Riflessioni sulla sesta estinzione di massa

Ciò che rende il neoliberismo così egemonico sono i regimi di verità su cui si sostiene, scriveva Foucault. Se, dopo almeno trent’anni di egemonia neoliberista, nei paesi dove vide la luce – Stati Uniti e Gran Bretagna – questi regimi cominciano a scricchiolare di fronte al suo spettacolare fallimento, in Italia, al contrario, appaiono informa smagliante. Il dibattito politico mainstream, infatti, si fonda su menzogne propagate sotto forma di emergenze. La più nota è la cosiddetta ‘emergenza migratoria’, che determina il dibattito politico italiano (ed Europeo) da anni, nonostante sia l’ultimo dei problemi del paese. Il problema, semmai, è la crescente emigrazione forzata delle e dei giovani. Tuttavia, se ci limitiamo ai partiti sopra il 2%, l’intero spettro politico istituzionale è d’accordo. Sceriffo Minniti ce l’ha insegnato e il promettente Calenda ce lo ricorda orgogliosamente: la ‘sinistra’ fallisce perché non è dura sui confini e Salvinifallisce perché in realtà i porti non sono proprio chiusi chiusi. Zingaretti, amante di un silenzio ambiguo che altri chiamarono tattica del pop-corn, parla solo per scagliarsi contro una patrimoniale che pressoché nessuno ha proposto, in un disperato tentativo di evitare qualsiasi argomento che possa apparire di sinistra. C’è un settore, tuttavia, in cui i partiti italiani sono ancora più d’accordo che sul resto, esplicitamente, senza nemmeno dover fingere di non esserlo. Un dogma innegoziabile, per cui tutto è possibile, tra cui governi tecnici, grandi coalizioni, destra-sinistra-centro, letterine, pronostici, scommesse e sacrifici umani: la crescita. Anche qui, non è che il problema non esiste, ma piuttosto che è esattamente l’inverso di quello che sembra: l’emergenza, a ben guardare, non è la mancata crescita economica, come tutti sembrano convenire, bensì la sua esistenza come dogmatico obiettivo economico e politico. In un tripudio di emergenze inventate o fraintese, ciò che viene del tutto ignorato sono le emergenze reali. Una su tutte: quella climatica, anche nota come sesta estinzione di massa.
Le definizioni, peraltro, sono molto importanti: chiamare tale emergenza ‘cambiamento climatico’, infatti, vuol dire aderire all’ottimismo neoliberista – e al suo regime di verità – che a suon di quattrini promuove definizioni neutre o positive pur di liberarsi di nozioni più scomode e veritiere come ‘effetto serra’. Tornare a questa nozione che alla mia generazione veniva insegnata a scuola, tuttavia, non è più sufficiente. Crisi, tragedia, collasso, catastrofe, sono decisamente più appropriate. Per farla brevissima, il più recente report scientifico sul clima(pubblicato dal Breakthrough National Center for ClimateRestoration di Melbourne) afferma che molto probabilmente la civiltà umana avrà fine nel 2050, mezzo secolo prima di quanto prevedessero le stime più ottimiste. In altre parole, potremmo averla fatta finita con soli 2 gradi in più rispetto a prima della Rivoluzione Industriale(siamo già quasi a +1.5°C), senza dover aspettare nemmeno di superarli. Ma facciamo che per un qualsivoglia motivo arbitrario non ci volessimo fidare di questi studi e preferissimo quelli dell’IPCC, l’agenzia incaricata dall’ONU – e considerata da gran parte della comunità accademica eccessivamente ottimista. Cambierebbe ben poco: la civiltà umana finirebbe un po’ dopo il 2050, una volta superati i 2°C. Benché sia bene diffidare dall’idea del controllo umano e scientifico di questi fenomeni, che sono altamente imprevedibili perché del tutto nuovi – esempio immediato: il permafrost artico, quest’anno, si sta sciogliendo a livelli che erano stati previsti per il 2090 –, si tratta pur sempre di stime che fanno riferimento a fenomeni fisici, analizzati approfonditamente dalla comunità scientifica globale.Nonostante questo, chiamati a ‘gestire il cambiamento climatico’ sono, in primo luogo, gli economisti (al maschile, perché sono quasi tutti maschi), perché nel sistema di verità capitalista, lo scettro dell’autorità epistemica, etica e morale appartiene alla pseudo-scienza che è l’economia. Eppure, è doveroso per lo meno riflettere sul fatto che, se dovessimo continuare a crederci,l’iperuranio economicista si estinguerebbe come tutto il resto.
Mi spiego meglio: da decenni gli ecologisti ci stanno ripetendo che la sesta estinzione di massa si sta già compiendo, che l’87% delle specie viventi sul pianeta si è estinta negli ultimi anni, e che i prossimi a perire saremo noi. Questo ‘noi’, che intendo come ‘esseri umani’, è senza dubbio problematico. Da un lato, perché gran parte di ‘noi’ sta già gravemente soffrendo gli effetti di questa crisi: numerose comunità sono già vittime di questa tragedia che si manifesta in perdite del raccolto,inondazioni, fame, siccità e uragani che avvengono con sempre più frequenza, devastando le vite di chi risiede, in particolare, nel Sud Globale – altra dicitura esotica che nella Neolingua capitalista contemporanea è alternata a ‘paesi in via di sviluppo’, ma il cui onesto significato è ‘paesi poveri’. D’altro lato, il ‘noi’ è ancor più problematico se pensiamo che’1% più ricco del pianeta è composto da persone che possiedono da sole più della metà della ricchezza globale, e che per questo saranno in grado di soffrire il collasso quantomeno per ultime, nonostante ne siano la causa principale. Uno studio recente, per esempio, mostra come cento multinazionali, da sole, siano responsabili per il 71% del surriscaldamento globale. Così, mentre le vittime principali della crisi ecologica non hanno fatto niente per provocarla, ma anzi sono le stesse vittime di sfruttamento e dominazione, la minoranza responsabile della crisi ecologica è quella che, se non cambiamo le cose, ne pagherà di meno le conseguenze. Emerge dunque uno stretto rapporto tra la crisi ecologica e le disuguaglianze, o ingiustizie sociali, che non può essere ignorato.
Questo tipo di analisi, fino ad ora, è in gran parte mancata al movimento ambientalista, che si è dedicato principalmente a campagne sconnesse da una critica del capitalismo e che ha proposto come soluzioni le azioni individuali. Ancora una volta, il regime di verità neoliberista ha avuto la meglio, e un contro-movimento si è sviluppato senza tuttavia mettere in dubbio l’individualismo su cui questo sistema si sostiene. Se ricicliamo, spegniamo le luci e magari non mangiamo la carne, ci hanno detto, il pianeta si salverà. Peccato che non è vero. Trovo lodevole e importante cercare di seguire la regoletta kantiana per cui ciascuno di noi non dovrebbe avere un’impronta ecologica maggiore di quanto non possano avere tutti gli abitanti della terra, ma, realisticamente, non è certo la moltiplicazione di questa regoletta all’infinito che genererà il cambiamento necessario a evitare la catastrofe. Non è un tabù dire cosa ci fanno con le cannucce di bambù i proprietari di quelle 203 navi da crociera che da sole inquinano più di tutte le auto in circolazione in Europa. L’essere vegetariani o vegani, comprare cibo organico o non prendere aerei – in effetti, basta un’andata e ritorno Londra-New York per far sì che la nostra impronta ecologica individuale superi i limiti del sostenibile – sono cose che possiamo e dobbiamo fare per stare meglio con noi stessi, ma non sono sufficienti a risparmiarci dall’estinzione. Il ‘consumismo politico’ non è che l’ennesima forma in cui il sistema di verità neoliberista ci ha meravigliosamente preso per i fondelli. In realtà, l’unico modo di sopravvivere alla crisi climatica (evitarla è già impossibile) è cambiare radicalmente il sistema economico oligopolistico in cui viviamo.
L’ha capito Greta Thunberg, nonostante in Italia, come altrove, sia stata in gran parte recepita come una piccola pop-star da idolatrare pur di non rendersi conto che Greta è, tra le altre cose, una no-tav anticapitalista. Ma l’hanno capito anche le attiviste e gli attivisti britannici di Extinction Rebellion che, in un paese affondato nel dibattito sulla Brexit, sono riusciti a spostare l’attenzione del pubblico sull’emergenza climatica. Attraverso la disobbedienza civile non-violenta di massa – che, spiegano, è storicamente la strategia di cambiamento che ha statisticamente ottenuto più risultati – rivendicano di essere l’ultima speranza per il pianeta. Per richiamare un articolo apparso sul numero 62 di questa rivista, possiamo indubbiamente parlare di un movimento ‘collassista’. Tuttavia, a differenza dei collassisti descritti nell’articolo,forse grazie allo stereotipato pragmatismo anglosassone, questo movimento non punta alla moltiplicazione di esperimenti prefigurativi di post-capitalismo, ma bensì a una ribellione di massa volta a produrre un cambio sistemico. La ragione, semplice, è che non c’è tempo. Se, come l’IPCC ha (ottimisticamente) avvertito, le emissioni globali devono essere dimezzate entro il 2030 per evitare il collasso, pare impossibile che ciò possa accadere attraverso la diffusione e la moltiplicazione di eco-villaggi e comunità autonome. Allo stesso modo, sarebbe sciocco illudersi del fatto che un sistema politico ed economico oligocratico, del tutto asservito agli interessi economici dell’1%, possa essere interessato a raggiungere questi obiettivi a favore del bene comune e a spese del proprio privilegio.
Extinction Rebellion ha tre richieste, volutamente e apparentemente semplici: (1) Dite la verità: dichiarate l’emergenza climatica; perché rendersi conto che abbiamo un problema è un passo pressoché innocuo ma fondamentale per quelli successivi; (2) Ridurre le emissioni di anidride carbonica nette a zero entro il 2025 – sembra una cruda richiesta numerica, eppure quando uno si rende conto che ciò non può accadere senza ripensare del tutto l’economia, il gioco si fa bello; (3) Estrarre a sorte un’assemblea di cittadini a cui sia affidato il compito di occuparsi dell’emergenza climatica. L’estrazione a sorte, fondamentale strumento democratico ereditato dall’antica Grecia, garantirebbe un’assemblea slegata dagli interessi economici e dalla corruzione che inquina il sistema rappresentativo. L’assemblea, esattamente come succede o dovrebbe succedere per il parlamento, si servirebbe di esperti, accademici e scienziati per prendere le decisioni migliori. Più in generale, l’estinzione di massa è un’emergenza tale da richiedere il superamento della debole forma di democrazia a cui ci siamo abituati e sostituirla con una democrazia reale, partecipativa e diretta, di cui un esempio è il Confederalismo Democratico oggigiorno vigente in Rojava. Se dagli anni ’90, quando sono cominciate le negoziazioni internazionali sul clima, le emissioni di anidride carbonica sono aumentate del 60%, forse è il caso di iniziare a renderci conto che il sistema politico attuale non ci risparmierà dall’estinzione. L’unica possibilità sta in una ribellione non-violenta di massa che porti al pieno accoglimento di queste richieste. Nel Regno Unito, in pochi mesi, Extinction Rebellion è diventato il più grande movimento di massa della storia del paese. Ad aprile, al culmine di un’escalation programmata, migliaia di attivisti hanno bloccato cinque punti nevralgici di Londra per più di dieci giorni, gettando nel panico la polizia (che nonostante più di mille arresti non è mai riuscita a sgomberare del tutto gli attivisti), il traffico, la città e i partiti, che pochi giorni dopo hanno reso il Regno Unito il primo paese al mondo a dichiarare l’emergenza climatica. Oggi, la crisi climatica è diventata, se non il primo, il secondo argomento di discussione più diffuso nel paese dopo la Brexit. Ma questo non è che l’inizio: per il 27 settembre è stato annunciato uno sciopero generale globale per il clima e a partire da allora è previsto un altro periodo di ribellione intensa.
Se Extinction Rebellion e altri sostengono che la crisi climatica richieda un sistema meno corrotto e più realmente democratico – perché, logicamente, se davvero alle persone venisse data la possibilità di decidere, nessuno sceglierebbe di estinguersi – il rischio contrario è vivo e presente. Non sarebbe la prima volta che, con la scusa di un’emergenza da risolvere rapidamente, si finisca per farsi sedurre dall’ordine e dalla disciplina; in altre parole, dall’eco-fascismo: la destra abbraccia la causa ambientalista e instaura una dittatura ecologista che invece di fare gli interessi delle persone salva il pianeta dal collasso sacrificando la maggior parte della popolazione per mantenere i privilegi di pochissimi che, mentre scrivo, stanno difatti già comprando gli unici terreni che i climatologi stimano poter rimanere fertili, ci stanno costruendo muri attorno e stanno addestrando eserciti privati. Purtroppo, o ci organizziamo democraticamente per affrontare la crisi climatica, o l’eco-fascismo è il futuro più probabile.
I neoliberisti ottimisti e tutti gli altri che ci cascano, sostengono che questo futuro distopico è invece facilmente evitabile grazie agli strabilianti progressi della tecnologia, dell’automazione, dell’economia immateriale e nella transizione alle rinnovabili. Eppure, per quanto promettente, tutto ciò non è realmente sufficiente per fermare il collasso del sistema terra: oggigiorno, i paesi ricchi del mondo, tra cui l’Italia, consumano una quantità di energia insostenibile anche qualora fossecompletamente alimentata con energie rinnovabili. I paesi ricchi divorano in media 28 tonnellate di materiale (dai pesci alle foreste, dalla plastica ai metalli) all’anno per persona: quattro volte quanto gli ecologisti ritengonosostenibile. Mantenere (e figuriamoci aumentare) i livelli di energia attuali significherebbe continuare a devastare i territori e le comunità che ci vivono con centrali idroelettriche o riempire il pianeta di scorie nucleari sotterranee; così come saccheggiare (ancora una volta) i paesi poveri dei materiali di cui avremmo bisogno per costruire quest’infinità di pannelli solari, pale eoliche e batterie. Ciò che sta distruggendo il pianeta non sono solo le emissioni di carbonio, ma anche il consumo di risorse. Limitare le emissioni di carbonio attraverso un aumento del consumo di risorse è tutt’altro che lungimirante. Le risorse, d’altronde, non sono infinite.
Com’è dunque possibile aspirare a una crescita economica infinita, per cui si intende una crescita infinita del PIL, che non è altro che l’aumento infinito dell’insieme dei beni e dei servizi prodotti? Questa domanda ci porta al più alto livello di astrazione, ideologia e menzogna del sistema di verità neoliberista, secondo cui ipoteticamente la crescita economica potrebbe essere del tutto immateriale. Anche questo, molto semplicemente, non è vero. Più precisamente: nel caso dell’anidride carbonica numerose ricerche dimostrano che, per quanto a livello puramente teorico la crescita economica possa avvenire senza produrre emissioni, questo disaccoppiamento tra crescita e produzione di emissioni non è mai avvenuto, non sta avvenendo e non potrebbe di certo avvenire in tempo per fermare la crisi. Per quanto riguarda il consumo di risorse, invece, il disaccoppiamento dalla crescita economica non è neanche ipoteticamente teorizzabile.
Una crescita del 3% annua, come quella suggerita dalla Banca Mondiale, significa raddoppiare le dimensioni di un’economia ogni 23 anni. Tuttavia, raddoppiare l’economia non significa certo raddoppiare il benessere:basti pensare che il PIL reale odierno degli Stati Uniti è il doppio rispetto a quello degli anni ’90, mentre negli anni ’70 il PIL italiano era la metà di quello attuale. Nessuno se la sentirebbe di affermare che stiamo meglio il doppio, anzi. Eppure, è proprio questo che, tra le righe, è suggerito dall’approccio dogmatico nei confronti della crescita. Ciò che il PIL non calcola, oltre al benessere, sono le disuguaglianze. Il raddoppio del PIL potrebbe, in teoria,averlo generato una sola persona, o una sola azienda, così come i profitti che ne derivano. Inoltre, il PIL ignora tutto ciò che viene prodotto e servito senza essere venduto, in particolare il lavoro di cura che avviene all’interno di case e famiglie senza essere monetizzato, e che pure è fondamentale per sostenere economicamente la società. Insomma, il PIL misura ben poco di ciò che ci può minimamente interessare per vivere bene. Eppure, dalla prima metà del ‘900, nonostante l’ideatore del PIL, Simon Kuznets, si raccomandasse di non usarlo come obiettivo da raggiungere, ma come semplice indicatore della performance di una nazione in guerra, il PIL è stato al contrario perseguito come obiettivo numero uno. Oggi, nonostante sia sepolto dalle critiche, la crescita del PIL continua ad essere il principale traguardo della stragrande maggioranza delle nazioni (seppur paesi come la Nuova Zelanda, la Costa Rica e il Bhutan lo stiano superando). Il motivo va ricercato, ancora una volta, nel campo dei regimi di verità. La crescita del PIL è infatti, prima di tutto, un’ideologia, nata per sostenere la causa anticomunista della guerra fredda: non solo per quanto riguarda il calcolo e il confronto della capacità produttiva dei due blocchi, ma soprattutto perché ciò che l’ideologia della crescita implicitamente sostiene è che la disuguaglianza non è un problema finché il PIL cresce e i ricchi diventano più ricchi, dal momento che anche i poveri ne beneficeranno. In altre parole: se il PIL cresce, non c’è alcun bisogno di redistribuire, perché tutti, in un modo o nell’altro, sono più ricchi. Quest’ideologia è così potente da mettere a tacere il semplice fatto che la povertà è, per definizione, relativa, e che se oggi dessimo anche solo un terzo del reddito dell’ 1% più ricco ai 4.2 miliardi più poveri della popolazione mondiale si potrebbe annullare la povertà globale (calcolata secondo la linea di 7.4$ al giorno) in un colpo solo, lasciando l’1% con un reddito di $175,000 all’anno (!!!).
Inoltre, l’ideologia della crescita e la dipendenza delle società contemporanee da essa è dovuta, originariamente,alla scarsità artificiale creata dalle enclosures, ovvero dalla trasformazione dei beni comuni in beni privati concentrati nelle mani di pochi – fenomeno che, non a caso, è alle origini del capitalismo. Un esempio utile è quello dell’abitare (ma volendo anche dell’acqua, dei treni, dei terreni agricoli etc.). Se circa la metà di quello che guadagniamo lo spendiamo per pagare il mutuo o l’affitto, significa che il nostro semplice diritto all’abitare ci richiede di lavorare più o meno 19 ore la settimana – una metà delle nostre 38 ore di produttività. Così funziona il regime di verità: se lavorare a tempo pieno per un salario minimo è l’unico modo con cui posso avere un tetto e sopravvivere, sarò il primo a credere che la capacità di ‘creare lavoro’ sia ciò che distingue il buon governo dal cattivo. Eppure, continuare a creare lavoro è estremamente difficile, dato che gli sviluppi tecnologici producono un costante aumento della produttività, che riduce la quantità di lavoro richiesto per la produzione degli stessi beni e servizi. La compulsione a consumare, dunque, diventa qualcosa da dover indurre (basti pensare all’espansione del settore pubblicitario) così da sostenere una crescente domanda in grado di richiedere una crescente produzione tanto da poter puntare a un’economia che raddoppi la quantità di cose prodotte e consumate mediamente ogni 23 anni. I governi, di destra o di sinistra che siano, si trovano così obbligati a tagliare tasse e regolazioni, a rendere facile l’accesso a energia e materie prime e a promuovere costantemente un consumo alimentato dal debito – il tutto, alle spese del pianeta. Ironicamente, un crescente debito pubblico e privato richiede, a sua volta, un’economia crescente che permetta di ripagarlo. E così, mentre il pianeta piange, la popolazione applaude, accecata da un regime di verità così egemonico da occultare l’inevitabile affogamento dei nostri cugini e l’arrostimento dei nostr inipoti.
È fondamentale sottolineare un paio di nessi. In primo luogo, quello tra battaglie ecologiche e sociali: come dimostrato, le disuguaglianze e lo sfruttamento vanno a braccetto con il degrado ambientale. Come scriveva Murray Bookchin, teorico dell’ecologia sociale, non ci libereremo della dominazione dell’uomo sull’uomo e sulla donna finché non ci libereremo della dominazione dell’uomo sulla natura. Il secondo nesso fondamentale è quello tra crescita ed estinzione: la crescita economica ci porta, inevitabilmente, all’estinzione. Se non è ancora del tutto chiaro, lo sarà dalle righe seguenti.
Com’è possibile, si chiederà il lettore, che anni di studi e di negoziati sul clima non abbiano reso noto il nesso tra crescita ed estinzione? Ma soprattutto, come può essere che accordi come quelli di Parigi sembrino indicare una strada che, se seguita, ci permetterebbe di evitare il collasso senza rinunciare alla crescita? Questa ragionevole domanda è ciò che porta tante persone a rimanere tranquille e tanti lettori a credere che il presente articolo sia semplicemente lo sfogo di un catastrofista pessimista. Eppure, i più lontani dalla realtà, in questo caso, sono gli autori dei modelli per gli accordi di Parigi. Mi spiego meglio: mettiamo che Trump non si fosse ritirato dagli accordi di Parigi, che Bolsonaro non fosse presidente del Brasile e che tutti gli altri Stati non avessero nessun interesse nazionale più importante che rispettare degli accordi di natura volontaria come quelli di Parigi. Ipotizziamo, contro ogni evidenza, che tutti decidano di rispettarli attentamente. In questo caso, dicono i modelli, riusciremmo a rimanere sotto il punto di non ritorno dei 2°C. Vero, ma solo con un trucco. La maggior parte degli scenari che ci terrebbero sotto i 2°C (101 di 116) fanno affidamento alla diffusione massiva dei BECCS, una controversa tecnologia di ri-immagazzinamento di anidride carbonica sottoterra, di cui oggi esistono solo costosissimi prototipi. Dunque sì, la salvezza del pianeta e della vita su di esso è affidata alla contestatissima speranza di sviluppare e moltiplicare una tecnologia sempre più discussa. Si salvi chi può.
I restanti modelli (15 su 116), almeno, sono più realistici: l’unico modo per riuscire a rispettare gli accordi di Parigi è quello di diminuire attivamente il volume di produzione materiale dell’economia mondiale. Questo diminuirebbe a sua volta la domanda energetica, e questi due elementi insieme ci permetterebbero di rimanere entro i 2°C. Quest’approccio è conosciuto come decrescita. Come arrivarci? Trovo desolante che questi temi siano totalmente assenti dal dibattito politico italiano. Nel dibattito Europeo, al contrario, è sempre più presente, come nella nota proposta di Green New Deal avanzata negli USA da Alexandria Ocasio-Cortez e in Europa dal movimento paneuropeista Diem 25. In Italia, tuttavia, non ne parla nessuno.
Ecco dunque che un movimento come ExtinctionRebellion – che sta lentamente prendendo piede anche in Italia – si dimostra, effettivamente, l’ultima speranza: il sistema politico attuale è eccessivamente corrotto dagli interessi economici di cui è portavoce e non è minimamente in grado di affrontare la crisi che ci troviamo di fronte. Che fare, se non ribellarci in massa? Se la situazione politica italiana è così disastrosa è perché abbiamo smesso di sognare e abbiamo accettato di giocare all’interno del campo di verità dominante, che guadagna legittimità ogni giorno che passa senza essere messo in dubbio. Più parliamo di migranti, sicurezza, crescita e debito pubblico, più queste sembreranno le vere emergenze e più chi pare avere i mezzi per risolverle governerà. Finché ci dedicheremo a controbattere continueremo a perdere la battaglia culturale, politica ed economica e per la sopravvivenza. Se usciremo dalla trappola e cominceremo a ribellarci, parlando delle vere emergenze sociali ed ecologiche che affliggono la società, non solo ci libereremo di questi mostri che scorrazzano per il paese mentendo, ma avremo anche qualche possibilità di sopravvivere all’estinzione.
Ci diranno, comunque, che non è possibile, come se il possibile in un qualcosa di puramente umano, come l’economia, lo potessero definire loro. Ci vorranno far credere, in altre parole, che salvare il capitalismo è possibile mentre salvare l’umanità no. Non abbocchiamo. Al dominio capitalista esistono alternative pratiche, reali: sono la ricostituzione della terra, delle case, della finanza, e dell’energia come beni comuni; l’abbandono del PIL come misura di progresso e la sua sostituzione con indicatori di benessere e limiti ecologici; la diminuzione del volume di produzione materiale con l’introduzione di tasse progressive sull’uso delle risorse, la radicale limitazione della pubblicità, l’allungamento delle garanzie dei prodotti, l’accorciamento della settimana lavorativa per avere una distribuzione più equa del lavoro (in particolare quello di cura), la redistribuzione del reddito attraverso alte tasse marginali sugli stipendi più alti (come quella all’80% che è esistita negli USA dal 1943 al 1983) o l’introduzione di tetti fissi agli stipendi; l’introduzione di una patrimoniale come quella proposta da Piketty, oltre che a una tassa sulle transazioni finanziarie; l’utilizzo di tutte le tasse sopra-citate per finanziare un reddito di base universale che rompa il meccanismo di dipendenza dal lavoro (e quindi dal consumo e dalla produzione). Tutte cose che possono essere finanziate smettendo di considerare il denaro come una risorsa finita (altra tattica propagandistica incredibilmente di successo del sistema di verità neoliberista) ma piuttosto come una risorsa del tutto manipolabile per raggiungere i fini sociali che una determinata società si pone.
Questo non è che un assaggio di parti di un programma politico che una ribellione di massa potrebbe avere. A chi un programma del genere fa paura, dobbiamo chiedere: preferiamo salvare il capitalismo (da sé stesso) o salvare la vita sul pianeta? Che poi, a pensarci bene, è in ultima istanza superfluo entrare necessariamente nella diatriba terminologica del ‘salvare il capitalismo’ o meno. C’è chi è molto affezionato a questo termine semplicemente perché è spaventato dall’ignoto. Non importa: io sono sicuro che dopo una trasformazione politico-economica di questo tipo, il capitalismo sarà molto difficile da riconoscere, e potremo sicuramente trovargli un nome migliore.
Ora, ribelliamoci!