salire sulla propria cavalcatura, lo condusse alla locanda e si prese cura di lui. Il mattino seguente, presi due denari li diede all’oste e gli disse: abbi cura di lui, e quel che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra essere stato prossimo a colui che cadde nelle mani dei briganti? (Luca, 10, 30-36).

Facciamo attenzione: non gli indica chi agì come si conviene nei confronti di un prossimo; con questa parabola gli segnala chi era prossimo, perché aveva scelto di agire come tale. Il dottore della legge aveva chiesto: chi è il mio prossimo? e la risposta e molto chiara: il tuo prossimo è quello che tu scegli di amare liberamente.

Ma la domanda si ripropone: chi è nel regno? E qui gli dipinge un quadro più estremo della cupola di Orozco o dei monaci di Dalì, un quadro più del tipo Guernica; il quadro del giudizio finale. Sapendo o no quello che fanno, entrano nel regno coloro che danno acqua all’assetato.

Gli chiede Filippo: mostrami il Padre, e Lui risponde: da tanto tempo sei con me e non sai che chi vede me vede il Padre?

Se fosse possibile purificare ulteriormente l’idea del Padre, neppure resterebbe più l’idea. Ascoltiamo Barth, il grande teologo riformato, quando dice: il messaggio tocca il mondo come la tangente il cerchio.

Infine insegna loro a pregare. Padre nostro: insieme col Messia siamo figli di Dio per poter essere fratelli di Lui.

Che stai nei cieli: non al di là, al di fuori, ma nei cieli, nell’universo. Non in un vuoto, ma nell’universo, così come il regno è in mezzo a noi.

Santificato sia il tuo nome (per favore non lo si menzioni …al giudeo era proibito pronunciare questo nome… è santificato rispetto al mondo, separato da esso).

Venga il Tuo regno: già si trova fra di noi… che in esso si manifesti la Tua “santità”, santità come socializzazione (o società).

Analogia tra regno ed esperienza mistica

Ci interessa l’analogia tra le caratteristiche dell’esperienza mistica trascendente e le determinazioni del “regno”. Solo sotto questo segno credo si possa stabilire, empiricamente, una relazione psicologica tra il regno e un possibile orientamento verso la maturità umanista. Avrete notato che la descrizioni evangelica del regno include elementi essenziali, usati nella descrizione dell’esperienza mistica; ne aggiunge o esplicita altri. Aggiunge una dimensione sociale: il regno sta in mezzo a noi; aggiunge una dimensione paratemporale: adempiuto ma non completato – che significa: sotto il segno della croce. Esplicita il realismo: il regno esiste socialmente tra di noi, e consiste nel progresso dell’amore. Pertanto, è profondamente sociale e personale.

Mi permetterò una formulazione ipotetica: il regno è ciò che costituisce l’esperienza mistica autentica, se il mistico è consapevole di ciò che realmente costituisce la sua esperienza. Nel credente l’esperienza mistica è l’esperienza cosciente del regno prima della parousia. L’esperienza mistica è frutto dell’amore, e perciò accessibile a ogni amante. La coscienza del suo significato è frutto della fede, e perciò accessibile solo al credente.

La speranza del regno orienta l’umanizzazione del credente

Ci siamo avvicinati alla persona storica e all’esperienza personale del Nazareno attraverso un profilo sommario del suo messaggio sul regno. Ci siamo soffermati su alcuni tratti di tale messaggio che oggi rappresentano altrettanti punti di particolare interesse. Siamo alla fine della nostra indagine. Com’è possibile che l’intimità personale di una persona storica diventi principio orientante o vitale per l’individuo di un’altra epoca storica? Come rivelare (scoprire o far intendere) all’uomo della strada che il mistero a cui nebulosamente tende è in realtà il luminoso “regno” di Gesù? Solo così si potrebbe “evangelizzare” la sua esperienza umana, far rinascere come aspirazione alla santità tipicamente cristiana un desiderio probabilmente sepolto, non cosciente e poco definito.

Per dirla in modo più semplice, la maggior parte della gente non ha esperienze mistiche, né mai ne avrà. In questo caso, non si tratta di rivelar loro il senso di un’esperienza, ma l’esistenza di una tensione. La posizione speculativa che qui presento si fonda su conclusioni teologiche. Ogni uomo è chiamato alla santità, ciascuno nel suo ambiente concreto. Non so se empiricamente si potrà stabilire che la tensione alla trascendenza (la mistica, l’autenticamente religioso) costituisca una parte normale non cosciente del vissuto di ogni uomo.

Alla domanda: come rivelare il messaggio cristiano al singolo? l’unica risposta è: “Per mezzo della fede”, la fede come presa di coscienza di una tensione preconscia. La fede come anche assunzione di responsabilità per lo sviluppo ulteriore di questa tensione. La fede come accettazione del dono del proprio vissuto che Gesù il Cristo fa al credente.

La fede non è accettazione di una dottrina; è un impegno a cercare con dedizione e rischio l’identificazione personale, intima, con l’intimo di un’altra persona. Rabbi Yeshua ben Yosef come oggetto di questa fede è il mio fratello e amico Gesù, il Signore Figlio di Dio. Gli ultimi trent’anni ci hanno aperto nuove possibilità di parlare e di conoscere. All’epoca negli ambienti scientifici c’era una prevenzione massiccia contro ogni forma di conoscenza che non fosse concettuale. Oggi, se c’è una prevenzione, è contro ogni forma di concettualizzazione.

Trasmissione storica del messaggio

Per descrivere il modo di portare l’individuo a questa fede (o da essa tenerlo lontano), il modo di avvicinarlo al l’oggetto (che di fatto è soggetto) della sua fede, devo usare un’altra parola tecnica della teologia. È una parola più corrotta ed equivoca che non “fede” o ‘‘santità”. L’individuo può arrivare alla fede solo per mezzo della Chiesa. Chiesa vuol dire qui comunità di credenti. Psicologicamente questo appare semplice; non si tratta di comunicare concetti, immagini, simboli. Si tratta della mia identificazione fraterna con il vissuto di un fratello, la quale ha nome “il regno”. E il regno è una realtà sociale di grado trascendente. Perciò non lo si può comunicare se non in e attraverso un vissuto comunitario e fraterno. Storicamente, è così che fece Gesù. E oggi non lo si può fare se non nella comunione di fede e speranza messianica propria di una comunità fraterna.

La trasmissione della fede è frutto della testimonianza, non di un insegnamento di concetti; è frutto della realizzazione del regno nel cuore del testimone, con la quale il neofita può identificarsi; e non è frutto di una convinzione intellettuale alla quale si arrivi per via di insegnamento dottrinale. Ma la dottrina nella Chiesa certo che è importante. I dogmi cristiani hanno quanto meno la stessa funzione dei dogmi di Huineng o dei sufi: sono negazioni per evitare l’intrusione di miti nella ricerca del mistero.

La fede si manifesta ritualmente nella celebrazione dei misteri del regno, dei simboli della Sua presenza. E dico “celebrazione” non affermazione o contemplazione, la fede si acquisisce solo nella concelebrazione, nella compresenza a un atto gratuito.

Come nel caso di un pasto di pane e vino, in cui c’è sì pasto, ma pasto rituale. I credenti credono nella celebrazione del regno che è realmente presente. Concelebrando in gesti e parole, il neofita si impegna nella fede. Ciò che distingue il credente dal non credente è il fatto che egli “celebri” tutta la sua vita, così come celebra questo pasto o questa compresenza.

In una simile prospettiva, il credente sta al non credente in una relazione analoga a quella di due uomini che ascoltano una barzelletta. Tutti e due capiscono il senso delle parole, ma solo uno ride, e cioè capisce la storia.

La dimensione inutile, gratuita, celebrante di ogni uomo che aspiri alla perfezione umana è cosa difficile da far capire all’uomo utilitario del nostro tempo, per il quale perfino i colori sono diventati utili: per aumentare la visibilità di un segnale o il prezzo di un libro. Ugualmente difficile è oggi la comunicazione del nocciolo del messaggio cristiano: “Cerca il regno, e tutto il resto ti sarà dato in sovrappiù”. È anzitutto attraverso l’amore che un uomo matura; anche se la maturazione rende possibili nuovi livelli d’amore. L’amore cresce nella celebrazione dell’amore.

Con questo siamo giunti a determinare l’elemento che orienta alla perfezione umanista come ce lo presenta la tradizione cristiana, nonché la forma della sua comunicazione. E qualcosa che abbiamo trovato nella celebrazione dell’a­more fraterno con Cristo. Non in una dottrina perciò, nello sviluppo di un sentimento, o nella ricerca di un’esperienza individuali.

Ho speranza che questo saggio – caricatura – fenomenologico aiuti un poco a ravvivare la ricerca psicologica sulla motivazione e sull’orientamento verso livelli superiori di maturità. specialmente nell’uomo che abbia già dichiarato guerra ai demoni e ai peccati: al dominio da parte di ideologie coscienti e, peggio, alla schiavitù a menzogne coscienti.

La vocazione dei poveri alla perfezione

Riformuliamo la domanda iniziale: e dopo l’analisi, cosa? Ovvero: dopo migliaia di pesos cosa “nelle periferie”? Dovremmo cercare di cambiare la società per poter annunciare il Messia, quando il suo regno è già arrivato, riducendolo a una tipica utopia? O dovremmo “evangelizzare i poveri”? Gesù affrontò questo dilemma nei primi giorni della sua vita pubblica, per identificarsi come Messia di fronte all’“ultimo profeta”, Giovanni Battista: “Gli storpi camminano… e il vangelo è predicato ai poveri”. Questa è la questione e la sfida al momento.

Abbiamo parlato dell’uomo di fronte alla religione. Parliamo ora del credente di fronte ai poveri. Credo sia ora di insistere sul fatto che ogni credente deve credere nel suo prossimo: deve credere anzitutto che non c’è povero così umiliato, così deforme, così paralitico, così posseduto dai demoni, da essere incapace di credere in qualcuno; deve credere che non ci sia prossimo così miserabile da non poter avvertire (probabilmente senza arrivare a esplicitarlo) la speranza messianica in chi lo ama e crede in lui; e che perciò diventi possibile la concelebrazione in questa compresenza d’amore.

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