Sfax-boys. Dalla mappa al territorio
Nella premessa a Il popolo degli abissi, Jack London, per spiegare il suo atteggiamento nell’esplorare l’Est End (quartiere degradato di Londra che è appunto il territorio raccontato nel libro), scrive: “Ero disposto a lasciarmi convincere da ciò che vedevo più che dagli insegnamenti di coloro che non avevano visto o dalle parole di chi aveva visto in precedenza”.
Lasciarsi convincere da ciò che si vede, si ascolta, si annusa: un’ottima indicazione per provare a comprendere luoghi che non conosciamo o, peggio, pensiamo a torto di conoscere.
Il carcere, ad esempio.
Io insegno lingua italiana ai detenuti stranieri del carcere di Bologna, da dieci anni; ancora non riesco a dire compiutamente cosa sia il carcere, quale il suo rapporto con la città dei liberi. Posso solo raccontare ciò che ho visto, ascoltato, pensato.
Tra le cose che ho ascoltato, che hanno cambiato totalmente le mie “mappe”, ci sono le storie dei miei studenti. E anche su queste è necessaria una precisazione.
La biografia di ognuno è un pozzo, un cammino lungo che non conosci mai per intero o che non sai raccontare bene. Quando ascolti la storia di uno, prendi la parte che ti sembra più importante. E poi ti accorgi che importante lo è perché si incastra bene nei tuoi pregiudizi, nell’ideologia che fai finta di non avere.
E allora quello che mi resta in mano sono solo immagini. Che si stampano nella mente. Senza didascalie, senza spiegazioni. Le immagini che ora vi racconto sono quelle di una parte del popolo richiuso che ho incontrato. Di quella parte che io chiamo Sfax-boys.
Said mi racconta che ha vissuto diversi giorni dormendo in case abbandonate.
Ai bordi della città, verso nord, comincia la bassa, la pianura Padana. Lì le masserie vuote in mezzo ai campi sono tante. Alcune le raggiungi in quindici minuti d’auto dal centro della città. Sono tetto a chi non può permetterselo. Ma ci trovi anche chi di soldi ne ha, sta nei traffici o semplicemente smaltisce una dose troppo forte. Said girava con pacchi di soldi in tasca. Arrivava a guadagnare, con lo spaccio, anche duemila euro in un giorno. Comprava vestiti costosissimi, scarpe – le scarpe sono la prima cosa, non ho mai capito perché – da trecento euro; mangiava in ristoranti da cinquanta euro a botta e poi, in taxi, se ne tornava alla sua casa abbandonata. La faccia del tassista, quando gli diceva “fermami qui”, era di incredulo stupore: dalla strada non si vedeva nessuna casa, nessuna costruzione, niente.
Se non hai i documenti, e non hai ancora afferrato il modo per entrare senza passaporto in un hotel – ché pure quello è, ovviamente, possibile – o non hai persone che ti “ospitano” – ospitano a pagamento, chiaramente – quando non hai i documenti dicevo non puoi affittare una casa e allora vai dove puoi. E se non dormi in una casa spendi un cofano di soldi. Si sporcano mutande e calzini? Li butti via e metti i nuovi: kalvin klein, dolce e gabbana. I vestiti, stessa storia. E mangi sempre fuori.
Questa è l’immagine: ‘sto ragazzo con cinquemila/diecimila euro in tasca, per dire, in banconote da dieci e venti (“perché vende il fumo” direbbe un bravo sbirro, “se le banconote erano da cinquanta e cento vendeva la cocaina”); prende un taxi e si fa portare in una casa abbandonata. Dorme in un sacco a pelo.
È durata poco per Said certo. Un mese, non di più. Poi un posto lo trovi, o ti arrestano.
In una casa abbandonata è nata anche la figlia di Hicham. Una banale faccenda di indirizzi. Come fai a spiegare all’ambulanza dove stai se non parli bene italiano e non conosci l’indirizzo? Perché poi un indirizzo vero e proprio non c’è: a molte case abbandonate ci arrivi attraverso i campi. E poi hai paura della polizia. E allora: “prendi porrettana/persicetana/la san vitale o che ne so ancora, alla pompa dell’Esso…insomma lì a destra, no…non c’è una strada, c’è un sentiero…”. Il 118 non aveva fatto in tempo e Hicham e la sua ragazza incinta si erano arrangiati. La figlia era nata lì. E questa è un’altra immagine. Hicham per mantenere la calma si era fumato un po’ di eroina sulla carta argentata e dopo, mani sudate e occhio molle, aveva aiutato il parto, per quel che sapeva. La corsa in ospedale c’era stata, ma solo dopo, a figlio nato. Per festeggiare, dietro al pronto soccorso ostetrico di Bologna, una bella riga di cocaina. E mo’, euforico, a chi lo voleva dire che era padre? E a chi poteva dirlo? La ragazza era scappata di casa quando aveva scoperto di essere incinta e si erano arrangiati in giro: amici di Hicham, italiani che gli facevano fare una doccia e una dormita in cambio di gabbra (la polvere, in arabo),qualche giorno in una specie di ostello. Non avevano sempre dormito in case abbandonate insomma, ma quella sera, in qualche modo e per qualche ragione, c’erano capitati.
Molti dei tunisini che tengono le piazze dello spaccio a Bologna vengono da Sfax. È una città del sud della Tunisia. Una città industriale un tempo: è lì che è nato il movimento sindacale tunisino.
Molti dei ragazzi di Sfax vengono da un quartiere in particolare che sta tra il centro e l’aeroporto, Trik Mathar, e nei loro racconti ascolti di disoccupazione, paghe basse, corruzione dei funzionari; non c’è traccia di fabbriche o fratelli operai nei loro ricordi. Uno scenario di deindustrializzazione, diresti con la tua ideologia. I ragazzi di Sfax sono giovanissimi: moltissimi sono quelli arrivati in Italia minorenni e da soli. Molti sono passati dal carcere minorile. Molti non raccontano a casa della loro detenzione. Molti sono partiti perché già avevano problemi con la giustizia in Tunisia. Ma in Tunisia, spessissimo, i problemi con la giustizia li hai per litigi con le guardie, per debiti non pagati, per cose futili a vederle da qui.
Giovani uomini soli, gli spacciatori tunisini di Bologna. Le loro storie sono infinite. Molte inventate, tutte reali.
Il soggetto centrale è il consumo. Il consumo di droghe: tutti, o quasi, finiscono per essere in qualche modo tossici. In carcere i tossici stanno tutti nella stessa sezione. Per ragioni di organizzazione più che di scelta di trattamento: la mattina arrivano gli infermieri col metadone e mica possono stare a girare per tutto il carcere. E insieme al metadone girano quintali di psicofarmaci. Le pastiglie, come le chiamano, sono merce preziosa. Servono a farti dormire quando non ci riesci, a stonarti quando è duro affrontare la giornata. Ma servono anche a procurarti le cose di cui hai bisogno: con un paio di tavor rimedi mezzo pacco di tabacco, ma anche cibo un po’ decente. I traffici ovviamente sono illegali e quando ti beccano le guardie, prendi un richiamo disciplinare.
Ci sono ragazzi che all’arresto si dichiarano tossici senza esserlo realmente perché sanno bene che, per chi in Italia non ha parenti o appoggi di altro genere, l’unico modo per andare agli arresti domiciliari è quello di essere preso in comunità. “E le comunità non ti prendono se non sei tossico” dice Hamid. La verità è che le poche comunità che accettano detenuti in affido sono quelle di recupero tossicodipendenti.
Mi ricordo la forza di Adam quando ha deciso di disintossicarsi. E lo ha fatto a modo suo, semplicemente rifiutando il metadone. È un pescatore e ha un corpo forte; lo vedo la mattina seduto nel banco che suda la sua piccola crisi d’astinenza. Il peggio, mi racconta, è passato: non prende il metadone da qualche giorno e le notti scorse sono state uno strazio. Sorride. E questa è un’altra fottuta immagine.
Ma soprattutto il consumo come movente. I ragazzi vogliono i soldi. Ne vogliono molti. Vogliono il loro pezzo di modernità. E la modernità sono le nike, la macchina, entrare da footlooker con gli occhi di chi può comprare tutto quello che vuole. Hanno diciotto anni, diciannove, venti e sanno che sei dentro o fuori a questo mondo in base ai pezzi che hai in mano e in tasca. Vogliono il loro livello di consumi.
E vogliono divertirsi, ubriacarsi, drogarsi e scopare. E questo come lo incastri nella tua ideologia? Non sono ladri di biciclette. Se rubano la bici non è per lavorare ma è perché vogliono la bici. Ovvio, questa è una generalizzazione e generalizzare è il reato principale di chi descrive.
Ma molti giovani tunisini vivono le città come enormi luna park. Vivono in modo coerente il mondo che abbiamo costruito noi, gli adulti italiani, occidentali. I diritti puzzano di muffa e ragnatele. Il metro dell’inclusione è il possesso. Con ogni mezzo necessario, possedere.
Cominci a pensare che questi ragazzi sono docili conformisti, consumatori estremi: sono a immagine e somiglianza del mondo orribile che abbiamo costruito noi. Corpi migranti, teste “da piccolo borghesi”.
Poi Hachim, da Khouribga, Marocco, allegramente frantuma la tua piccola convinzione: “ io voglio il mio, perché ognuno ha diritto al proprio. Rischio, lo so: se va bene, va bene. Se non va bene…va bene lo stesso. Non è granché quello che voglio: una casa e una famiglia, mica fare il miliardario”. E ride: ha vent’anni. Il padre è stato un mio studente qualche anno fa. Aveva occhi spiritati e grandi denti cariati. Una risata cavernosa, capelli legati a coda di cavallo da burino romano. Il figlio non sembra il figlio per quanto è composto e consapevole.
“ Sono stato al Sud, lo so che lì la polizia ti lascia in pace anche se non hai il permesso di soggiorno. Ma lavori nei campi per quattro soldi. Quello che tiri su lo spendi per mangiare e fumare. E come fai a mettere da parte qualche soldo? A costruirti un po’ di vita”. Dice proprio così: un po’ di vita.
C’è una geografia parallela nel mondo migrante carcerato. Villa Literno, Cassibile, ovviamente Lampedusa, Rosarno: sono i luoghi del sud Italia che tutti conoscono. E poi le strade e le piazze del Nord: Porta Palazzo a Torino, Via Padova a Milano, Piazza Verdi a Bologna. E il percorso è quasi sempre dal Sud al Nord. Come un copione che si ripete uguale ogni volta, i ragazzi arrivano in Campania, Calabria, Sicilia; lavorano qualche mese, di solito in campagna, in condizioni molto dure, da schiavismo. Paghe basse, razzismo, invisibilità per le istituzioni. Molto spesso si ritrovano, senza nemmeno rendersene conto, in territori controllati dalle organizzazioni criminali italiane. Poi la scelta di “ri-emigrare”. Un amico, un parente che chiama dal Nord e spiega come vanno le cose a Milano, Torino, Bologna. Mettendosi a lato della legge.
Negli ultimi anni la tappa al Sud è sempre più breve e molti la saltano direttamente.
Allora il problema, nella testa di chi osserva, diventa non più “che cosa vogliono questi ragazzi?” ma “perché non si ribellano per come vengono trattati?”. I vecchi schemi quasi ti fregano facendoti pensare di nuovo che ribellione e reato sono due facce della stessa esistenza, ma sai bene che oggi non è così. La Leggera di Danilo Montaldi è proprio tutta un’altra storia.
Alla fine, per accrescere grandemente la confusione e sancire definitivamente che “la mappa non è il territorio”, senti anche storie di sfax-boys che ti insegnano come si campa, come si combatte per i propri diritti, come non hai sentito da tempo. E sei punto e accapo.
Issam è in carcere da due anni. È tunisino. È sposato con una donna italiana e due figlie: le incontra settimanalmente nel colloquio che è permesso ai detenuti. L’incontro con queste tre persone è ossigeno per lui, da tutti i punti di vista, anche materiale. Fare un colloquio con dei familiari significa, banalmente, ricevere “il pacco” e cioè una borsa con indumenti puliti e cibo. E poi le figlie gli crescono sotto agli occhi; farle venire in carcere è una crudele necessità. Loro attraversano un luogo cupo che si inchioderà nella loro memoria ma Issam le guarda e sta, per un piccolo momento, tranquillo. Sorridono.
A gennaio comunicano a Issam che verrà trasferito in un carcere del centro Italia. Lui non capisce, non accetta: è residente a Bologna, qui c’è sua moglie e le figlie che lo vengono a trovare. Perché lo trasferiscono? Come potrà incontrare i suoi così lontano da Bologna?
Issam è un numeretto da spostare per sedare l’eterno problema del sovraffollamento (il carcere di Bologna è uno dei più sovraffollati d’Italia). Trasferimenti di massa per alleggerire la situazione in alcuni istituti arrivati al limite della sopportabilità.
Ma questo come si concilia con la sua vita?
Il giorno del trasferimento Issam con mano ferma infila l’ago e, in quattro punti, si cuce le labbra. (“Dove avrà trovato l’ago?” mi chiedo e poi mi chiedo più forte dove avrà trovato il coraggio.)
E comincia il suo sciopero della fame. Non mangerà fin quando non verrà deciso il suo ri-trasferimento a Bologna. Lo caricano sul furgone che lo porterà al suo nuovo carcere e partono. Lui soffre il mal d’auto e durante il viaggio, forse anche perché respira male, vomita più volte, anzi: prova a vomitare. Il vomito gli rimane in bocca, non trova vie d’uscita. Una piccola parte zampilla dagli spazi tra cucitura e cucitura, il resto lo inghiotte di nuovo. Gli agenti, preoccupati, gli propongono di ricoverarlo in un ospedale, sono già in Toscana. Lui li rassicura e li fa continuare: teme che fermarsi in Toscana possa significare rimanere bloccato in quella regione per tutta la sua detenzione.
Arriva a destinazione devastato. Ma non ci pensa nemmeno a interrompere lo sciopero. Resta senza mangiare e bere per otto giorni. Scrive le sue motivazioni su un foglio: una sola, sintetica, sgrammaticata, intensa richiesta: Bologna.
Il personale del carcere, a partire dal Direttore, fa di tutto per distoglierlo dalla sua protesta. Con le buone.
Dopo otto giorni sviene e lo ricoverano. Ha perso undici chili. Le flebo lo rimettono in sesto. Ma Issam comunica che continuerà lo sciopero. Le cuciture gliele hanno tolte, ma le cose non cambiano. All’undicesimo giorno lo riportano a Bologna.