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Riscoprire bell hooks

illustrazione di Armin Greder
25 Gennaio 2021
Livia Apa

È con grande soddisfazione che va salutata la pubblicazione in Italia di due bei volumi che raccolgono alcuni fondamentali saggi della vasta produzione della scrittrice e saggista africana americana bell hooks. Da tempo, infatti, Elogio del margine pubblicato nel 1998 da Feltrinelli, Scrivere al buio pubblicato lo stesso anno da La Tartaruga e Tutto sull’amore ancora da Feltrinelli nel 2000 erano fuori catalogo e questo aveva reso la già sbiadita ricezione che il pensiero di hooks aveva avuto nel nostro paese una debole traccia per pochi addetti ai lavori e qualche militante che piano piano l’andava riscoprendo. Entrambi i volumi, la riedizione di Elogio del margine, edito da Tamu Edizioni che accorpa oltre a sei saggi di hooks l’intervista di Maria Nadotti Scrivere al buio, e la prima traduzione in italiano di Insegnare a trasgredire, edito da Meltemi, sono stati arricchiti da accurate introduzioni che ci aiutano a contestualizzare, ma soprattutto a restituire, la contemporanea necessità della riflessione di hooks. 

Nella prefazione a Elogio del margine, Maria Nadotti, pioniera divulgatrice in Italia e raffinata lettrice del pensiero di questa autrice, ci indica con rinnovato vigore come il valore del pensiero di bell hooks si agglutini intorno a un esatto esercizio dello sguardo, rivendicando il diritto a questo gesto come pratica rivoluzionaria da cui costruire un posizionamento e una teoria basate sempre sull’andare oltre quel che sembra. Un principio di realismo che diventa cruciale perché incide sul discorso della rappresentazione di sé e sul diritto a non accettare passivamente quello che il sapere egemonico ha costruito sull’Altro. Ma si tratta di un pensiero che non deve diventare mai, scrive Nadotti, “una teoria dai piedi freddi”, senza passione di verità. Partendo da questo principio ispiratore hooks, infatti, guarda controcorrente e con molto disincanto all’ascesa di una certa classe media negra negli Usa, ma anche a dispositivi come quello delle quote che secondo lei non fanno altro, scrive ancora Nadotti, che “invitare alcuni ‘identici’ dissimili”, non migliorando in buona sostanza l’ordine delle cose, come diffusamente hooks argomenta nel saggio Negrezza post-moderna. Perché per hooks lo scardinamento di un (del) sistema costruito ancora sulla dialettica colonizzato/colonizzatore non ammette mediazioni consolatorie costruite intorno al tema di una vuota rappresentatività cromatica. È un posizionamento scomodo, non consolatorio, ma per hooks decolonizzare, termine che lei ha usato ben prima che diventasse un hashtag mercantilizzato e cannibalizzato come accade purtroppo a molte lotte quando vengono svuotate del loro senso più profondo, è una questione che deve investire le radici della società. 

Il tema dello sguardo finisce per essere un filo rosso che ci guida in questo volume, non solo nei sei saggi che ne compongono la prima parte, ma anche nella lunga conversazione tra Nadotti e hooks che ne occupa la seconda metà. Riappropriarsi dello sguardo ci ricorda infatti che c’è potere nel guardare, come hooks scrive nel saggio La spettatrice nera, perché il vedere ci guida verso la rottura, un processo necessario che porta alla conversione, a quella pratica cioè che guida ad appropriarsi appieno del proprio punto di vista e che supera il discorso della voce (tema peraltro approfondito con molta sapienza nella bella introduzione di Mackda Ghebremariam Tesfau nella prefazione di Insegnare a trasgredire). La questione dello sguardo e della sua negazione è ovviamente segnata dalla storia della schiavitù: hooks lo ricorda quando spiega come agli schiavi non fosse permesso guardare e come sulla questione del supposto sguardo/desiderio dell’uomo nero nei confronti della donna bianca il suprematismo bianco abbia creato l’immagine del negro stupratore che segna tutta la storia recente degli Stati Uniti, passando per episodi terribili come il delitto di Central Park. Il tema della voce, come dicevo, si associa al tema dello sguardo, anch’esso ormai così caro al mainstream militante, ed è da sempre centrale per hooks. Come lei stessa spiega, la voce dei neri non è semplicemente silenziata dal monocromo suprematismo bianco, ma spezzata e quindi in permanente confronto con la necessità di articolare la tensione con l’esperienza diretta, molto spesso segnata dal dolore, che può avere però un forte valore educativo. Senza esperienza, per bell hooks non c’è costruzione teorica possibile. A ogni costruzione teorica deve, infatti, corrispondere un vissuto, un’esperienza, inclusa quella dello sforzo di liberare dall’oblio, appunto, la memoria del dolore collettivo. 

Senza esperienza, per bell hooks non c’è costruzione teorica possibile. A ogni costruzione teorica deve, infatti, corrispondere un vissuto, un’esperienza, inclusa quella dello sforzo di liberare dall’oblio, appunto, la memoria del dolore collettivo. 

Per rendere questo posizionamento possibile è quindi necessario situarsi al margine, luogo che diventa spazio privilegiato di osservazione sempre creativo proprio perché lontano da un sapere egemonico inevitabilmente funzionale al potere, perché parte dalla propria esperienza del mondo ma anche dai propri desideri. Il margine è per hooks “luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza, spazio creativo radicale per eccellenza”. Il suo pensiero è in questo senso anti-accademico, si muove contro la sclerotizzazione dei concetti che troppo spesso vengono disseccati e dibattuti nelle università in un dialogo tra simili con “codificata familiarità” che poco o nulla tiene conto della vita comune. 

A questo tema si collega la critica di hooks alla costruzione dell’Altro inteso come una soggettività incapace di parlare in prima persona, troppe volte oggetto e raramente soggetto della propria storia e delle proprie rivendicazioni. Il punto di partenza diventa così il margine, come dicevamo, che può essere la casa che le donne nere (ma non solo) hanno reso sito primario di sovversione e resistenza e che diventa una contro-narrativa della resistenza negra raccontata sempre solo al maschile. Razzismo, sessismo e classe sono per hooks tre elementi indivisibili, che lei agglutina e articola costantemente costruendo un concetto di margine fecondo, capace di svelare in qualche modo l’ambiguità di molte costruzioni ideologiche che tendono invece a separare i tre elementi fondanti del suo pensiero. Da lì la critica al femminismo bianco, che non esita a definire “antifemminismo filo-patriarcale”, che con difficoltà ha accettato il fatto che il genere non è l’unica arma di emancipazione, glorificando il lavoro come atto di liberazione. 

A una teoria sofisticata e intraducibile in prassi hooks contrappone l’idea della creazione di cliniche femministe, di luoghi cioè dove possano essere praticate azioni di solidarietà che portino alla reale soluzione dei problemi delle donne. Il suo pensiero, quindi, “apre” sempre, non si arrocca e ha un potente portato pedagogico, perché, come hooks ci ricorda, trasgredire vuol dire uscire dalla propria posizione e (qui la lezione di Freire è tangibile) imparare educando. Insegnare a trasgredire è un corposo saggio pubblicato nel 1994, ma utilissimo ancora oggi perché porose sono le questioni, ancora aperte e irrisolte, che approfondisce. Che le due introduzioni all’edizione italiana siano state affidate a due attiviste con background migratorio, dimostra come il libro oggi possa essere riletto e recepito da nuove soggettività che cercano spazio in Italia e che trovano valore nelle parole di hooks. Ritornando sui temi a lei cari, approfondendo il discorso sulla centralità dell’esperienza come antidoto all’essenzialismo e definendo il concetto di comunità di apprendimento basandosi sul dialogo educativo, hooks attraversa temi importanti come quello della multiculturalità, del linguaggio, del privilegio in classe, rivendicando ancora una volta il diritto all’ecclettismo contro la specializzazione ossessiva degli studi e della formazione, dichiarando che ciò che le ha permesso di non farsi spingere dentro il perimetro stretto delle politiche identitarie è stato proprio guardare sempre cose diverse tra loro. 

Per hooks la pedagogia impegnata è un’espressione del suo attivismo politico perché il sapere ha sempre un valore terapeutico e di liberazione, proprio perché le aule sono sempre luoghi di possibilità. Di questi tempi, non dimentichiamolo.

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