Rivoluzione, reazione e rottura generazionale in Tunisia
L’insurrezione popolare che ha fatto cadere il regime di Ben Alì è già storia. Nella rapidità in cui l’ondata di rivolte ha scosso il Medio Oriente il processo di trasformazione sociale in corso in Tunisia come negli altri paesi rischia oggi di passare in secondo piano. L’intervento della NATO nella guerra civile in Libia e la sua escalation hanno riportato l’Occidente con forza su una scena dal quale era stato finalmente marginalizzato. Ma la repressione militare in Siria, Yemen, Mauritania e Barhein riporta oggi alla ribalta il fatto che l’esportazione di democrazia promossa dall’occidente con le guerre in Afghanistan e Iraq sia la giustificazione ipocrita di politiche di egemonia.
La rivolta in Tunisia ha visto la partecipazione di una moltitudine di giovani, che dalla costa nord del mediterraneo erano stati visti principalmente come migranti, utile forza lavoro o soggetti pericolosi a seconda dei casi e le cui aspirazioni politiche ed orientamenti culturali non erano mai stati presi in seria considerazione. Oggi, il processo iniziato a gennaio non si è affatto concluso ed ha inoltre contribuito ad aprire uno spiraglio sulle storie e le culture di una generazione che si è messa in movimento, sfidando il potere ed anche attraversando i confini dell’Europa chiusa su sé stessa.
In Tunisia il regime di Ben Alì aveva solide radici tanto in un apparato statale ipertrofico e polizesco come in una cultura politica e sociale fortemente contraddistinta dall’autoritarismo e dal clientelismo. Sebbene la Tunisia fosse diventata nei primi anni duemila, uno dei paesi economicamente più avanzati dell’Africa con una crescita del PIL del 5% all’anno e la sua classe media godesse di un livello di libertà di consumo e di opinione superiore a quello della maggior parte dei paesi arabi, il dibattito politico era stato azzerato con la repressione preventiva così come la libertà di organizzazione era stata fortemente limitata per legge.
In queste settimane, dopo quattro mesi di intensa rivolta sociale, in Tunisia si susseguono ancora le proteste e gli scontri di piazza. La retorica dei movimenti sociali ed anche una parte dei media e della classe politica descrive ciò che è successo come una “rivoluzione”. Tuttavia la maggior parte delle manifestazioni esprimono ancora scontento per la staticità della situazione economica e chiedono ancora le dimissioni dei membri del governo legati al passato regime. Ma il 29 marzo, Caid Essebsi, primo ministro che è succeduto a Ghannouchi, obbligato a dimettersi il 27 febbraio scorso da una forte ondata di proteste di piazza, ha chiaramente affermato di voler “restaurare l’autorità dello Stato” ed ha affermato chiaramente in un discorso in diretta su tutti i canali televisivi che “la democrazia non è la rivoluzione”. Per dare seguito a questo discorso aveva fatto dimettere il ministro degli interni Farhat Rajhi, responsabile di alcune purghe all’interno della polizia, per cedere il posto a Habib Essid, capo di gabinetto del ministro degli interni tra il 1997 e il 2001 in pieno regime. L’effetto seduzione è finito, con ogni evidenza le élite al potere in Tunisia si sono riorganizzate e stanno imponendo un ritorno all’ordine. Tuttavia l’esperienza del rifiuto dell’autorità, dello scontro con la polizia e della cooperazione orizzontale nel corso delle proteste, della difesa dei quartieri, della organizzazione della vita quotidiana durante la crisi politica hanno lasciato il segno. Soprattutto una generazione di giovani tunisini, uomini e donne, non ha intenzione di lasciare il posto e di tornare al suo posto. Nel corso di un viaggio tra febbraio e marzo in Tunisia ho potuto incontrare direttamente questi protagonisti della prima rivolta di questa primavera precoce. Ho partcipato alle manifestazioni contro il governo provvisorio di Ghannouchi a febbraio e marzo scorsi e sebbene ci siano state infiltrazioni di teppisti filogovernativi in più occasioni, la maggior parte della gente prendeva parte alle proteste spontaneamente e per ragioni politiche, per la rabbia contro la repressione e per l’insoddisfazione rispetto alla transizione in corso. La distanza tra le rivolte in corso in Tunisia e le proteste contro la speculazione finanziaria e le misure di austerity in Europa non potrebbe essere più grande negli aspetti soggettivi e nei dettagli delle proteste in corso. Il coraggio dei giovani e dei giovanissimi nel corso delle manifestazioni è stupefacente e compensa la mancanza di organizzazione con una rabbia ed una decisione incredibili. Si avanza a mani nude o con dei semplici sassi lungo le avenues e nelle strade del centro di Tunisi riempitesi improvvisamente di barricate. Agli spari della polizia pochi indietreggiano, i lacrimogeni vengono rilanciati indietro e nonostante la violenza estrema delle forze dell’ordine, le strade restano piene di gente che non si disperde facilmente. Sono pochi gli stranieri in strada, qualche giornalista e nient’altro, i pochi turisti barricati negli hotel mentre famiglie tunisine con bambini cercano di attraversare lo stesso le strade ostentando noncuranza e normalità. I giovani che mi incrociano sono per la maggior parte sorpresi ed amichevoli, in tanti mi fanno una battuta col sorriso chiedendomi “quando manderete via Berlusconi?” usando il nuovo verbo “dégager”, da “dégage” lo slogan più rappresentativo di questo movimento. Dopo gli scontri, in un caffé vicino alla Kasbah, decine di uomini adulti fumano narghilé e guardano l’attualità in televisione e commentano i fatti politici. Fuori dal bar, i giovani sorseggiano lentamente l’unico caffé che possono permettersi e mi assicurano che prima della caduta di Ben Alì tutto questo era impossibile: “si parlava solo di calcio” mi dice ridendo Alì, laureato in matematica e naturalmente disocupato.
La disoccupazione e la mancanza di un impiego significativo sono il primo problema dei giovani e delle giovani tunisine. In più nel paese più del 45% dei dieci milioni di abitanti ha meno di 25 anni. I dati più recenti della banca mondiale parlano di una media della disoccupazione del 31%, che tocca anche l’80% nelle periferie più sfavorite delle aree metropolitane e nei centri dell’interno più depressi. La mancanza di lavoro unita alla struttura famigliare ed all’influsso delle tradizioni nel contesto di egemonia culturale consumismo generano una situazione di dipendenza dei giovani dalle famiglie che si protrae negli anni, riducendo così la loro autonomia personale, sentimentale e la mobilità. I più colpiti dalla frustrazione e dalla mancanza di dignità sono i giovani diplomati e diplomate come Mohammed Bouazizi che si è dato fuoco per protesta il 17 dicembre 2010. Almeno il 24% di loro secondo uno studio della Banca Mondiale è disoccupato tre anni dopo la fine degli studi. Questa situazione di precarietà è stata creata anche da una crescente inflazione dei titoli di studio e dallo scarso livello della formazione nella maggior parte degli istituti. La media dei salari in Tunisia è teoricamente di 280 euro, ma molto spesso, come nel caso, di cui ho raccolto diverse testimonianze, delle operaie delle piccole fabbriche in subappalto per Benetton, i salari sprofondano fino a 40 euro al mese e comunque non superano i 200 per dieci ore di lavoro al giorno. Spesso in questo contesto la migrazione, prima ancora che una risorsa di tipo economico diventa un mezzo per dimostrare il proprio valore personale, capacità di prendere l’iniziativa e di rischiare. Hamid fa parte del servizio d’ordine della seconda occupazione della Kasbah, anche lui un giovane universitario. Usciamo per un attimo dalla nuova piazza del popolo e finiamo subito a parlare della migrazione verso l’Italia, lui è di Zarzis nel sud, uno dei principali porti di partenza dei tunisini verso l’Italia: “Ho saputo che la partenza nei giorni dopo la fuga di Ben Alì costava la metà. A Zarzis c’è sempre stato il movimento migratorio e normalmente il viaggio costava 5-6000 dinari, e invece in quei giorni stava costando 2000. E’ stato un grande avvenimento addirittura c’è stata gente che ha venduto la barca. So che c’è gente che specula sull’idea che tanti hanno di trovare un lavoro in Europa. Il primo problema è della gente che è partita, le prime vittime sono loro. Perchè non è un successo il fatto di essere arrivati là in Europa. Perchè non basta arrivare, bisogna trovare un lavoro bisogna trovare il modo di vivere là e tutto il resto. Le seconde vittime sono i pescatori che hanno venduto la loro barca. Una barca che costava 10 milioni l’hanno venduto per 80.000, i pescatori con questi soldi possono pagare i loro debiti con le banche ma verrà un giorno in cui non avranno niente di cui vivere. E’ stato un businnes organizzato, non è facile nascondere della gente in una nave e portarle a Lampedusa. Ma ci sono state anche delle persone che semplicemente hanno aprofittato del momento, della mancanza di sorveglianza e della disponibilità della mafia organizzata”. Per lui inoltre “ è stato un tradimento verso il paese, anche io avrei avuto la possibilità di partire, ho dei membri della famiglia in europa, avevo ancora più possibilità degli altri ma non sono partito prima perchè ero malato e poi perchè ero contrario, il mio paese oggi ha bisogno di me, non posso andare là e dire voi dovete fare così e così. Ho avuto la possibilità e la fortuna di partecipare a questa manifestazione”. Non tutti però la pensano in questo modo, Abderazak ha 36 anni ed ha vissuto a lungo in Europa, è tornato in patria per sostenere la rivoluzione, ha guidato un gruppo di almeno cento giovani della sua città di origine Regueb, nella rivolta contro la polizia a gennaio dove sono morti 6 giovani ed una ragazza madre. Per lui l’emigrazione è stato un modo di conoscere, di crescere ma non per dimenticare la Tunisia. Con lui altri che hanno avuto esperienze di migrazione anche lunghe in Italia oggi si organizzano per sostenere la rivoluzione, offrono mezzi, soldi, competenze per le iniziative indipendenti, per le proteste, per organizzare i giovani dei quartieri in gruppi ed associazioni. Whalid ad esempio ha quasi trent’anni è stato in Italia 10 anni, poi è stato espulso dal veneto. E’ tornato a casa con dei risparmi e oggi vuole investirli sui terreni agricoli della sua famiglia. Non parla con piacere dell’esperienza nei CIE e in prigione ma dice “capisco chi parte, adesso però in Europa non c’è la situazione di quando sono partito, potevi andare dappertutto, fare pazzie e anche trovare lavoro, adesso non è più così, c’è la crisi”.
Il dato ricorrente durante il viaggio è la scarsa o nulla esperienza politica dei più giovani, che sono la maggior parte dei protagonisti delle proteste in provincia ed a Tunisi. La loro opinione verso i partiti politici è generalmente molto scettica e tranne chi ha avuto una militanza in gruppi studenteschi semi-clandestini, per gli altri non ci sono stati spazi di trasmissione di idee e di rappresentazione di alternative al difuori di quanto riusciva a superare la censura di internet. La loro rappresentazione della politica si è formata spesso a contatto con le reti sociali su Internet, nelle esperienze all’estero ma soprattutto nella condivisione di notizie e immagini con i loro coetanei. E da queste parti la televisione e internet sono spesso anche un momento di fruizione collettiva. Gli internet point sono diventati anche i luoghi dove si raccolgono, discutono e veicolano informazioni, dove si editano i video degli scontri e di denuncia e dove circolano i dischi pirata di musica hip-hop. Non a caso questa musica rappresenta forse in questo momento uno dei prodotti culturali esemplari dell’ibridazione conflittuale di culture che è in corso. Nata nei ghetti neri come voce della rivolta e del rifiuto si è sviluppata ben presto anche su un versante fortemente commericiale che è servito come ennesimo veicolo dell’ “american way of life”. Allo stesso tempo però il rap, anche nei paesi arabi parla con un registro ibrido, alimentato dall’originalità delle lingue e dei registri dei suoi interpreti e si alimenta con la circolarità delle culture urbane nella diaspora migratoria in Europa.
La canzone del rapper “General”,
Hamado Bin Omar di 23 anni, è stata rapidamente ripresa dai media manistream
occidentali ed è diventata nelle prime settimane di gennaio il simbolo della
rivolta[1]. Le
rappresentazioni dello scontro in atto, anche nella musica mettono in luce una profonda rottura
generazionale, la fine di un modello di sottomissione dei giovani. Oggi nelle
strade di Tunisi sono in vendita per due dinari (un euro) CD musicali e video
di rap a sfondo politico. Sulla rete, soprattutto attraverso i social network
circolano centinaia di video originali e montaggi di immagini con sottofondo
rap che descrivono momenti di scontro, vittorie e violenze nelle strade e nelle
università. Anche nei centri più piccoli molti giovani si improvvisano rapper e
caricano in rete video autoprodotti che parlano della rivolta nella loro città
come ad esempio il video di Charf, di Thala, piccolo centro di montagna di
20.000 abitanti al confine con l’Algeria dove tra il 25 dicembre e il 12
gennaio la polizia ha ucciso 6 giovani manifestanti. Il video di quattro minuti
unisce in un montaggio artigianale frasi incendiarie contro la polizia,
immagini degli scontri di gennaio e le foto dei caduti, “al shabab”, i
martiri. Anche le modalità in cui si è diffusa la rivolta attraversano il
mondo delle forme di vita dei giovani: i gruppi su facebook di ultras delle
squadre di calcio, di fan dei cantanti famosi, dei gruppi scolastici sono
diventati veicolo di discussione e di azione politica. Il processo è stato
improvviso, repentino dal momento che la continua presenza in strada e la
resistenza alla polizia dava coraggio per rompere la paralisi del controllo in
rete. Oggi mentre una parte della società vorrebbe imporre un ritorno alla
normalità ed ai ruoli sociali, i più giovani non lo accettano. Partono verso
l’Europa e rifiutano i confini fisici e culturali imposti, continuano ad
organizzarsi i modo indipendente nelle organizzazioni di base e in molti, con
un grande apporto delle donne, formano organizzazioni autonome o entrano nelle
numerose ONG che si stanno formando. Sebbene il mondo delle organizzazioni non
governative faccia parte da tempo del sistema neoliberale di governo e
controllo delle popolazioni, l’apertura delle libertà democratiche formali ha
dinamizzato la situazione. In molti centri gruppi spontanei o associazioni già
esistenti spingono per la creazione di radio comunitarie anche con il sostegno
di gruppi internazionali come AMISNET in Italia. La differenza e l’oppressione
di genere rimangono un capitolo aperto tra i giovani tunisini. Il peso
dell’intreccio tra disoccupazione, nuovi bisogni indotti dal consumismo e
cultura familiare, ritarda per molti la possibilità di una vita di coppia
autonoma e limita ancora di più l’accesso delle donne al mondo del lavoro. La
rivolta di gennaio ha visto una partecipazione di moltissime donne, già da
tempo presenti a pieno titolo nello spazio pubblico tunisino ma non ha avuto
come priorità la messa in discussione delle relazioni di genere anche se le
attiviste donne sono molto consapevoli e attive in questo campo. Fatima ad
esempio, 22 anni, lavora nella compagnia telefonica statale dove rischia il
licenziamento per via delle ristrutturazioni neoliberali dell’azienda, a giorni
alterni fa la volontaria per i media del movimento, raccoglie notizie dalla strada,
le valuta e le passa ai suoi compagni che aggiornano siti e profili facebook.
Lo fa di nascosto dai suoi genitori, perchè vive con loro e non glielo
premettono, crede nell’Islam, porta il velo in testa e parla tre lingue. Lei
non vorrebbe partire per l’Europa, o non ci pensa, per ora la sua rivoluzione è
in Tunisia e riguarda senza dubbio ogni aspetto della sua vita.
[1] “Noi stiamo vivendo come cani, la metà del popolo vive nella spazzatura/ ed ha bevuto dal bicchiere della sofferenza […] presidente tu mi hai detto di parlare senza paura però lo so che alla fine prenderò solo schiaffi/vedo troppa ingiustizia e per questo ho deciso di mandare questo messaggio”