Ricordo di Mario Lodi
Domenica mattina è morto Mario Lodi. Lo ricordiamo con un pezzo di Grazia Fresco Honegger, uscito su Gli asini, n. 9, aprile/maggio 2012.
Nel 1963, sposata e con due bambini, ero arrivata in Lombardia, con vivo rimpianto per aver perduto, a causa della cittadinanza di mio marito, il diritto già conquistato a insegnare nelle scuole statali. Il codice Rocco vigente mi aveva costretto a rinunciare alla mia cittadinanza e di conseguenza ai diritti civili connessi. Per “loro” non ero più italiana e così fu – se non erro – fino al 1992! Ecco la principale ragione per cui, dopo inutili tentativi, creai una scuola che divenne col tempo parificata.
Cercai aiuti diversi: il passato fascista della maggior parte di maestre e maestri incontrati non faceva presagire grandi rinnovamenti personali, ma già l’aver frequentato un corso Montessori secondo il quale era impostata la nostra scuola ed essersi messi in un percorso di relazioni maestro –allievo non più punitivo, senza giudizi, né voti comportava un mutamento notevole. Avevamo anche stretti contatti con molte esperienze di scuola attiva, soprattutto tramite i Cemea toscani, e questo sosteneva non poco il nostro percorso.
Cominciammo dai piccoli della Casa dei bambini – quelli che conoscevo meglio – rassicurati dalla loro capacità di trovare quiete, concentrazione, creatività e spontanee relazioni sociali ogni volta che l’ambiente con tante opportunità di scelta rispondesse al loro bisogno di esplorare e di agire.
Quando però avviammo le classi elementari, accanto allo splendido filone matematico-scientifico tipico di una primaria Montessori sentii un po’ sguarnita l’area compositiva – linguistica. Nella ricerca mi imbattei in un testo appassionante, scritto da un uomo che partiva dallo stato di benessere dei suoi allievi: Se questo accade al Vho, (Edizioni Avanti! 1963) la prima opera di Lodi, un testo folgorante nella sua autenticità, nel desiderio di rispondere agli interessi dei ragazzini, con esperienze avviate fin dai primi anni Cinquanta.
Rileggo a pagina 10: “Osservare i ragazzi mentre giocano sulla strada o nel cortile ignorando la mia presenza, è sconcertante : c’è in loro un’aggressività ricca di fantasia, un comportamento libero, un linguaggio scarno, ma incisivo e una felicità motoria. Spuntano nodi drammatici in continuazione sulla linea vitale di quella socialità naturale fondata sul rapporto del gioco, ma vengono sciolti sulla base di sacri e taciti patti; sono suppergiù gli stessi patti che anch’io rispettavo un tempo e la stessa felicità dell’ormai lontana fanciullezza (…). La campana della scuola distrugge quello stato felice ed eccoli tra i banchi, a vivere l’altra vita, quella dell’“obbligo”, più o meno rassegnati…”
Constatazione dirompente, analoga a quella che aveva indotto una trentina d’anni prima la ticinese Maria Boschetti Alberti – che in principio svolgeva per dovere il suo mestiere di maestra – a scoprire una passione nuova, ponendosi dalla parte dei ragazzi. Era come se, entrando in classe , si mettessero una maschera, aveva scritto e questo non poteva sopportarlo. A cambiare qui l’aiutò Anna Fedeli, un’allieva di Montessori che dirigeva la scuola elementare all’Umanitaria di Milano. Per Mario Lodi fu invece il lavoro con i colleghi, cui seguirono a ruota gli scambi con “Cooperazione Educativa”. La stampa dei testi liberi secondo la proposta Freinet, da poco era stata diffusa in Italia grazie all’azione di Margherita Zoebeli, da Aldo Pettini e da Pino Tamagnini, veri capiscuola nel diffondere nella scuola pubblica, da un capo all’altro della penisola, la tipografia agita dai ragazzini stessi, la bellezza dei testi liberi, dei giornali e dei libri “fatti da noi”, con la conseguente corrispondenza interscolastica.
Lodi parte nel ’51 dal disegno e dalla pittura con le “comuni polveri coprenti” dei muratori, mescolate con acqua e gomma arabica. Non vuole più copiature dai libri o dalla lavagna e invita gli allievi a disegnare quello che a loro piace: “i campi, il cielo, gli uomini e le donne, gli animali, i giochi, tutto insomma, purché nulla sia copiato” (p.15). La pittura è di per sé liberante, un altro modo di raccontare ed eventualmente commentare. Si mettono le tre gambe allo sgabello per mungere, si colorano in modi diversi gli abiti e i campi; ne segue un fervore di discussioni amichevoli, proprio perché è il maestro per primo a incoraggiare, a non lanciare giudizi. Lo stesso stile di lavoro, lo stesso clima passeranno nella correzione collettiva dei testi e nella scelta di quelli da stampare. Dai testi individuali a quelli collettivi sui grandi temi da discutere, soprattutto se riferiti a situazioni più ampie come quello del rifornimento dell’acqua nel Comune di Doccia vicino a Pontassieve con la cui scuola i ragazzini del Vho sono in corrispondenza. Appare attraverso il racconto delle diverse discussioni il rifiuto energico del sistema dei voti che – decidono gli allievi – nei lavori quotidiani vanno se mai sostituiti dai “giudizi”. Cresce il clima etico e partecipativo della classe via via che il maestro respinge lo spionaggio e la delazione e per contro favorisce l’allenamento ad ascoltare tutti, a dare a ognuno il giusto tempo per esprimersi senza che altri subito zittiscano o contraddicano. Occorre un lento graduale allenamento perché fin da ragazzini si impari a scambiarsi idee e a giungere a decisioni condivise.
Il compito da educatore di Lodi è invece basato sull’ascolto. Anche nella nostra piccola scuola ci abbeverammo a quelle modalità e i bambini scrissero cose vere, autentiche e delicate poesie, basate – come nella bella storia del passero Cipì che Lodi aveva già pubblicato nel ’61 – sulla accurata osservazione di eventi naturali.
“Ma tu fai solo lingua?” gli chiede con invidiosa acrimonia una collega. Lodi non dà risposta, la lascia allo scorrere della giornate, a tutto quel numerare e poi calcolare di cui è inevitabilmente intrisa una scuola attiva, che studi l’ambiente, faccia progetti, non fosse che preparare le pagine del proprio giornale e le copie da inviare ai corrispondenti lontani o dover misurare la lunghezza di una strada o di uno spazio destinato ai giochi. Dallo scambio verbale, dalla comunicazione le occasioni sono così tante da corrispondere a pieno alle tristi elencazioni dei programmi ministeriali: il calcolo vivente di cui parlava Freinet.
E poi, si sa, bambini e ragazzini imparano perché il maestro è credibile, memorizzano perché quello che egli dice assume un valore speciale, il maestro vero trascina verso campi inaspettati senza mai sedurre, né plagiare.
Nato il 17 febbraio del ’22, diplomatosi maestro nel ’40, Lodi ha appena compiuto novant’anni. Ha dato tanto (e dà ancora a chi sappia ascoltarlo) dai cinque volumetti pubblicati da Laterza nel ’79, in cui, in ognuno per anno di scuola è riprodotto un diario che in prima è dapprima soprattutto del maestro e dei disegni, ma poi, dalla seconda alla quinta, è segnato dal giornale di classe Il mondo a partire dal ’73-74. In alternanza Il paese sbagliato come Diario di un’esperienza didattica, Einaudi 1970 e Insieme/Giornale di una quinta elementare, ancora Einaudi 1974. Profeta in fondo troppo poco ascoltato, ha detto in tanti modi – quasi un libro per anno! – come porsi nei confronti dei bambini, nei racconti scritti per loro, nelle tante iniziative, nei riconoscimenti ricevuti, nelle parole rivolte con impegno civile anche agli adulti, come nell’ultima presentazione della Carta costituzionale per i più giovani.
“A chent’annos”, dicono i pastori sardi, bevendo un sorso di acquavite – ab’ardente – nel saluto a un amico, tutti rigorosamente in cerchio, perché anche il più vecchio, il più sapiente ha un posto come tutti gli altri. Come figlia di un sardo, ti dico “A chent’annos”, caro Mario, e grazie per quanto ci hai dato.