Ripoliticizzare Scotellaro
Sono passati cento anni dalla nascita di Rocco Scotellaro, ma sembra ben più di un secolo la distanza che ci separa dalle vicende politiche, sociali e culturali degli anni Quaranta e Cinquanta di cui lui fu uno dei protagonisti. E tuttavia la sua storia è ancora piena di valore per chi si interroga sul cosa fare oggi rispetto a un mondo che sta naufragando.
Il libro di Marco Gatto, Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta (Carocci). può essere letto come un’agile e utile sintesi di una stagione su cui è urgente tornare a riflettere. E l’autore lo fa con un obiettivo dichiarato fin dall’incipit: «ripoliticizzare Scotellaro».
Pur all’interno della prospettiva biografica adottata, il tracciato individuale non si esaurisce nel chiuso di un’unica esistenza perché, forse proprio in quegli anni ancor più di oggi, i percorsi dei singoli vanno declinati al plurale: Scotellaro cercava maestri e trovava fratelli maggiori; stringeva legami; apriva dialoghi e a volte conflitti, sulla base della comune volontà di cambiamento. La sua vita è un’avventura collettiva che coinvolge Carlo Levi, Manlio Rossi-Doria, Ernesto de Martino, tra gli altri. E che ha trovato sodali in importanti figure, come Rocco Mazzarone, straordinario medico sociale da cui «Scotellaro apprese la concretezza dell’azione politica e la conversione della conoscenza culturale in prassi, e forse anche un certo scetticismo nei confronti della militanza partitica, alla quale il “fratello minore” non poteva rinunciare».
A questi nomi noti bisognerebbe aggiungere la lista molto più lunga degli amici, dei “paesani”, dei compagni, di certo non famosi, che però hanno sostenuto, aiutato, partecipato alle attività non solo politiche e culturali, ma anche e soprattutto umane di Scotellaro. Si tratta, in molti casi, di figure animate dalla volontà del fare ma intralciate da mille ostacoli. A cominciare dalle condizioni individuali, per passare a quell’universo sociale e culturale che li circondava e che oggi risulta impensabile: contornati, per nascita o per scelta, da quel mondo contadino che mostra loro le difficoltà dell’esistere ma, nello stesso tempo, partecipa alle possibili prospettive radicate e concrete di cambiamento; un mondo in cui i partiti politici della sinistra, soprattutto i socialisti, erano lì a rappresentare una possibilità, un collegamento per un lavoro più ampio, collettivo e coordinato.
Il tutto spinto da una condizione esistenziale comune a molti: la solitudine. A differenza delle solitudini e delle folle solitarie che riempiono il nostro presente e che sono, nella maggior parte dei casi, improduttive, quella che caratterizzava Scotellaro e i coprotagonisti di questa storia era accompagnata dalla necessità di costruire una rete, da una ricerca di contatti e di relazioni per la condivisione di progetti, programmi e iniziative.
E tali collaborazioni non erano casuali, perché seguivano una scelta individuale di collocazione sociale con, di seguito, riferimenti politici comuni. Tornano in mente le parole di de Martino: «Tuttavia una cosa è certa: ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento, e assumere le proprie responsabilità. Potrà essere lecito agire male: non operare, non è lecito».
E il posto di combattimento era con gli ultimi al loro fianco: dai contadini ai lavoratori della terra, dagli sfruttati a tutte le forme di marginalità sociale; in generale, con quelle che secondo la diffusissima dizione di Gramsci saranno definite le “classi subalterne”. Se per molti si trattava di una scelta umana, culturale e politica, per Scotellaro era una collocazione immediata: quella la sua classe, la sua realtà. Non è un caso che il libro-inchiesta Contadini del sud chiuda con la lettera della madre, Francesca Armento. Di cui va ricordato che alla morte del figlio, avvenuta a Portici il 15 dicembre del 1953, intonò uno dei classici lamenti funebri lucani, tema su cui de Martino ricercava e a cui dedicò un capitolo in quello che diventerà Morte e pianto rituale.
Quel mondo gli apparteneva così tanto da identificarsi con esso, al punto da scrivere versi divenuti famosi: «Noi siamo rimasti la turba | la turba dei pezzenti, | quelli che strappano ai padroni | le maschere coi denti». D’altra parte anche Ernesto de Martino quando si trova a la Rabata di Tricarico scrive pagine densissime su quello che definisce «un problema mio» in quanto «trovo qui la testimonianza della mia colpa, non della colpa. Io non sono libero perché costoro non sono liberi, io non sono emancipato perché costoro sono in catene… Io provo anzi vergogna del permesso concessomi di non essere come loro… Proseguendo nell’analisi, scopro che il senso di colpa si associa a un altro momento: la collera».
Marco Gatto ricostruisce gli intrecci e i legami tra questo gruppo di intellettuali che hanno dedicato la loro vita a lavorare per e a favore delle classi subalterne.
E questo è già un primo dato che possiamo misurare con l’oggi. Di recente si è affermata l’idea che viviamo in una società liquida, un mondo fluido dove non solo non ci sono più le classi, ma mancano le occasioni e gli spazi dove collocarsi: sembra che tutto sia in un continuo farsi e disfarsi di rapporti. Ciò crea la sensazione, capillarmente diffusa, che non ci sia più la possibilità di una presa di posizione per lavorare assieme, con e per gli ultimi. Ma le scelte di allora reggevano su un principio essenzialmente etico e morale che guidava l’azione, difficile da riscontrare nell’attuale società governata dalla supremazia dell’io e del narcisismo di massa che porta a rifiutare ogni collocazione, a scoraggiare ogni forma di partecipazione come se fosse inutile o infruttuosa. E che non riconosce gli ultimi di oggi e non si schiera per loro.
Inoltre, la militanza politica e sociale del tempo se da una parte richiedeva l’impegno, dall’altra poteva contare sulla solidità dei partiti che organizzavano le lotte dei lavoratori e costruivano una prospettiva da condividere. In tal senso, bisogna riconoscere l’importanza del movimento socialista, più che comunista, nell’intervento sociale, al quale quasi tutti i nomi finora citati erano legati.
Data la provenienza, la partecipazione e il radicamento sociale, Scotellaro era il più impegnato nell’affermare che la politica non dovesse essere un investimento “elettorale” ma dovesse rappresentare una “pedagogia” diffusa e continuativa. Un tema sul quale ci offre una lezione di cui ritrovare oggi l’utilità: mettere in atto un lavoro stabile e duraturo, attento alle esigenze, aperto alle condizioni, ai problemi, alle difficoltà dei singoli e che non sia immediatamente finalizzato alla politica. È vero che c’erano i partiti, ma venivano dopo o viaggiavano unitamente ai rapporti umani, di vicinanza e contatto tra uomini e donne. È sufficiente leggere le lettere che riceveva in carcere, quando la lunga mano di una politica nemica volle punirlo con un arresto immotivato e senza fondamento. Sono documenti straordinari dove amicizia, vicinanza e riconoscenza vivono intrecciate.
A complicare le cose e intrecciare ancor più le vite di questo gruppo di intellettualisi aggiungono le opere, da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi ai saggi di Ernesto de Martino, alle poesie e successivamente le inchieste di Scotellaro.
E qui si apre un doppio scenario. Il primo riguarda la politica culturale. Sebbene il Cristo sia stato un grande successo editoriale che ha avuto una diffusione popolare fortissima riscuotendo un gran seguito, esso rappresentò il primo obiettivo contro cui si scatenò la scure ideologica del partito comunista. Un riferimento su tutti, il saggio di Mario Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli. Che mise in crisi soprattutto de Martino, unito con Scotellaro nella “scomunica”.
Per un riconoscimento complessivo il poeta e saggista dovette aspettare il convegno che gli fu dedicato nel 1955 dove, tra gli altri, parole molto lucide furono pronunciate da Raniero Panzieri sulle nuove prospettive del meridionalismo, che emergono grazie soprattutto al suo lavoro: «Si saldano nel meridionalismo attuale… le esigenze del riscatto economico, della distruzione dei residui feudali, cioè della riforma agraria e della industrializzazione, con le esigenze della liquidazione del vecchio Stato accentratore-burocratico, della trasformazione della struttura amministrativa, del rovesciamento del rapporto tra Stato e masse rurali, onde l’ordinamento statale, anziché soffocare, favorisca la formazione della coscienza politica e della capacità di autogoverno dei contadini del Sud, condizione essenziale per assicurare la spinta rinnovatrice contro le potenze economiche arroccate nella difesa del privilegio».
Il secondo scenario riguarda le inchieste, perché gli anni Cinquanta furono gli anni delle inchieste. Essenziali ieri come oggi per la comprensione del mondo e la definizione della “cultura” delle classi subalterne vecchie e nuove: Scotellaro resta un modello necessario di riferimento, avendo creato un intreccio tra narrazioni spontanee e ricostruzione di storie di vita. Ma anche qui con una precisazione: aveva messo in atto una pratica incredibilmente attuale, che è quella del confronto e del dialogo, superando la forma della descrizione, del ritratto o dell’intervista, favorendo la messa in atto delle singole visioni del mondo che permettono di comprendere la densità stratificata della cultura interpretata singolarmente.
Marco Gatto chiude il libro con un omaggio ad Alessandro Leogrande, riconoscendolo come erede di Rocco Scotellaro. Anche Alessandro suggerisce di essere attenti osservatori, di essere presenti per verificare direttamente e scendere in campo. Di guardare in faccia le persone e vedere cosa significhi confrontarsi con il male. Si tratta di un invito a scegliere il proprio posto di combattimento, a rimboccarsi le maniche per conoscere il mondo e, soprattutto, per cercare di cambiarlo.