Ricordo di Tzvetan Todorov
Quando andavo all’università, i professori ci facevano leggere i critici strutturalisti degli anni sessanta e settanta, affinché acquisissimo un metodo oggettivo e scientifico per “analizzare” (non: spiegare) i “testi” (non: libri). Questi critici avevano i nomi di Genette, Greimas, Jakobson, Corti, Segre eccetera.
Li leggevo facendo sforzi immani; sforzi che, mi dico oggi, avrei potuto invece impiegare nella lettura di un bel romanzo. All’epoca però mi sembrava che quella fosse roba seria. Più seria di una critica impressionistica che era, per me, un tabù. Per fortuna, alcuni professori, pochi, prendevano apertamente le distanze dalla critica formalista, considerandola una moda intellettuale ormai tramontata. A scuola, istituzione ben più conservatrice dell’università, sopravvive ancora l’idea che leggere e capire un racconto voglia dire essenzialmente individuarne le categorie narratologiche: gli attanti, le sequenze, le fabule e gli intrecci. Molti professori al biennio delle scuole superiori fanno essenzialmente narratologia, o per essere più precisi, una sua parodia.
Tzvetan Todorov apparteneva solo in parte a quella schiera di critici sopra elencati. Solo in parte, perché, pur essendo uno dei massimi esponenti della critica formalista – a lui si devono l’invenzione della narratologia e l’introduzione dei formalisti russi in Europa (l’antologia dei formalisti da lui curata esce in Francia nel 1965, in Italia per Einaudi nel 1968) – la sua scrittura è sempre stata tutto sommato chiara, anche quando si serviva del gergo linguistico-strutturalista in voga in quegli anni. È stato anche tra i primi a riconoscere gli eccessi di quella stagione intellettuale. Il suo congedo definitivo da essa è segnato da un libro del 1984, Critica della critica, che porta un sottotitolo eloquente: Un romanzo di apprendistato. Nel frattempo c’era stata la sua scoperta di Bachtin e la proposta di una “critica dialogica”. All’inizio degli anni ottanta, Todorov depone le vesti del critico-scienziato in camice bianco e inizia un percorso intellettuale nuovo, straordinario per profondità e ampiezza di temi, che viene raccontato ora da un bel saggio di Giulia Cosio, La firma umana (Jouvence 2016), arricchito da una prefazione scritta dallo stesso Todorov e da una sua intervista posta in appendice.
Todorov nasce nel 1939 a Sofia, in Bulgaria, ma nel 1963 si trasferisce a Parigi e vi rimane per tutta la vita (nel 1973 acquisisce la nazionalità francese). Dopo essersi laureato con Roland Barthes, si dedica agli studi di teoria della letteratura e diventa membro del Cnrs. Di cosa si è occupato? Storia, antropologia, filosofia, politica, critica letteraria eccetera. In quarant’anni di attività sono davvero pochi i campi disciplinari in cui Todorov non si è cimentato. Per rendersi conto della vastità dei suoi interessi, basta elencare i titoli di alcuni suoi libri: La conquista dell’America (1982), Morali della storia (1991), Memoria del male, tentazione del bene (2008), Gli abusi della memoria (2004), La bellezza salverà il mondo (2010) La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà (2008) La pittura dei lumi. Da Watteau a Goya (2011), I nemici intimi della democrazia (2012). Libri difficili da classificare che, come dice Giulia Cosio, stanno “a metà tra la riflessione filosofica e la storia delle idee, tra il saggio morale e storico”.
Giulia Cosio rintraccia il “centro d’interesse” di questo pensatore eclettico e poliedrico nella filosofia morale e nel problema dell’alterità. L’indagine di Cosio inizia prende le mosse dall’“uscita dallo strutturalismo” del filosofo bulgaro. Alla fine degli anni settanta, Todorov non crede più al principio dell’autosufficienza del testo letterario. La letteratura non parla più solo di se stessa, ma anche del mondo; per questo ci interessa. Di conseguenza il critico non può limitarsi a ricostruire il senso dell’opera, ma deve giudicare il suo messaggio. La critica strutturale – lo smontaggio del testo in ogni sua singola parte – vale come strumento di analisi del testo, ma non come fine ultimo della critica. Todorov racconta questo passaggio teorico con la metafora del chiodo e del martello: “dopo aver trascorso dieci anni ad affinare gli strumenti, bisognava utilizzarli: in caso contrario, sarei stato come un falegname che costruisce un martello ma non serve mai per piantare alcun chiodo. Ora, è il chiodo che fa stare in piedi la casa, non il martello!”.
Si apre dunque un nuovo campo di studi sui rapporti tra arte e valori etici e morali, che Todorov svilupperà, nel corso degli anni, in diversi saggi come Memoria del male, tentazione del bene (2008) e La bellezza salverà il mondo (2010). In essi Todorov legge i libri degli autori più amati – Vassili Grossman, Roman Gary, Primo Levi e tanti altri – non più per smontarne i congegni letterari, ma per ricavarne degli insegnamenti, anche di natura morale.
Il superamento dello strutturalismo spinge, inoltre, Todorov verso altre discipline: “Una volta stabilito che nello studio della letteratura ciò che bisogna ritrovare è il rapporto con la sfera dei valori, l’ambito di ricerca todoroviano va progressivamente spostandosi, per una sorta di slittamento naturale, verso l’esame dei valori medesimi: dalla letteratura Todorov passa all’etica e alla politica”.
Questo passaggio è documentato da uno dei suoi libri più belli, La conquista dell’America. Il problema dell’altro (1982), primo panello di un dittico sull’alterità insieme al successivo Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana (1989). A chi lo accusava di invadere con questo libro un terreno, la storiografia, che non era il suo, lui rispondeva definendosi un moralista, non uno storico. Il suo interesse per il passato non puntava alla ricostruzione oggettiva dei fatti, ma alla ricerca della “relazione fra fatti e valori”. Del resto il libro inizia con una dichiarazione d’intenti piuttosto chiara: “Voglio parlare della scoperta che l’io fa dell’altro”. Todorov illustra i modi in cui i diversi protagonisti della Conquista – Colombo, Montezuma, Cortés, Las Casas, eccetera – hanno cercato di comprendere l’altro, e avanza, inoltre, una tesi originale per spiegare la rapidissima vittoria degli spagnoli. Cortès avrebbe vinto, non (come sostengono gli storici) a causa delle esitazioni di Montezuma, delle divisioni interne all’impero messicano e della superiorità militare degli spagnoli, bensì grazie alla sua capacità di sfruttare la comunicazione. Todorov fa diversi esempi; uno di questi è il modo in cui Cortés manipola il mito del dio Quetzacoalt: “secondo una leggenda dei cholultechi, popolazione messicana sottomessa dagli aztechi, questa divinità costretta ad abbandonare il suo regno, fugge verso est, oltre l’Atlantico; alcune versioni del mito riportano la sua promessa di ritornare, un giorno, a riprendersi il suo regno perduto. (…) Venuto (…) a sapere di questa leggenda, Cortés sa cogliervi l’occasione di avvalorare la venuta degli spagnoli (…). Inscrivendo la sua presenza nell’universo simbolico azteco, Cortés riesce a convincere il nemico con il suo stesso linguaggio”.
Giulia Cosio si sofferma anche sugli studi di Todorov consacrati al totalitarismo e agli usi e abusi della sua memoria, concentrandosi in particolare su Di fronte all’estremo. Quest’ultimo è una riflessione sul male condotta in stretto dialogo con Hannah Arendt e Zigmunt Bauman, nella quale Todorov smentisce il luogo comune secondo il quale la vita nei lager rispecchierebbe la vera natura egoistica dell’uomo, facendo affiorare le sue autentiche pulsioni. Rileggendo con attenzione le testimonianze dei sopravvissuti, Todorov osserva che, all’interno dei lager, le regole sociali continuano a esistere, l’altruismo continua a avvicinare gli uomini gli uni agli altri. Questo perché, secondo Todorov, “gli esseri umani sono (…) portati a comunicare fra loro, ad aiutarsi, a distinguere il bene dal male”.
Questo tema ritorna anche in un libro recente, che non viene citato da Giulia Cosio ma che consiglio a tutti di leggere, Resistenti. Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia (Garzanti 2016). Todorov vi ha raccolto i ritratti dei suoi eroi – Etty Hillesum, la scrittrice ebrea morta ad Auschwitz, Germaine Tillion, la combattente francese antinazista e amica dello stesso Todorov, gli scrittori russi Boris Pasternak, Aleksandr Solženicyn, Nelson Mandela, Malcolm X, il pacifista israeliano David Shulman e Edward Snowden – rintracciando in ognuno di loro un’analoga “capacità di resistenza morale, non-violenta, all’ordine dominante”.
Il saggio di Giulia Cosio si chiude con un capitolo dedicato a un libro ancora non tradotto in italiano Le jardin imparfait, nel quale Todorov tesse l’elogio dell’umanesimo, polemizzando con la tradizione anti-umanista inaugurata da Heidegger nella sua celebre Lettera sull’umanesimo e continuata dalla filosofia francese degli anni settanta.
In Italia, Todorov è noto quasi esclusivamente per i suoi saggi strutturalisti e per il suo studio sulla Letteratura fantastica. Giulia Cosio lamenta giustamente che Todorov oggi è un “autore molto studiato ma poco conosciuto”. Non resta che sperare che La firma umana contribuisca maggiormente a diffondere la conoscenza del suo pensiero, tanto più utile e interessante, quanto più distante dagli estremismi e dalle circonvoluzioni intellettuali di tanti esponenti della cosiddetta French Theory, alla moda dentro e fuori le università.