Ritorno a Freinet
Da quando sono iscritto al movimento di cooperazione educativa (M.C.E.) mi sento attraversato da
un sentimento di naturale aderenza ad una libera associazione di educatori ed educatrici che “non è uscita armata da una concezione teorica dell’educazione, ma è il risultato di un lungo tatonnement sperimentale e che, avendo riconosciuto le gravi anomalie della scuola tradizionale ha, cooperativamente, cercato dei rimedi.”
Ma cosa possono fare ancora le Tecniche Freinet ? Cambia todo cambia, e la realtà, come l’immagine riflessa sull’acqua, è nitida solo nei giorni di quiete. Poi torna increspata, mossa, tremante.
Siamo disordinati, indaffarati, tutti inglobati da un fare che ci sfiacca, ci aliena, senza riuscire a cavare mai un ragno dal buco. Bisognerebbe boicottare questa frenesia fine a se stessa. Bisognerebbe sostituirla con una rinnovata Freinet-sia.
Sta cambiando il clima, primo fra tutti quello geofisico, che mette in discussione la vivibilità stessa sul pianeta. E c’è una stretta relazione tra ambiente-aula e ambiente-mondo, tra relazioni educative e relazioni di vita reale. Anche la scuola sta diventando climaticamente invivibile, e attraverso le solite politiche “dichiarative” tutto cambia nelle parole e tutto resta fermo nelle strutture, sempre più povere, sempre più rigide.
Sarebbe il caso di rispondere, ognuno come e dove può.
Il M.C.E. e il nostro patrimonio Freinet-ico possono ancora nutrire la voglia di partecipare, di unirsi nell’impegno di collegare in ogni proposta didattica, in ogni tecnica, l’obiettivo emancipatorio umano e sociale. Abbiamo il compito di favorirne la loro penetrazione nelle organizzazioni burocratiche e gerarchiche delle nostre istituzioni educative. Di favorire la rinascita della foresta.
Le dichiarazioni sono il nuovo oppio, danno assuefazione.
Per cambiare le relazioni tra i ragazzi, tra i ragazzi e gli insegnanti e tra la scuola e l’ambiente credo sia necessario avere persone che sia in grado di farlo, non lasciare tutto all’intuizione e far comprendere a fondo la portata e la concezione pedagogica Freinet, quello che di giusto introduce la sua pratica.
Altrimenti non si trovano rimedi ma fraintendimenti e insuccessi, nonostante le buone intenzioni.
Le tecniche freinetiche rendono possibile una rinascita dei bisogni profondi del crescere insieme. Rendono possibile una rinascita dell’educazione politica. Una rinascita aspra e fastidiosa perché pretende un lungo lavoro: internamente ad ognuno, con il despota che tutti noi portiamo dentro; esternamente, con il senso comune di tante persone che, spesso, senza cattiveria o cattive intenzioni, perpetuano come vestali l’edificio di sempre. Edificio che contro ogni buon senso, e anche con un po’ di perversione, rinuncia scientificamente ai rimedi, persegue il dispiacere, scoraggia il lavoro vivo, riempie di parole, parole, parole. Se si vuole cogliere l’originale unità dell’attività umana, manuale e intellettuale, e non scinderla, analizzarla, crescerla a botte di fertilizzanti didattici da monocoltura intensiva, si deve saper cambiare: cambiare l’organizzazione fisica dello spazio, dell’attività didattica, cambiare le aspettative, i materiali, la gestione dei tempi, dei modi di approfondimento, delle conversazioni e dei silenzi. Cambiare il rapporto con la cultura, con le culture dell’infanzia. Cambiare il rapporto con se stessi, con gli altri, con il proprio lavoro, con la propria coscienza.
Ma al cambiamento non ci si arriva con la forza, né per caso. E neanche al M.C.E. .
Allora come ci si arriva?
Per necessità, per urgenza di imparare un mestiere totale, per piacere di “vedere come si fa”.
Quali esigenze riusciamo ad accogliere, cos’è che riusciamo ad ascoltare? C’è davvero tutto questo piattume, questo mortorio, oppure è frutto dello specchio sociale che cerca in tutti i modi di rimandarci un’immagine fatta di monadi, di singoli, di così soli da convincerci che al nostro fianco non abbiamo nessuno che sia disposto ad agire. Come se tutti i successi o i fallimenti fossero solo predestinazioni personali. C’entra ancora il calvinismo?
Ci si convince che non ci siano le condizioni storiche, che siamo tutti in difficoltà, che chi ha voglia di cambiare si debba fare carico di tutto il cambiamento.
Il M.C.E. ha generosità e altruismo come base per tornare a rompere questo specchio raggelante, e rivelare che si può parlare di un Noi, perché ci sono desideri comuni di fare le cose in un altro modo. Ma i desideri pretendono obbedienza, pretendono di essere piantati se vogliono dare frutto. In poche parole, qualche desiderio dobbiamo pur realizzarlo, altrimenti si vanifica non il singolo frutto ma l’intera pianta. Inoltre ognuno di noi è piccolo, è incompleto, è insignificante (per fortuna). Serve partire da se stessi, mettersi in ricerca e lavorare per integrare le nostre parti, ma anche se riuscissimo a diventare equilibrati, coesi e perfetti, rimarremmo comunque poco determinanti proprio perché singoli. Singoli e identificabili, e chissà, forse anche funzionali alla retorica dei super-eroi.
Ma dove le troviamo le forze tra precari, disoccupati disorientati? Anche solo incontrarsi diventa complicato. Eppure é solo insieme agli altri che possiamo aumentare la nostra resilienza, e non spezzarci.. I risultati da raggiungere sono tanti.
Ha senso accodarsi alle insostanziali riforme?Ha senso difendere la scuola così com’è ? Forse. Però lo sarebbe molto di più se ci spingessimo fuori dal recinto delle dichiarazioni. Interiorizzando i valori, lo spirito di un solido paradigma pedagogico, penso che anche lo scontro politico e i conseguenti mutamenti potrebbero assumere senso e irreversibilità.
La difesa della scuola pubblica si farebbe più decisa, più vera, se fossero gli educatori a farsene promotori fuori e dentro la scuola: coscienti del proprio fare, e quindi più radicati, più decisi a produrre non un concetto ma un’esperienza quotidiana rivoltata di educazione, di scuola, di potere condiviso.
Le giuste battaglie sull’uso degno delle risorse comuni, come l’acqua, i semi, la biodiversità sono intimamente legate alle pratiche educative. Quando per comprendere il nostro lavoro di educatori usiamo la semplicità, le evidenze dei processi naturali,come ci ha insegnato Freinet e non solo lui, si formano più facilmente comprensione e chiarezza: le persone come semi, come ghiande, come alberi; e la pedagogia, la scuola, come coltura, come salvaguardia del suolo. E il suolo, in agricoltura, è la parte della superficie terrestre che per sua struttura si presta allo sviluppo delle specie.
Come M.C.E. abbiamo molte cose da fare , al nostro interno, con le altre associazioni, ma soprattutto con la Ridef , l’Incontro Internaziionale di Educatori Freinet che si terrà a Reggio Emilia dal 21al 30 Luglio e si chiama Ridef, organizzato proprio dal gruppo italiano,una specie di Internazionale degli educatori Freinet, con il tema “sguardi che cambiano il mondo-abitare insieme la città delle bambine e dei bambini”.
Dicono i saggi: non sforzarti di seguire le orme dei maestri, cerca ciò che essi cercavano.
Invece penso che le orme rendano evidente il cammino percorso e diano senso a quello ancora da fare.
Freinet è attuale ed è necessario riproporre la sua ostinazione a trovare rimedi ai dogmi, e a non trascurare gli errori che a forza di crescere sono diventati enormi, quasi eterni.
Abbiamo di fronte cinismo o iper-colpevolizzazione, che riduce tutto alla dimensione nichilista o psicologica. In definitiva non è così che si sfiacca il corpo sociale, che perde la sua coscienza, il suo mordente politico?
Il M.C.E. sta dalla parte non solo dei bambini e delle bambine ma anche di chi sente ancora un fuocherello d’attitudine a educare, perché non parta da zero, perché non si senta travolto quando non sa dove sbattere la testa. C’è quindi bisogno di una rinnovata iniziazione pedagogica per non smarrire e scoraggiare i nuovi arrivati e rimettere in pratica le pratiche, imparando in concreto modi di offrire suolo ai semi. C’è una storiella in giro che ripete “non è il caso, non vale la pena, prima o poi cambierà”.
Possiamo disimparare il mantra scoraggiante dell’ apprendimento come fatica triste solo formandoci, comprendendo l’intreccio cooperativo globale, e non stemperare l’organicità della proposta complessiva freinet-ica. Comprendendo che il nostro é un lavoro gioioso.
Un’iniziazione rigorosa, anche esigente, che lasci qualcosa più di un’emozione, pur così importante, e che coinvolga il saper fare, il saper riflettere, il saper prendere iniziativa. Non possiamo più attendere gli scienziati della formazione.
Ci vorrà molta fantasia e ingegno per ritrovare il senso delle nostre istituzioni-azienda, e non solo della scuola,chiuse e sorde alle domande e alle invenzioni dei bambini e delle bambine. Ignorando la loro cultura e imponendo lavori dall’esterno che non rispondono, che non dissetano la loro curiosità, che non li rispettano, si deve fare uno sforzo incredibile per interessarli. Allora si contravverrà alle tendenze naturali, opponendosi a processi ineluttabili per cui l’individuo reagirà con contrasti, inimicizia, ostilità, passività. Sarebbe più che giusto rendere evidente questa perversione, questa maleducazione.I primi a starne male siamo noi.
L’educazione attiva suggerita da Freinet è anti-dogmatica, riflessiva, profondamente democratica perché sovverte i meccanismi e le norme disciplinari profonde, le ossa che sorreggono lo status quo.
C’è un carattere rivoluzionario nello svolgersi quotidiano di una classe “freinet-ica”.
Il suo arsenale è ancora valido per il disarmo del “magister”: il rifiuto del libro di testo, l’uso degli spazi, il metodo naturale e l’interconnessione dei saperi disciplinari, il legame con l’ambiente, con il fuori, il piano di lavoro, la corresponsbilità nei processi, sono possibilità concrete per riuscire a partire dai soggetti, dai loro bisogni primari, dalla loro autonomia. Non sono le uniche, ma ci sono, esistono.
Per fare questo però è molto importante sviluppare doti pratiche, sopite o narcolizzate, e portarle fuori dalle teorie mettendole a servizio di tutti, di un’altra quotidianità, dando gambe e fiato al cambiamento dell’ordine costituito.
La tradizione è più forte, è fortissima, esasperata.
Ma c’è anche una voglia di misurarsi con quello che ci sta intorno, le disuguaglianze indegne, i ragazzi e le ragazze ormai-che strano!- sempre più “difficili” o “sdraiati”; e ancora la plastica, le tonnellate di schermi che bloccano le mani, la peste dei voti, le ragioni armate dei ministeri, e le proprie ragioni armate, incapaci di coinvolgere, di arrivare al di fuori della ristretta cerchia.
C’è una voglia di saper fare che va scovata e nutrita perché è un tesoro sommerso.
Non basterà certo il M.C.E., e avremo bisogno di amici, di tutti gli asini , le lumache, e di tutti gli altri animali inquieti, non per fare le solite reti, ma per fare cose insieme.Non ci resta che …perseverare.
(nota 1)
“n’é pas sortie tourte armèe d’une conception theorique de l’educacion, mais qui est el résultat d’un long tàtonnament experimental….nous l’avons découverte et promue en praticiens conséquents et coscients , qui , ayant reconnu les tares graves des pratiques éducatives traditionnelles, leur ont, coopérativement , cherché des remèdes”