“Sabatomattina”. Le illustrazioni di Elisa Francioli
![](https://gliasinirivista.org/wp-content/uploads/illustrazioni_francioli-12-1024x827.jpg)
La prima impressione è quella della potenza delle immagini. Figure che si impongono sulla pagina, ottengono tutta la nostra attenzione senza chiederla. Un’attenzione concentrata perché sentiamo subito che non possiamo “guardare di sottofondo”, che dobbiamo stare lì, con tutta la presenza di cui siamo capaci.
Potere della sintesi in primo luogo, della scelta dei singoli soggetti e del loro prendere posizione sulla pagina. Potere dei colori, ridotti anch’essi rispetto alle possibilità: una tavolozza programmaticamente limitata, come a concentrarsi anch’essa, sui rossi e i bruni, i bianchi e gli ocra, i neri. Potere delle luci e delle ombre, con fasci luminosi che entrano dalle porte, campiture nere che nascondono allo sguardo anche ampie porzioni di spazio. Potere, infine, delle inquadrature, mobili a seconda delle illustrazioni, ora volte a contenere la figura intera, ora ad avvicinarsi senza pudore ai personaggi, ora allontanandosi per far respirare l’ambiente intorno.
La sapienza visiva e drammaturgica di Elisa Francioli è solida, nonostante non sia ancora una professionista e questo sia il prodotto di un lavoro di tesi, condotto insieme a Stefano Ricci a conclusione del percorso del Biennio di Illustrazione per l’editoria all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
Ma tale abilità non è a servizio di una cattura premeditata. La potenza delle immagini non vuole essere seduttiva. La composizione, che pure ha una sua sapienza teatrale, non è lì per “far scena”. Perché prima di tutto ci sono i corpi, la loro presenza e il loro prendere spazio accentuati dalla sfocatura di uno stile pittorico che allude ai visi e alle loro espressioni, ma preferisce lasciarli immaginare, senza che i volti catturino immediatamente il nostro occhio e ci attraggano nella tela di ragno di una identificazione o di una artificiale empatia. Queste figure si impongono ma non ci invitano, ci inchiodano piuttosto nell’atto di guardare e di fare silenzio. Una sensazione, questa, che nasce dall’atmosfera di sospensione di attimi colti e bloccati, fermi-immagine in cui i personaggi, e i loro corpi, nella loro immobilità comunicano i movimenti che hanno preceduto e seguiranno, di silenzi momentanei prima che di nuovo i suoni, le voci, i rumori di sedie cadute riempiano le stanze. Questa fissità, che è affermazione di presenza, non è solo delle persone, ma anche degli animali e degli oggetti.
Le immagini, e i testi che nel lavoro di tesi le accompagnano, nascono dal lavoro dell’autrice nel Centro migranti di Ivrea, iniziato in una prima fase dal 2013 e poi ripreso dopo una pausa di cinque anni di studio. Si tratta di frammenti di esperienza, quindi, di immagini della memoria ed è questo che dona alle figure quel senso di autenticità cui si alludeva. In realtà l’esperienza non comporta di per sé autenticità, ma può mettere nelle condizioni di tradurre in una forma un vissuto, se lo si sa e lo si vuole fare. Quello che emerge da queste immagini è in fondo anche una riflessione a posteriori su cosa voglia dire incontrarsi, cercare una comunicazione, accogliere ed essere accolti: non ci sono lezioni, stereotipi, né pedanti retoriche. Incontrarsi è questione di attimi, di momenti concentrati e immediatamente dissolti, concretissimi nel loro apparire ma fantasmatici nella loro brevità. Si tratta di viverli quando accade e di mettersi in ascolto per farli accadere di nuovo.
Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini. |