Scioperare per la giustizia climatica
Si avvicina sotto i peggiori auspici la ventottesima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, che si terrà negli Emirati Arabi Uniti dal 30 novembre al 12 dicembre di quest’anno. Va infatti segnalata un’importante trasformazione – tutt’altro che benaugurante – nell’approccio delle ultime COP, in particolare a partire dalla ventiseiesima, tenutasi a Glasgow nel 2021: il registro politico dell’adattamento – una sorta di riduzione del danno climatico, una volta che questo si sia manifestato – sembra infatti tornare a occupare il centro della scena, a discapito del registro politico della mitigazione – che comporta la riduzione o l’azzeramento delle emissioni ed è cruciale per i movimenti ecologisti e (a parole) fondativo per la global climate governance a guida ONU – o Sistema delle COP.
Nel Regno Unito, due anni fa, l’attenzione era stata catalizzata dalla “neutralità climatica” [Carbon Net-Zero], vale a dire la necessità di massimizzare l’assorbimento naturale di CO2-equivalente di fronte all’incapacità di ridurre le emissioni. La questione linguistica in questi casi è di sostanza: se l’obiettivo è la “riduzione delle emissioni”, l’unica soluzione è minimizzare quanto più possibile il rilascio in atmosfera di CO2-equivalente; se l’obiettivo è la “neutralità climatica”, si può continuare a emettere a piacere purché i gas climalteranti vengano “compensati” – naturalmente (per esempio, piantando alberi che assorbono anidride carbonica) o artificialmente (per esempio, ricorrendo alla geo-ingegneria).
Nel novembre 2022, a Sharm-el-Sheikh (Egitto), la COP 27 si era invece concentrata sulle “perdite e danni” [Loss & Damage], cioè sul finanziamento di efficaci misure di contenimento dei sempre più frequenti eventi meteorologici estremi. A ulteriore conferma della direzione intrapresa, è notizia ufficiale che il Presidente della COP 28 sarà il massimo sponsor dei combustibili fossili Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC). Non a caso, è opinione diffusa tra gli operatori che l’oggetto principale della prossima COP sarà la geo-ingegneria, cioè una classica (benché ipotetica) “soluzione tecnologica” che permetterebbe sia di proseguire il cammino ad alta intensità emissiva del capitalismo fossile, sia di ambire alla “neutralità climatica” nel 2050 – non per mezzo dell’assorbimento naturale ma attraverso diverse strategie di “cattura e stoccaggio di CO2-equivalente” [Carbon Capture & Storage]. È bene sottolineare che non si tratta di progetti futuristici da localizzare in esotiche Silicon Valley, bensì di realtà in procinto di essere implementate nel nostro Paese, per esempio, a Ravenna.
Siamo dunque di fronte a un ritorno dell’adattamento, che occorre in prima istanza contestualizzare storicamente: il primo registro politico della crisi ecologica a istituzionalizzarsi, infatti, fu proprio l’adattamento (negli anni Settanta, segnati dal combinato disposto di Guerra Fredda e crescente “benessere” economico che rendeva di fatto impensabile la rimozione alla radice delle cause del degrado ambientale). La mitigazione divenne “lingua” della governance climatica solo nel corso degli anni Novanta, in concomitanza con l’emergere della formazione discorsiva della green economy, la quale prescriveva che la mercificazione dell’atmosfera portasse con sé la duplice promessa di elevati tassi di profitto e di una significativa riduzione delle emissioni di CO2-equivalente. Per “mercificazione dell’atmosfera” intendiamo il processo a un tempo tecnico e politico che ha trasformato le emissioni in eccesso di CO2-equivalente in unità di scambio economico, creando ex novo un mercato esclusivamente dedicato a questo. Si tratta dell’idea che solo “dando un prezzo alla natura” – in questo caso alla capacità atmosferica di assorbimento dei gas a effetto serra – il cambiamento climatico possa essere efficacemente combattuto.
Un quarto di secolo dopo il Protocollo di Kyoto (1997), si può affermare senza timore di smentita che tale duplice promessa – elevati tassi di profitto e riduzione delle emissioni – non è stata mantenuta né dal punto di vista economico né, soprattutto e più drammaticamente, dal punto di vista ecologico.
È questa inedita impasse a spiegare il “ritorno dell’adattamento”, che a sua volta si traduce politicamente in due tendenze distinte ma accomunate dall’idea che la partita del clima sia inutile (o perché mai iniziata oppure perché ormai conclusa: con una sonora sconfitta). Per comprenderle riteniamo di particolare importanza la distinzione concettuale – avanzata da Marco Deriu in Rigenerazione. Per una democrazia capace di futuro, testo cruciale pubblicato da Castelvecchi nel 2022 – tra negazionismo climatico di primo tipo (posizione secondo cui il pianeta si starebbe riscaldando, ma non a causa dell’attività antropica – ragion per cui occuparsi della questione sarebbe un’inutile perdita di tempo) e negazionismo climatico di secondo tipo (posizione secondo cui il mutamento sarebbe senz’altro antropogenico ma esclusivamente affrontabile con quegli stessi strumenti di mercato che si sono rivelati controproducenti da almeno due decenni).
Su questo sfondo, la nostra ipotesi è che la congiuntura attuale sia segnata da due novità. Da un lato, l’emergere di una sorta di radicalizzazione del negazionismo climatico di primo tipo, che arriva a disconoscere non solo la natura antropogenica del riscaldamento globale, ma anche l’innalzamento delle temperature e le sue conseguenze – “in primavera è sempre piovuto”, “d’estate c’è sempre stato caldo”, ecc. (dal punto di vista strategico, questo piano di discorso pubblico non mostra alcun interesse ed è questa la ragione per cui lo menzioniamo ma non lo commentiamo; dal punto di vista tattico, invece, i problemi sono innumerevoli, motivo per cui ci auguriamo che le realtà di movimento sappiano trovare forme efficaci di contrapposizione). Dall’altro lato, si fa strada invece una forma particolarmente capziosa di negazionismo di secondo tipo, secondo la quale non sarebbe in discussione che siano le attività umane a causare il cambiamento climatico, né che sia stato opportuno affrontarlo con strumenti di mercato. Tuttavia, poiché il tentativo della green economy è fallito, sarebbe saggio lasciarsi alle spalle l’ambizioso progetto di “risolvere il problema” e tornare a concentrarsi, invece, sulla “riduzione del danno”. Emblematico, a questo proposito, è un articolo pubblicato da Francesco Ramella su Domani il 9 agosto 2021. Secondo l’autore, i dati non mentono, ma vanno interpretati: vero, gli eventi meteorologici estremi aumentano, perché l’umanità moderna ha emesso molti gas serra e perché la governance climatica non è riuscita, nelle decadi scorse, a mitigarle; ma – esattamente per tale ragione! – abbiamo imparato a gestire le catastrofi meglio che in passato, limitandone la portata distruttiva. In un brano che non manca di un certo lirismo, Ramella chiarisce il proprio pensiero:
Potremmo dire che abbiamo riparato il tetto della casa in cui viviamo e, anche se per farlo abbiamo alterato il clima incrementando così la frequenza delle piogge intense, oggi rischiamo molto meno rispetto al passato […] Senza dimenticare che, nel breve e medio termine, a fare la differenza, soprattutto nei Paesi più poveri, saranno ancora la crescita economica e gli interventi di adattamento. E che la mitigazione ci rende inizialmente un po’ più poveri e, quindi, più vulnerabili.
Si tratta di un passaggio davvero notevole: da un lato si prende atto con lucidità del fallimento delle politiche di mitigazione implementate dal Sistema delle COP, mentre dall’altro si propone di accettare come inevitabile tale dêbacle e concentrarsi pragmaticamente sull’adattamento al peggio che incombe. Sembra quasi trasparire una brezza di ragionevole realismo: “Se non puoi batterli [i combustibili fossili], unisciti a loro”! Ma è davvero così? Fortunatamente, no. In primo luogo, perché non è scritto da nessuna parte che la partita della mitigazione – quella fondativa, per la giustizia climatica – sia ormai perduta. Anzi: lo stesso IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), nel suo ultimo report, pubblicato nel 2023 (bit.ly/ipccrep23), sostiene con fermezza che la riduzione delle emissioni sia condizione non solo – come ovvio – della risoluzione del problema a lungo termine, ma anche della manutenzione di significativi livelli di benessere nel breve periodo, vale a dire nelle fasi iniziali di una transizione ecologica che viene data per scontata (e che noi sappiamo essere o dal basso o fittizia).
Inoltre, nulla garantisce che il trend rispetto ai minori impatti di eventi meteorologici estremi sempre più frequenti non si interrompa: la devastante alluvione che ha colpito l’Emilia-Romagna nella primavera 2023 sembrerebbe un segnale in quella direzione (rimandiamo al recente ebook Researchers for Climate Justice, Costruire Giustizia Climatica, scaricabile dal sito www.bolognaforclimatejustice.it). Infine, il ragionamento di Ramella non fa i conti con la posizionalità dei gruppi sociali di fronte al riscaldamento globale: la mitigazione rende più poveri chi, esattamente? Tutti e tutte noi? Ovviamente no. Se pianificata democraticamente e finanziata da una tassazione climatica progressiva, la mitigazione rende più poveri solo coloro che continuano ad arricchirsi nel contesto del capitalismo fossile. D’accordo, possiamo concederlo: qualcuno dovrà pur pagare questa benedetta transizione ecologica, e sarebbe bene che fossero proprio questi personaggi. Ma su un punto deve esserci chiarezza: per la stragrande maggioranza della popolazione, la mitigazione è un’occasione per rendere la società più giusta di quanto non sia ora. Un orizzonte di miglioramento non solo ambientale, ma anche occupazionale (come dimostrano per esempio le climate jobs campaigns nella recentissima esortazione apostolica Laudate Deum).
È su questo crinale che si misura nella sua enorme ampiezza l’inadeguatezza dei ceti dirigenti in particolare nel Nord globale. Se già nel periodo successivo alla grande crisi del 2007/2008 Pierre Rosanvallon aveva riscontrato tracce di separatismo sociale da parte dei ceti più abbienti e politicamente dominanti, oggi è senz’altro ragionevole avanzare l’ipotesi di una secessione climatica delle élites. Lo spiega benissimo Èdouard Morena, nel libro Fin du monde et petits fours. Les ultra-riches face à la crise climatique (La Découverte, Paris 2023, pp. 154-5):
L’interesse dei ricchi a lasciare in eredità ai propri figli un pianeta abitabile non si sostituisce ai loro interessi di classe. Sono questi ultimi, ben più che la loro eco-ansia, che li hanno portati a supportare ‘soluzioni’ di politica climatica che, benché incapaci di ridurre le emissioni, consolidano il loro potere. Sono i loro interessi di classe che li hanno portati a emarginare le voci discordanti e le soluzioni alternative che non provengono dalle loro schiere. Possono ben parlare, fingendo commozione, di apocalisse, di collasso, di pianeta in panne e di punti di non ritorno. Ma la loro urgenza climatica non è la nostra, e ancor meno è quella delle popolazioni più vulnerabili, già colpite dagli effetti del riscaldamento.
Ora, va sottolineato che si tratta di una realtà politica inedita, che inchioda la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici alla distanza siderale tra obiettivi dichiarati (ambiziosissimi) e politiche implementate (massimamente inefficaci). A differenza di Morena, che si sofferma sui loro limiti, noi crediamo che i movimenti per la giustizia climatica esplosi a partire dal 2019 siano ben consapevoli della posta in gioco: legare il contrasto al riscaldamento globale alla lotta per l’uguaglianza sociale, partendo dall’evidenza empirica che il tentativo di fare della riduzione delle emissioni il fulcro di una strategia di crescita economica è miseramente fallito. Ed è precisamente su questo piano che si pone il problema fondamentale del nostro presente, come abbiamo cercato di argomentare nel libro L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso (Editore Orthotes, 2023): quello di elaborare una strategia di pianificazione ecologica che assuma la giustizia climatica come orizzonte di riferimento, cioè che assuma come condizione necessaria – benché probabilmente non sufficiente – la convergenza tra l’ecologismo radicale e il mondo del lavoro. Il prossimo passo – la capacità di incidere a livello istituzionale – e quello successivo – la capacità di attrarre a sé le altre parti sociali – dipenderanno dal rapporto di forza che le soggettività che si richiamano alla giustizia climatica avranno saputo imporre. Ed è su tale questione che vorremmo terminare: se le élite fuggono, la classe lavoratrice – insieme al variegato mondo ecologista – ha dimostrato invece di saper convergere e porsi immediatamente come “classe dirigente”.
Questo processo, che ha trovato nell’esperienza nata dal Collettivo di Fabbrica GKN la sua punta più strutturata e avanzata, continua ad alimentarsi del protagonismo di lavoratrici e lavoratori, che hanno aperto ulteriori spiragli e illuminato possibili sentieri. In questo senso, ci sembra fondamentale riconoscere la straordinarietà degli scioperi climatici che quest’estate si sono succeduti nei luoghi di lavoro. Mentre inediti picchi di calore si abbattevano sullo Stivale e sul resto d’Europa, e mentre le aziende non si preoccupavano di chiedere la cassa integrazione prevista in questi casi (nemmeno quando richiesta dagli stessi dipendenti) in molte e molti hanno deciso di fermarsi, di scioperare per proteggere la propria vita, di bloccare la catena produttiva perché le condizioni metereologiche lo imponevano. Di fatto, la formula “sciopero climatico” ampliava il suo orizzonte di senso. Crediamo infatti che queste azioni di lotta, che sono letteralmente state per la vita, siano intimamente legate alle piazze ricolme dei primi “climate strike” del 2019. Nelle cucine dei McDonald’s di Bari e Casamassima, alla Hi-Lex di Chiavari, nei capannoni industriali del torinese, alla Electrolux nel trevigiano, alla Rossi Spa di Modena, i lavoratori e le lavoratrici hanno incrociato le braccia per difendere la propria incolumità, mentre le rispettive aziende sostenevano indefesse che le condizioni di sicurezza fossero garantite – proprio nell’estate in cui decine di persone sono morte di caldo sui luoghi di lavoro! «Questa situazione», chiosa Lorenzo Feltrin, «in cui le decisioni prese da uffici climatizzati mettono lavoratrici e lavoratori in condizioni estreme, è emblematica della dimensione di classe della crisi ecologica, caratterizzata da forti asimmetrie per quanto riguarda sia le responsabilità nel causarla sia l’esposizione alle conseguenze» (“Climate strike” all’Electrolux. La crisi ecologica vista dalle catene di montaggio – intervista ad Augustin Breda, www.globalproject.info/it, 2023).
Crediamo che la sempre più diffusa consapevolezza di questa dimensione amplifichi lo spazio in cui praticare la convergenza tra mondo ecologista e lotte del lavoro, perché passo dopo passo chi lavora riconosce e acquisisce l’arma dello sciopero climatico, lo discute nei magazzini, negli stabilimenti, nelle fabbriche – ma anche nelle scuole, negli ospedali. E realizza che sono le persone comuni, costrette a lavorare in ogni condizione, e non certo manager o amministratori delegati, a starsene piegati sull’asfalto sotto il sole cocente, soffocati dall’afa, nelle cucine senza aria condizionata e tra i fuochi accesi, a caricare, scaricare e consegnare pacchi, di corsa, con il termometro che schizza oltre i 40° gradi. Infine, e forse ancor più importante, è la presa di coscienza del fatto che in campo non ci sono due progetti di società, uno capitalistico e uno rivoluzionario. In campo ci sono le macerie di una grande ambizione esplosa ingloriosamente in un vortice di convulsioni, e la razionalità determinatissima di chi, sapendo che il profitto a ogni costo impoverisce l’economia e distrugge il pianeta, propone la transizione ecologica dal basso. Per i molti, non per i pochi. Non sulle teste degli operai, ma con esse.
La sfida è epocale, ma irrinunciabile. O loro e la loro catastrofe, o noi. Benvenuti nell’era della giustizia climatica.