Gli Asini - Rivista

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Ripartire dal mutualismo

Lavoro: la situazione la conosciamo. Pagine e pagine di analisi sono state scritte e per chi vuole approfondire non c’è che da leggere. Molti di noi lo sanno per esperienza personale, diretta. Il neoliberismo sta stravincendo
15 Aprile 2017
Mimmo Perrotta

Lavoro: la situazione la conosciamo. Pagine e pagine di analisi sono state scritte e per chi vuole approfondire non c’è che da leggere. Molti di noi lo sanno per esperienza personale, diretta. Il neoliberismo sta stravincendo, la finanza si sta mangiando tutta l’economia “reale”, la lotta di classe condotta dall’alto sta rapidamente distruggendo i diritti conquistati in decenni di lotte dei lavoratori, le disuguaglianze sociali tra i più ricchi e i più poveri aumentano costantemente. Il mercato del lavoro è sempre più deregolamentato. Le delocalizzazioni produttive hanno spostato buona parte del lavoro manifatturiero in Paesi in cui i salari sono più bassi e le tutele sindacali inesistenti, oggi soprattutto in Cina e in altri Paesi asiatici.

Nei Paesi occidentali ricchi il lavoro non è certo finito ma è sempre più precario, che si tratti di mansioni intellettuali o di impieghi di tipo operaio, questi ultimi svolti sempre più da migranti, resi vulnerabili sia dalle leggi sull’immigrazione sia da diffuse retoriche xenofobe. D’altra parte, la disoccupazione, giovanile e non solo, è molto alta (in Italia più che altrove, al Sud più che altrove), anche se molti disoccupati in realtà hanno impieghi precari, informali, in nero. Da ormai quasi dieci anni ci sentiamo ripetere che questo sarà l’ultimo anno della crisi e che dall’anno prossimo si ritornerà a “crescere”, salvo poi “rivedere le stime di crescita” al ribasso pochi mesi dopo. E anche se si tornasse a “crescere”, le disuguaglianze sociali non diminuirebbero. E anche se si tornasse a “crescere”, bisognerebbe ragionare su che cosa vuol dire crescita, cosa sviluppo, cosa benessere, con un’attenzione all’impatto ambientale e climatico oltre che sociale, di questa agognata crescita. A livello politico (in particolare nei partiti, nel Parlamento, nelle istituzioni), una prospettiva di sinistra è totalmente dissolta. I movimenti dei lavoratori, che pure ci sono, anche se minoritari e disgregati, non trovano più alcuna sponda politica, cosa che fino a dieci anni fa più o meno era possibile. Per molti ceti sociali, l’unica opposizione credibile al neoliberismo – e negli ultimi anni talvolta vincente anche sul piano politico – sono i movimenti e i partiti populisti, nazionalisti e xenofobi che rispondono alle disuguaglianze sociali chiedendo la chiusura delle frontiere, l’espulsione dei migranti, il protezionismo economico, la diminuzione dei diritti democratici. Tutto questo lo sappiamo. Ce lo ripetono, ce lo ripetiamo ormai da anni.

Quello che non sappiamo è cosa fare, come reagire. Certo, c’è la strenua difesa di tutto quello che resta dei diritti conquistati con le lotte e i movimenti, dalla Resistenza agli anni settanta. Il welfare (o quello che ne rimane, per coloro che vi possono accedere), lo Statuto dei lavoratori, la Costituzione. Ma poi? È possibile rilanciare, ricreare una prospettiva politica e culturale più ampia, che – da Sinistra – sappia pensare e costruire rivendicazioni nuove? Come costruire una prospettiva di lotta alle disuguaglianze sociali, per l’allargamento dei diritti e della democrazia, per il rispetto dell’ambiente e del territorio, per l’emancipazione di tutti i lavoratori, compresi i migranti – nell’epoca della globalizzazione, quando tutto questo è reso più difficile dal fatto che il capitalismo finanziarizzato ha abbattuto le frontiere per merci e capitali, mentre ne ha costruite per gli uomini, e ha colonizzato quasi tutto il pianeta? Mentre masse di operai cinesi e di contadini indiani e latino-americani sanno già piuttosto bene quali sono le loro rivendicazioni e quello per cui è necessario lottare, quali sono le prospettive nei Paesi occidentali?

Le risposte a queste domande non ci sono e non ci saranno per molti anni. Vanno costruite piano piano, collettivamente, con lenta impazienza, dal basso.

Non mi fido di chi evoca slogan radicali – che siano la lotta di classe o il comune – senza costruire queste alternative in maniera concreta e lucida nelle proprie pratiche quotidiane.

Per questo penso – come altri – che le pratiche di tipo mutualistico, nel mondo del lavoro e non solo, siano oggi le più importanti da sperimentare.

Di pratiche mutualistiche “Gli asini” si occupa sin dai primi numeri. Uno dei riferimenti principali con cui la rivista si è confrontata è stato Pino Ferraris, storico e sociologo che ha studiato le pratiche mutualistiche – cooperative di lavoro e di consumo, società di mutuo soccorso, Camere del lavoro… – attraverso le quali si è costruito il Movimento operaio europeo nell’Ottocento. Quelle forme di “resistenza per” che andavano in parallelo e, nei momenti migliori, si rafforzavano a vicenda con le forme di “resistenza contro”, cioè le lotte condotte da sindacati e leghe contro padroni e istituzioni. Da un lato, attraverso il sindacato, si lottava per un salario più alto e migliori condizioni di lavoro e di vita. Dall’altro lato, con il mutualismo economico, si “praticava l’obiettivo”: seppure su piccola e piccolissima scala, si autogestivano occasioni di lavoro degno, da distribuire a seconda delle necessità dei singoli e delle famiglie, si praticavano forme di solidarietà di classe e comunitaria verso chi ne aveva bisogno. E le esperienze di mutualismo, secondo Ferraris, costituivano una palestra di socialismo, consentivano a operai, contadini, braccianti, disoccupati, di comprendere praticamente cosa volessero dire parole come socialismo e solidarietà e, quindi, di costruire con più consapevolezza le proprie rivendicazioni politiche.

Il Novecento, continua Ferraris, ha spazzato via le forme di mutualismo. Il Movimento operaio ha preferito partiti e sindacati alle società di mutuo soccorso. Le cooperative sono per lo più diventate aziende che perseguono interessi privati, come e peggio delle altre imprese. La conquista del welfare state nel secondo dopoguerra ha certamente migliorato le condizioni di vita di larghe fasce della popolazione, ma, nell’affidare allo Stato la solidarietà, ne ha sancito la burocratizzazione, indebolendo le pratiche autogestite.

Negli ultimi anni, mentre quelle conquiste vanno sempre più perdute, in molti hanno ricominciato a costruire mutualismo, a praticare l’obiettivo. In molti – dalle fabbriche recuperate in Argentina ai movimenti contadini in molte parti del mondo – hanno capito che non è più possibile aspettare che lo Stato o i datori di lavoro concedano qualcosa e che invece è necessario costruire lavoro e comunità attraverso l’autogestione e la cooperazione.

In Italia molti dei movimenti che più hanno avuto continuità e capacità di innovazione negli ultimi quindici-venti anni sono di tipo mutualistico.

I movimenti del consumo critico (i Gas), con tutte le loro contraddizioni, hanno tenuto vivi i temi della difesa dell’ambiente, della salute, del territorio e, anche se meno sovente, del lavoro, attraverso l’organizzazione collettiva dei consumi, spesso costruendo pratiche di mutuo soccorso con i produttori. Un ruolo simile a quello che ebbero le prima cooperative di consumo. Ma non resisto alla tentazione di citare un’indicazione di Marx ai delegati della Prima Internazionale nel 1866: “Raccomandiamo agli operai di interessarsi maggiormente della cooperazione di produzione che di quella di consumo: infatti, la seconda tocca soltanto la superficie del sistema economico attuale, l’altra lo attacca nella sua base”.

Penso allora ai movimenti contadini degli ultimi vent’anni, che sono cresciuti praticando mutualismo e autogestione: mercati di quartiere autogestiti, in cui le aziende contadine vendono i propri prodotti a prezzi giusti, in cooperazione con i consumatori (o co-produttori) e con i centri sociali, praticando forme di autocertificazione partecipata. O, ancora, la sperimentazione di “agricolture supportate dalla comunità”, che uniscono contadini e cittadini, cooperazione di lavoro e cooperazione di consumo. Nei casi migliori (ad esempio l’Associazione Campi Aperti di Bologna) queste organizzazioni diventano di dimensioni relativamente grandi e costruiscono concretamente pezzi di economia altra e diversa. Nei casi migliori, queste organizzazioni, oltre che autogestione, praticano conflitto sociale. Ad esempio, contro lo sgombero di spazi sociali o per rivendicare leggi e norme che sostengono le agricolture contadine.

Più recentemente, la rete “Fuori mercato” sta provando a mettere assieme da Palermo a Milano realtà cooperative contadine e operaie, fabbriche e fattorie occupate e, nelle città, punti di distribuzione dei prodotti di questa rete.

In un periodo in cui le burocrazie statali sembrano girare a vuoto o difendere soltanto gli interessi di pochi, non sono rari gli esempi in cui pratiche di mutuo soccorso e di cooperazione hanno effetti molto più concreti e ricchi di senso, comprensibili non solo a ristretti gruppi di militanti ma a tutte le persone che ne traggono beneficio.

I terremoti degli ultimi anni (L’Aquila, l’Emilia, il centro Italia) hanno mostrato quanto la macchina dell’emergenza e della ricostruzione gestita dagli apparati dello Stato sia spesso inefficiente, burocratizzata, lenta e per certi versi più distruttiva dello stesso terremoto, perché lede le capacità di risposta autonoma delle comunità, soprattutto in montagna. Su questo terreno, organizzazioni e movimenti come le Brigate di solidarietà attiva o Genuino clandestino hanno praticato solidarietà attraverso l’autogestione, cercando di restituire capacità di azione e fiducia a piccole comunità – o semplicemente a piccoli allevatori e contadini – colpiti dai disastri naturali e dalla burocrazia dello stato di emergenza. Ma, senza aspettare che vengano terremoti ovunque, molta parte della montagna italiana è in stato di abbandono, cosa che aumenta i rischi legati alla tenuta idrogeologica del territorio: è proprio necessario aspettare grandi finanziamenti statali affinché le comunità (piccoli comuni, organizzazioni di base) decidano di prendersi cura del territorio in maniera autogestita, costruendo progetti che siano anche fonti di reddito per chi vi lavora?

Altro esempio: come si è scritto varie volte su questa rivista, a molti degli operatori sociali (spesso precari) e dei migranti che si trovano a interagire nella macchina burocratica dell’“accoglienza” ai richiedenti asilo e ai rifugiati gestita dalle prefetture, questa macchina appare del tutto priva di senso. Una macchina che piano piano svuota gli ideali di chi ci lavora e le capacità di azione autonoma di chi è “accolto”. In alcuni casi, ancora pochi, si ragiona assieme su come costruire pratiche di cooperazione dal basso, rispondendo alle necessità di reddito di tutti i soggetti coinvolti, al di fuori delle inutili costrizioni della burocrazia dell’accoglienza. E, non a caso, in molti di questi casi si parte ancora dall’agricoltura. Mi vien da pensare che, se fino a venti-trent’anni fa a Sinistra si era convinti che gli operai dovessero insegnare tutto ai contadini, altrimenti non si sarebbe mai fatta la rivoluzione, oggi si assiste a un moto contrario: i movimenti più interessanti e forti a livello globale sono movimenti contadini o che partono dall’agricoltura e dal cibo, e da essi le città e le fabbriche stanno assimilando e riproponendo pratiche, rivendicazioni e linguaggi: su tutti, la rivendicazione della sovranità alimentare elaborata dalla Via Campesina.

Si potrebbe continuare immaginando forme di mutualismo e cooperazione nel mondo dell’università, della ricerca, della scuola, dell’editoria. Laddove le istituzioni pubbliche svuotano di senso e precarizzano il lavoro (come nel mondo della ricerca universitaria), vanno progettate forme organizzative nuove che uniscano lavoro cooperativo e mutuo soccorso, che potrebbero ricostruire legami sociali, rendere nuovamente significativa l’attività di chi vi è impiegato, aiutare a comprendere meglio cosa rivendicare.

Il mutualismo è un tipo di pratica che gli operatori sociali che scrivono e leggono su “Gli asini” conoscono bene, sentono come propria: l’intervento sociale, quando si pone in ascolto e in dialogo vero con persone e gruppi sociali e quando risponde a bisogni concreti, spesso arriva a progettare e a praticare mutualismo, cooperazione, autogestione dal basso.

Il mutualismo è praticato – senza grandi discorsi teorici – da migranti di molte nazionalità, che si riuniscono in fitte reti di associazioni (di cui vogliamo parlare nei prossimi numeri degli “asini”) per praticare solidarietà reciproca tra connazionali e finanziare piccoli progetti utili nei villaggi e nelle città di origine.

Praticare mutualismo e cooperazione non vuol dire dimenticare il conflitto sociale e le rivendicazioni collettive. Senza il secondo aspetto, progetti mutualistici singoli e isolati pian piano morranno. Anzi, il mutualismo può e deve nutrire nuove forme di resistenza. Mi piace ricordare che lo sciopero dei braccianti africani di Nardò dell’estate 2011 – a oggi ancora il più importante sciopero condotto da lavoratori agricoli migranti in Italia – nasce anche da una pratica di tipo mutualistico, condotta con grande consapevolezza teorica da un piccolo gruppo di attivisti: l’autogestione dell’accoglienza ai lavoratori stagionali presso la Masseria Boncuri.

Si tratta di un lavoro lungo anni. Che deve ricostruire linguaggi e pratiche. Che necessita tanto di organizzazioni e di formazione, quanto di spontaneismo creativo. Ci vorranno anni e la sconfitta è sempre l’opzione più probabile. Ma non possiamo fare altro che provarci.

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