Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Scuola, città, territorio

Illustrazione di Frédéric Coché
31 Maggio 2021
Gabriele Vitello

In questi mesi di pandemia il rapporto tra scuola e città è tornato al centro del discorso pubblico. L’esigenza di discutere di educazione fuori da una logica scuola-centrica è riemersa con forza soprattutto dopo che, nel maggio dello scorso anno, il Comitato degli esperti del Ministero dell’istruzione ha emanato un documento che invitava le scuole e i territori a stipulare dei ‘Patti educativi di comunità’. Nelle intenzioni degli esperti, i Patti dovevano avere due compiti: reperire spazi pubblici e privati (come parchi, teatri, biblioteche, archivi, cinema e musei) dove poter svolgere attività didattiche, e promuovere collaborazioni tra scuole e soggetti territoriali che possono concorrere all’arricchimento dell’offerta educativa. Come ha chiarito successivamente Patrizio Bianchi nel suo pamphlet Nello specchio della scuola, i ‘Patti educativi di comunità’ non devono limitarsi a gestire l’emergenza COVID, ma essere uno strumento per rafforzare l’autonomia scolastica, delegando nuove fette di potere alle scuole.

Salvo poche eccezioni, il progetto dei Patti educativi non ha avuto tuttavia per il momento effetti significativi su larga scala. La ragione sta probabilmente nella nostra difficoltà a uscire da un’idea, tremendamente conservatrice, novecentesca e fordista, di scuola come organismo autosufficiente e separato dal mondo che gli sta intorno; un’idea per la quale qualsiasi intrusione del mondo esterno nella scuola viene vista con sospetto, un possibile tentativo di infiltrazione del Capitale o del Potere Neoliberale. (La confusione esistente nel dibattito sull’alternanza scuola-lavoro sta lì a dimostrarlo: che l’attuale sistema di alternanza scuola-lavoro sia imperfetto è chiaro a tutti; ma che il mondo del lavoro debba essere tenuto lontano dalla scuola, come molti sostengono, è un’idea regressiva, frutto di un pregiudizio ideologico. Vale la pena ricordare forse che il principio di integrazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale è alla base delle pedagogie progressiste e libertarie ed è già presente in Campi, fabbriche e officine di Kropotkin).

Nei prossimi mesi, dovremo tutti quanti impegnarci a immaginare nuove possibili interconnessioni tra la scuola e la città. A questo scopo vorrei riallacciarmi al dizionario sul diritto alla città pubblicato sul numero 82-83 degli “Asini”, e provare a sviluppare qualche spunto di riflessione per ripensare la scuola di domani, senza alcuna pretesa di esaustività.
In un suo articolo sul “Foglio” di qualche anno fa, Alfonso Berardinelli notava che “i ragazzi passano la maggior parte del proprio tempo davanti a uno schermo piuttosto che in strada a giocare”. È una lamentela molto comune che però rischia di colpevolizzare i giovani e semplificare la realtà. I ragazzi non giocano più in strada non tanto a causa di internet, quanto perché le strade – che, per l’antropologa americana Jane Jacobs, erano il luogo dell’incontro spontaneo e ordinato, “il punto di partenza di una ricca vita collettiva urbana” – non esistono più, o, nei casi migliori, sono percepite come luoghi insicuri e appannaggio esclusivo delle automobili. Quest’ultime, sempre più grandi e imponenti, sono diventate le padrone delle nostre città relegando ai margini i ciclisti e i pedoni, e soprattutto i bambini.

La città a misura di bambino è stata una grande utopia mancata del Novecento. La ritroviamo, ad esempio, nel manifesto per La pianificazione urbana per le diverse fasi della vita di Lewis Mumford. “L’attività urbanistica – scriveva Mumford – finora è stata quasi esclusivamente concentrata intorno alla vita degli adulti e per di più intorno a certi aspetti soltanto della vita degli adulti, quali gli affari, l’industria, l’amministrazione, il traffico, i trasporti”. Mumford scriveva questo testo nel 1945, ma a quasi ottant’anni di distanza ci stupiamo per la sua grande sensibilità pedagogica, molto distante da quella dei suoi attuali colleghi: “nei campi asfaltati la fantasia dei ragazzi si spegne, mentre per esempio nelle zone bombardate di Londra sono sorte per loro possibilità meravigliose”. Mumford riconosce insomma il valore del “gioco spontaneo” dei ragazzi e il fascino esercitato su di loro dai “posti selvaggi” più favorevoli all’”avventura”.

Dopo la guerra l’Europa era un cumulo di macerie ed era necessario ricostruire; le città erano infatti al centro delle preoccupazioni degli educatori, anche in Italia. Lo attesta persino il nome di una delle nostre riviste di educazione più prestigiose, “Scuola e città”, fondata nel 1950 da Ernesto Codignola; così come il nome della scuola fondata dallo stesso Codignola insieme a sua moglie Anna Maria Melli, nel quartiere Santa Croce di Firenze, la Scuola-Città Pestalozzi. Gli educatori progressisti del dopoguerra sapevano che la democrazia si costruisce a partire dalle scuole e da un’educazione che miri a formare cittadini consapevoli e attivi nella vita pubblica. A questo scopo bisognava abbattere i muri che separavano la scuola dalla città in quanto spazio politico, sociale, produttivo dove si strutturano le relazioni sociali e nasce il senso di appartenenza a una comunità.

La valorizzazione della realtà esterna alla scuola è uno dei fondamenti della pedagogia attiva, da Dewey a Freinet e tanti altri. Tuttavia, gli sforzi maggiori per colmare lo iato esistente tra scuola e realtà e ripensare le città a partire dai più giovani sono certamente da attribuire ai descolarizzatori. Tra loro spicca la figura di Colin Ward, architetto urbanista ed educatore anarchico, per il quale lo scarto tra scuola e extrascuola va superato, facendo della stessa città una scuola. Ward cita alcune esperienze di questo genere, come ad esempio il Parkway Education Program sperimentato a Philadelphia dove “gli studenti d’arte venivano mandati nei musei, quelli di biologia al parco zoologico, quelli di applicazioni tecniche nelle officine meccaniche e quelli di economia e commercio, tutti tra i 14 e i 18 anni, negli uffici contabili delle aziende o nelle sedi dei giornali”. Ward non si limitava a dire che bisognava chiudere le scuole e lasciare i bambini e i ragazzi liberi di fare quel che volevano. Le sue acute osservazioni del comportamento dei giovani e del processo di apprendimento lo hanno spinto a elaborare il concetto di educazione incidentale, con il quale intendeva riferirsi a un apprendimento non programmato a priori da un insegnante, ma nato da un incontro casuale, una scintilla che accende nell’educando la curiosità e il desiderio.

Il concetto di educazione incidentale ispira anche il lavoro di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli che nel loro libro, La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa, propongono di trasformare la scuola in una “rete di luoghi per apprendere” sparsa per la città: i ragazzi e le ragazze faranno ‘scuola’ in spazi pubblici come musei e biblioteche, e privati, come negozi e centri commerciali. Nella città educante “mobile e fluttuante” dei due autori manca però una rigorosa progettualità pedagogica. I programmi sono aboliti e la scelta di cosa si deve imparare è delegata interamente all’autodeterminazione dei ragazzi: ai loro desideri e ai loro interessi individuali. Come si vede, è un progetto che ha ben poche possibilità di essere concretizzato su larga scala. Non basta certo prevedere, come suggeriscono Mottana e Campagnoli, un “sistema premiante” per incentivare le scuole e i comuni più ‘virtuosi’ che meglio di altri applichino il modello educativo da loro teorizzato (un lapsus neoliberista all’interno di un discorso che vuole essere libertario?).
Salvo poche eccezioni, negli ultimi anni il binomio scuola-città – un tempo presente nelle menti dei pedagogisti e degli urbanisti – è passato di moda. Un po’ perché l’ambiente urbano subisce la concorrenza dell’ambiente digitale, e un po’ per via della fortuna che sta riscuotendo l’Outdoor Education: si fugge dalle città in cerca di una natura, più o meno ingenuamente intesa. Una fuga verso una dimensione precivile e prepolitica – o verso un principio materno, direbbe uno psicologo junghiano – nella quale ha origine la fortuna di tante scuole alternative e, in particolare, della rete degli Asili nel bosco.

Salvo poche eccezioni, negli ultimi anni il binomio scuola-città – un tempo presente nelle menti dei pedagogisti e degli urbanisti – è passato di moda


Qualcuno potrebbe obiettare che la valorizzazione dei rapporti tra scuola e territorio è uno dei capisaldi dell’autonomia scolastica introdotta ormai più di vent’anni fa. Ma gli stessi difensori dell’autonomia, come l’attuale ministro Patrizio Bianchi, attestano il fallimento di quel progetto. Di fatto, a vent’anni dalla legge sull’autonomia scolastica, la struttura della scuola pubblica di stato – con la sua idea che l’apprendimento non possa che avvenire dentro un’aula dove banchi e cattedre predeterminano i movimenti del docente e degli alunni – non è stata scalfita. Anzi, se possibile, è diventata ancora più rigida, anche per colpa della nostra ossessione per la sicurezza. Portare i ragazzi fuori dalla scuola non è mai stato così complicato a causa di oneri burocratici sempre crescenti; di conseguenza, gli insegnanti che vedono nella città e nelle sue strade una risorsa pedagogica finiscono col rinunciarvi.

Volendo delle scuole più sicure, di fatto le abbiamo rese dei luoghi sempre meno accoglienti, aree segregate dove la mattina gli adulti parcheggiano i loro figli primi di andare al lavoro. La scuola è percepita da molti ragazzi come un luogo opprimente e soffocante, e non deve quindi stupirci se, a 15 anni, il 92% dei maschi e il 90% delle femmine dichiarano di non amarla. Nell’istituto in cui ho insegnato l’anno scorso, prima del lockdown, sono scoppiati ben due incendi, per fortuna prontamente soffocati prima che provocassero dei seri danni. In entrambi i casi i responsabili erano degli studenti che volevano prolungare il tempo della ricreazione. Può una scuola del genere considerarsi sicura? Forse sì, ma solo se diamo alla parola sicurezza un’accezione parziale e, in fondo, ideologica: la condizione sicura ed esente da pericoli non è per forza di cose il risultato di un controllo dall’alto sui vari soggetti che abitano uno spazio, ma può anche essere il frutto di un controllo reciproco e orizzontale tra diversi soggetti.

Nel suo pezzo sulla sicurezza urbana uscito nel dizionario sul diritto alla città, Michela Barzi osservava che “la sicurezza delle città ha (…) molto a che fare con un ambiente costruito che consente a tutte le persone, senza distinzione di ceto, etnia, età e genere, la condivisione dello spazio in cui si svolge la vita pubblica”. Lo stesso vale per la scuola. Una scuola è veramente sicura soltanto se è inclusiva, ovvero se tutti e tutte sentono di potervi contribuire positivamente, essendo parte di una comunità. (Se riuscissimo a tenere sempre saldo questo nesso tra sicurezza e inclusione e farlo diventare senso comune, infliggeremmo finalmente un duro colpo alla retoriche di destra).

Se vogliamo che gli studenti smettano di odiare le scuole, dobbiamo trasformarle dunque in luoghi gradevoli, accoglienti e caldi: pareti vetrate al posto dei muri di cemento, aree morbide e aule arredate in modi diversi… Certo, per le scuole dei centri storici il discorso si complica per via dei vincoli sul patrimonio storico-artistico. In questo caso la soluzione non può che essere una: passare dalla scuola-santuario, dove il pellegrinaggio avviene la mattina, alla scuola agorà, sempre aperta, sempre attraversata, magari da gruppi e persone diverse durante il giorno, sempre per questioni educative. Insomma, per vitalizzare gli edifici scolastici bisogna aprirli allo spazio esterno, che, lungi dall’essere un ricettacolo di pericoli e minacce, rappresenta una risorsa da sfruttare in chiave pedagogica.

Oggi le potenzialità educative offerte dalla città sono sottosfruttate. Nelle loro sporadiche uscite dagli edifici scolastici, gli studenti giocano a fare i turisti: invece di essere un luogo di azione e creazione collettiva, la città diventa per loro uno spazio da attraversare per raggiungere un museo o la sede di un grande evento. Ciò avviene perché nella mente degli insegnanti la città coincide esclusivamente con il centro storico, anche se il 90% dei cittadini abita ormai nelle periferie. È in esse che sta, come ci ricorda Renzo Piano, la forza delle città: “le periferie sono fabbriche di desideri. Non ci sono le banche, non c’è il potere, ma lì c’è la forza e l’energia vera, quella delle speranze, del futuro. Del resto anche i centri storici sono malati. Negli anni Sessanta e Settanta c’è stata una battaglia per preservare i centri storici, che è riuscita. Peccato che li abbiamo preservati fin troppo e adesso sono diventati dei musei, anzi, peggio, dei musei trasformati in shopping-street”.

Uscire dalla scuola non è forse un’esigenza soltanto dei ragazzi, ma anche di molti insegnanti. L’anno scorso, prima del lockdown, qui a Bologna, all’interno del centro sociale XM24, era nato un collettivo di insegnanti, educatori e genitori con l’obiettivo di organizzare delle attività di autoformazione e al contempo di realizzare degli interventi educativi nel territorio in cui si trovavano, il quartiere della Bolognina. Tra le ragioni che animavano quel gruppo c’era la ricerca di uno spazio democratico di discussione su temi pedagogici che fosse alternativo alla scuola, un’istituzione ritenuta inadeguata a questo scopo.

L’esperienza del collettivo di insegnanti dell’XM24 ci dà la misura del radicale mutamento avvenuto negli ultimi decenni nei rapporti tra scuola e politica. Un tempo, come raccontano molte maestre del MCE, andare a una riunione di sezione del partito o a una riunione di dipartimento del proprio istituto erano scelte equivalenti. Partecipare a una riunione collegiale aveva insomma un senso, pedagogico e politico, che oggi si è perso: gli organi collegiali – con tutta la loro burocrazia fatta di tabelle, relazioni e griglie da compilare – sono percepiti come un’inutile perdita di tempo.

Per sfruttare le potenzialità educative latenti della città, non basta portare i ragazzi fuori a passeggiare, ma occorre una rigorosa progettualità pedagogica, senza la quale l’uscita fuori dalla scuola si riduce a un momento di piacevole evasione o rischia di scolasticizzare la città riproducendo fuori il modo di lavorare in aula. A mancare nelle proposte dei descolarizzatori sono proprio una rigorosa intenzionalità pedagogica e una chiara definizione dei soggetti esterni con cui le scuole devono collaborare. Conviene prendere le mosse piuttosto dalla proposta di un ‘sistema formativo allargato’ che è stata formulata da Francesco De Bartolomeis nel suo libro Fare scuola fuori della scuola, recentemente ripubblicato 2018 da Aracne, una delle sintesi più profonde e articolate sul rapporto scuola-territorio.

De Bartolomeis è convinto che l’uscita dalla scuola, se organizzata con metodo, abbia delle ricadute positive su molteplici piani, non solo cognitivi ma anche fisici e psicologici. Fare scuola fuori della scuola stimola gli studenti ad avvertire “la propria appartenenza a situazioni più ampie e complesse”, contribuisce a “portare la cultura su un terreno di ricerca” e a sviluppare un’idea di cultura più ampia che comprenda anche la cultura materiale. Per riuscire in questa impresa, le scuole devono però ripensare l’organizzazione didattica (programmi, orario, contenuti…), superare la routine spiegazione-studio a casa-interrogazione e mettere al centro laboratori, ricerca e lavoro per progetti.

La proposta di De Bartolomeis si sposa perfettamente con quella di Francesco Tonucci di fare della scuola un “laboratorio di studi ambientali e intervento territoriale” dove i bambini e i ragazzi potrebbero dare un contributo positivo alla comunità, interrogarsi sui problemi ambientali, sulle fragilità sociali dei loro quartieri, attraverso inchieste e interviste.
Nel tempo abbiamo accumulato un patrimonio di esperienze a cui attingere. Franco Lorenzoni in un suo articolo pubblicato su “Comune-Info”, Patti educativi tra scuola e città, ricorda il progetto Chance di Carla Melazzini e Cesare Moreno, all’interno del quale la “didattica itinerante” era considerata una materia curricolare trasversale per costruire competenze di cittadinanza, competenze professionali e competenze cognitive. Spostandoci in un terreno ancora più ‘di frontiera’, possiamo anche menzionare l’esperienza del Mammut di Napoli, dove il lavoro in aula è integrato nell’”aula-città”, attraverso il metodo della ricerca-azione.
Se vogliamo davvero “allargare” il sistema formativo, le scuole non possono essere lasciate sole: c’è bisogno del sostegno e della partecipazione di tanti soggetti esterni come biblioteche, musei, cooperative sociali, associazioni e magari anche le consulte giovanili che si stanno diffondendo in molti comuni italiani. Gli ostacoli da superare sono enormi ma vale la pena provarci, se si vuole che i Patti educativi non restino semplicemente una buona intenzione, e soprattutto se si vuole una scuola più vera.

Bibliografia
Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Einaudi 2009.
Francesco De Bartolomeis, Fare scuola fuori della scuola [1983], Aracne 2018.
Francesco Tonucci, La città dei bambini, Laterza 1996.
AA.VV., La città educante, a cura di M. Gennari, Sagep 2989.
Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca, Sellerio 2011.
Giovanni Zoppoli, Fare scuola, fare città, Edizioni dell’Asino 2014.
Colin Ward, L’educazione incidentale, a cura di F. Codello, elèuthera 2018.
Paolo Mottana, Giuseppe Campagnoli, La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa, Asterios 2018.
Beate Weyland, L’architettura per l’apprendimento: autonomia scolastica e riprogettazione degli spazi educativi, in AA.VV. Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome, a cura di M. Campione e E. Contu, Il Mulino 2020.
R. Piano, La città è il contrario del deserto, intervista a cura di F. Lorenzoni, “Cooperazione Educativa”, volume 68, n. 1, febbraio 2019.
Il diritto alla città. Voci per un dizionario, in “Gli asini”, n. 82-83, dicembre-gennaio 2020-21.


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