Ricordo di Milan Kundera
Assieme a mia moglie Sandra conoscemmo Milan Kundera nel 1981. Nel 1979 avevamo fondato Edizioni E/O, casa editrice allora specializzata nei paesi dell’Europa orientale. Sandra aveva studiato Lingue e letterature slave con Ripellino, Ambrogio, Lo Gatto e altri importanti slavisti dell’Università di Roma. Io ero interessato alla storia e all’economia dell’URSS e del blocco sovietico, avevo fatto una tesi di dottorato sullo stachanovismo e ogni tanto scrivevo su Lotta Continua, grazie a Lisa Foa e ad Alexander Langer, sull’economia del socialismo reale.
La casa editrice pubblicò da subito sia saggistica che narrativa. Leggemmo alcuni articoli scritti da Milan Kundera, allora esule in Francia dalla Cecoslovacchia, su vari temi della storia e della cultura dell’Europa centrale. Ne restammo affascinati. Erano idee nuove che quasi nessuno, a destra e a sinistra, almeno per quanto ne sapessimo, aveva mai avanzato. Gli scrivemmo e, ottenuta una rapida risposta positiva, andammo a trovarlo a Parigi dove viveva a Montparnasse in un piccolo appartamento assieme alla moglie Vera. Ci accolse cordialmente. Era un uomo di straordinaria simpatia e intelligenza, molto spiritoso. Decidemmo di avviare una Collana praghese, dove avremmo pubblicato autori contemporanei e passati delle diverse minoranze linguistiche e culturali della capitale boema. Kundera era il direttore, sceglieva i libri, li discuteva con noi.
All’origine della collana c’erano varie idee formulate da Kundera in alcuni saggi. La prima era la visione di Praga come una delle prime e più importanti città cosmopolite di Europa. Vi avevano convissuto per secoli importanti minoranze: i cechi, i tedeschi, gli ebrei di lingua tedesca o ceca. Come Trieste e poche altre città europee, Praga aveva accolto le culture di queste minoranze, che si erano confrontate e arricchite a vicenda. Non c’era nessuna interpretazione idilliaca e nostalgica, ma solo la lucida constatazione di un fatto storico. In Europa occidentale all’epoca si conosceva sostanzialmente solo la componente tedesca di questo melting-pot. Anche un editore pioneristico come Adelphi pubblicava solo – a parte rare eccezioni – gli autori di lingua tedesca di quell’area geografica (Boemia e Moravia). L’idea di Kundera era invece di allargare la diffusione alle altre culture e lingue. Pubblicammo quindi senz’altro Max Brod (l’amico ed editor di Kafka) con il suo Circolo di Praga e l’ebreo-tedesco Leo Perutz (il geniale autore di romanzi fantastici); ma anche Bohumil Hrabal (l’altro grande narratore ceco contemporaneo assieme allo stesso Kundera con Treni strettamente sorvegliati, e Vitezval Nezval, autore surrealista ceco degli anni Trenta amico di Breton, con il suo romanzo fantastico Valeria e la settimana delle meraviglie; oltre a Ladislav Klima autore di un romanzo gotico e folle, I dolori del principe Sternenhoch. Poi proponemmo giovani autori contemporanei di lingua ceca, come Pavel Reznicek e Sylvie Richterova. Furono vere scoperte e regalarono ai lettori italiani il piacere di scoprire un mondo sconosciuto, eppure così importante per la nostra comune cultura europea.
Oltre alla visione di Praga come uno dei primi centri cosmopoliti d’occidente, Kundera mostrò in quegli anni come le letterature e le culture di alcuni paesi dell’Europa centrale (Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria e altri paesi), lungi dall’essere integrate nell’orbita sovietica e anche in quella russa, erano parte essenziale della cultura occidentale. All’epoca questa osservazione fu molto utile e lucida perché aiutò a liberarci da una visione ideologica ed errata della storia. Non solo gli autori e gli artisti del passato e della grande stagione mitteleuropea avevano partecipato della stessa atmosfera culturale del resto dell’Europa, ma erano ancora oggi dentro lo stesso mondo culturale (pensiamo anche al cinema, con alcuni grandi registi come Forman, Wajda, Jancso e molti altri). La divisione politica, simboleggiata dalla cortina di ferro, era una frattura importante ma transitoria, una separazione che creava sì delle specificità nelle culture dell’est e dell’ovest, ma che non eliminava la fondamentale unità della cultura europea. La distanza delle letterature di quei paesi non era solo dalle letterature sovietiche del realismo socialista, ma più in generale dal mondo russo, che aveva tradizioni culturali molto diverse. Pensiamo oggi all’attualità di questo approccio, anche alla luce della volontà dell’Ucraina di distanziarsi dal mondo russo, dalla sua mentalità, dalla sua vocazione assolutista.
Un altro apporto di Kundera al dibattito fu il suo rimarcare l’originalità della letteratura praghese, soprattutto attraverso la manifestazione dell’ironia praghese. Ne parlava molto in quegli anni l’altro grande scrittore ceco, Bohumil Hrabal, spiegando come questa ironia, così caratteristica della cultura boema e morava, fosse il risultato di un particolare rapporto dei praghesi con la Storia, un rapporto di distanza, d’irriverenza, di scherno anche. Di fronte ai potenti meccanismi della Storia, alla forza soffocante del Potere, molti autori praghesi, a partire dall’Hasek del Buon soldato Svejik, assunsero un atteggiamento di sfida, di beffa e d’irrisione. Ma ironia praghese significava pure mescolare nelle opere letterarie i registri alti e quelli bassi, la cultura alta e quella popolare. Anche nella selezione delle opere per la Collana praghese, Kundera privilegiò questo approccio. L’ironia praghese era quella capacità della letteratura praghese di mescolare la riflessione filosofica e metafisica con la quotidianità più banale (pensiamo a Kafka), la tragicità della condizione umana e del movimento storico con gli elementi più prosaici come il sesso, l’umorismo, la beffa, il rifiuto della politica, o almeno di una certa politica (pensiamo a romanzi come Lo scherzo o La vita è altrove di Kundera o Ho servito il re d’Inghilterra di Hrabal).
Kundera si è sempre difeso dalle semplificazioni, dalle mode. Temeva di essere etichettato come scrittore politico, dissidente, perché sapeva che quella lettura avrebbe impedito di cogliere le qualità principali della sua narrativa: la concretezza, l’ironia, l’anti-ideologismo. Anche quando raggiunse una notorietà mondiale, rimase schivo per questa stessa ragione, per la paura di essere frainteso, di essere manipolato dai mass-media, di essere banalizzato in qualche categoria a lui estranea.
Anche il suo voler rivedere le traduzioni dei propri testi (e pure quelle dei testi collegati alla Collana praghese) in maniera quasi ossessiva discende, almeno in parte, da questa paura di essere tradito, strumentalizzato dalle Ideologie. Perché, nella sua visione, le ideologie hanno questa potenza mostruosa di eliminare il concreto, la diversità, l’umano, lo scherzo.