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Educazione e intervento sociale

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Salvatore Porcaro e il metodo dell’inchiesta

disegno di Riccardo Ricci
7 Luglio 2022
Livia Apa

È molto difficile parlare del libro L’Estate è finita di Salvatore Porcaro ma estremamente necessario, al contempo. Il volume pubblicato da Napoli Monitor è un’opera ibrida in molti sensi: non è un reportage, non è un saggio scientifico, non è una storia nel senso più letterario del termine eppure le pagine del volume, una dopo l’altra, catturano il lettore per la chiarezza della scrittura e per la struttura sicura in cui un territorio preciso e complesso come il litorale domizio “accade”. Nella sua densa quanto concisa introduzione, Salvatore Porcaro ripercorre la sua personale storia e la sua consuetudine con quel territorio, spiegando con grande chiarezza il perché ha scelto di avviare la sua ricerca proprio lì, quali sono state le prime mosse, dimostrandoci che fare inchiesta vuol dire abitare i luoghi nell’intricata rete dei fattori che vi sono in gioco e che per farlo bisogna costruire relazioni concrete, patti di fiducia e dedicare tempo, lasciandosi attraversare dalla ricerca stessa. È così che Salvatore Porcaro ci dà la possibilità di guardare ed entrare nelle maglie di una intricata cartografia geografica e vivenziale come quella del litorale domizio, un tempo sogno della borghesia campana in odore di seconda casa al mare, oggi triturata sbrigativamente dalla ricerca dello scandalo e di improbabili quanto fugaci scoop che neanche si disturbano di raccogliere tracce e pensieri, di chi in quei territori quotidianamente si è trovato a costruire la sua vita, africani o italiani che siano.

Il libro, che prende spunto dalla volontà di ricostruire la vita di un gruppo di ragazzi ghanesi, vittime della strage di Castel Volturno del 18 settembre 2008, voluta da Giuseppe Setola, andando a ritroso fino a quella di Pescopagano del 23/24 aprile 1990, è diviso in due parti, una dedicata a Castel Volturno appunto e una seconda a Pescopagano. I due luoghi, quasi specularmente, illuminano la possibile narrazione l’uno dell’altro, parti complementari di un territorio che prova a raccontarsi attraverso un ventaglio di storie di vita, scelte per raccontarne/rappresentarne la complessità. Salvatore Porcaro, che pure interviene a tratti ricorrendo all’uso del corsivo racconto dei luoghi,  non “dà voce”, preferisce creare piuttosto un patto di fiducia e rispetto con chi quello spazio lo occupa, rendendo così possibile, grazie a una vera maieutica della relazione, ai soggetti di quei luoghi complessi di raccontare se stessi puntando sulla durata del rapporto e su un’osservazione diretta mai invasiva, ma piuttosto di sostegno e di accompagnamento nei piccoli casi della vita quotidiana. Nasce così un libro fatto di testimonianze, non di interviste, testimonianze che restituiscono piena autorialità a chi decide di raccontare, andando ben oltre la mera soggettività di ogni storia che diventa, diluendosi in un quadro più ampio, il tassello di un potente racconto corale.

Ma il vero centro del volume, nonostante la ricchissima galleria di storie di vita che prova ad abbattere la distanza tra chi raccoglie, chi racconta e chi legge, mi pare essere il metodo di lavoro che fa di questo volume un importante e necessario esempio di inchiesta. Salvatore Porcaro ha saputo costruire senza fretta e passo dopo passo una lunga  relazione con il territorio, (ri)cominciata come dicevo nel 2008, che ha trovato forma definitiva, ma pur sempre aperta solo nel 2021 in questo volume. Il ricercatore così facendo guadagna sul campo la possibilità di essere un facilitatore dell’esperienza di vita degli attori dello spazio che ha scelto di osservare, venendo a declinare una forma di militanza sostanziale e libera da dogmi. 

Dalle pagine del libro si evince rapidamente che quello che accomuna tutti i membri di questa non comunità o comunità impossibile, è l’assenza dello stato. Tutti, italiani o stranieri che siano, sono vittime della latitanza del potere centrale e del suo ingranaggio capace di manifestarsi solo attraverso un’oppressiva quanto inutile burocrazia che complica vite già difficili segnate da una dimensione sospesa, perché nessuno ha scelto veramente di vivere lì. Chi abita quel territorio è reduce piuttosto da complesse erranze che li hanno portati lì alla ricerca di un tetto, senza troppa possibilità di scelta, verso un approdo che esclude, infatti, la dimensione stessa della scelta, e in cui prevale, invece, una dimensione legata al caso fortuito, a uno stare temporaneo e precario che è sempre più la cifra del vivere di tutto il nostro paese. Salvatore Porcaro espone la difficoltà di creare comunità in un contesto del genere, “prendendo le misure” di quel mondo, come lui stesso scrive nell’introduzione, un mondo popolato da chi “eccede” rimanendo inesorabilmente fuori, falciato da una finta idea di progresso e di corpo sociale, vanamente assistito da un certo numero di professionisti dell’accoglienza e della carità di maniera che nella maggior parte dei casi sembra nutrire scarso interesse a superare una logica secondo la quale ci siano sul quel litorale due realtà che si oppongono, quella dei locali e quella composta per lo più da africani  ribadendo ulteriolmente l’assenza di un progetto di sviluppo comune che faccia finalmente abitare quei luoghi che, come tutti i luoghi, pure cambiano continuamente. 

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