Recitare per i bambini
di Roberto Frabetti. Incontro con Gianluca D’Errico e Dario Canè
Roberto Frabetti, autore, regista e attore di teatro per ragazzi e bambini, è il cofondatore della compagnia La Baracca e del primo centro teatro per ragazzi d’Italia.
La Baracca attualmente gestisce il Teatro Testoni di Bologna teatro stabile di innovazione che dedica la sua intera programmazione alle produzioni per bambini e adolescenti.
Come nasce un teatro stabile per bambini e ragazzi?
La compagnia nasce in un periodo particolare, la fine degli anni settanta. Sono sicuramente anni in cui a Bologna c’è un gran movimento di idee e la voglia di trovare strade che permettano di mettere insieme la passione e il lavoro. Nasce nel 1976: un gruppo di studenti, nessuna pretesa di professionalità . Si tratta, all’inizio, di una compagnia di burattinai, non da palco o da teatro di posa.
Vi racconto questo episodio. Nelle prime trasferte, soprattutto in Piemonte dalle parti di Alba, partivamo in cinquecento con il teatrino dei burattini sopra la macchina. C’era mia sorella che era cardiologa, allora non era in compagnia ma ci accompagnava, io ero al quarto anno di medicina e poi c’era un collega che era infermiere: uno staff medico…
Tornando da una trasferta incontriamo un incidente sulla strada, noi siamo stati tra i primi ad arrivare, scendiamo c’è una persona in uno stato shock, lo teniamo fermo, comincia ad arrivare gente: “ci vuole un medico”… “io sono un medico”, ma eravamo vestiti in modo improbabile – zoccoli ai piedi e tutto il resto -, nessuno ci considerava. Poi arrivano i carabinieri: “avrà sicuramente le costole rotte”, “ci vuole un medico”, e noi: “no, sta respirando normalmente non ha le costole rotte”… finalmente arriva un medico vero di quelli con la giacca e la cravatta, gli fa un
tranquillante, arrivano gli infermieri lo caricano legandolo sulla barella (per cui se avesse avuto le costole rotte gli avrebbero fatto un danno) e vanno via. Noi, fermi lì sulla strada, ci siamo detti: “ora, qui, dobbiamo dare un nome alla nostra compagnia” ed è venuta fuori La Baracca per sottolineare la provvisorietà totale della nostra condizione.
Era un momento molto favorevole; si poteva “entrare”, c’era poco o nulla nel nostro campo, quattro compagnie grosse. Il teatro ragazzi è nato in quegli anni: all’inizio degli anni settanta, con Passatore e l’esperienza dei parchi Robinson, ma nessuno era finanziato dal ministero.
Ci rendiamo subito conto che sul lato artistico rispetto ad altre esperienze, essendo noi totalmente auto formati, la differenza stilistica è considerevole. Ad esempio in quegli stessi anni Le Briciole (teatro di innovazione di Parma, ndr) partono con l’esperienza di Otello Sarzi già ad alto livello professionale. Allora da un lato ti rendi conto che tu avresti tanti gradini da scalare per raggiungere questo livello e dall’altro poi pensi che per te è importante il lavoro artistico ma è altrettanto importante il lavoro sociale. Creare lavoro per altri nel campo artistico per bambini, e avere interesse al tuo territorio, alla tua città, creare situazioni, relazioni. Per questo pensiamo ad un centro per ragazzi, all’inizio pensavamo ad un luogo polivalente per famiglie e bambini, con tanto teatro dentro. Poi ci chiediamo “perché non solo teatro?” e allora l’idea diventa un “centro teatro per ragazzi”. E cominciamo a lavorare perché a Bologna si individui uno spazio per questa idea.
Fondiamo la nostra cooperativa nel 1979. Nel 1982 nasce il centro Teatro San Leonardo che è il primo centro teatro per ragazzi in Italia. Poi ci sarà Parma. L’Emilia Romagna in pochi anni arriva a sei centri.
Lì c’è il grande salto: non siamo più una compagnia di produzione e basta ma anche una realtà che lavora su un territorio con continuità.
Siamo rimasti all’interno del teatro san Leonardo fino al 1995 e poi ci siamo trasferiti al teatro Testoni dove siamo adesso.
Perché si comincia a fare teatro per bambini?
All’inizio c’era il piacere di fare il burattinaio. Io ho cominciato a fare il burattinaio in una parrocchia alla quale era stata donata una muta di burattini da Emilio Frabboni, grande burattinaio bolognese.
Sul nostro cammino abbiamo incontrato Romano Danielli, altro grandissimo dei burattini, abbiamo un po’ lavorato con lui e sicuramente ci ha insegnato tante cose senza mai arrivare a livelli di “professionismo”. Danielli era uno dei pochi burattinai bolognesi che aveva voglia di sperimentare cose nuove, non fare solo cose tradizionali. E noi gli servivamo soprattutto per quello.
Per noi i burattini avevano però un limite: eri un po’ escluso dal rapporto con i bambini, era bello sentirli ma non avevi nessun rapporto forte. Per questo ad un certo punto passiamo al teatro vero e proprio.
Noi abbiamo cominciato con uno spettacolo che era proprio di Romano Danielli: era una favola rovesciata, un cappuccetto in cui il lupo è buono. Era uno spettacolo “misto” di burattini in cui cominciavi a venir fuori dalla baracca: lavori con i pupazzi però ti muovi anche fuori dalla baracca. Questo Cappuccetto rimane il nostro spettacolo di battesimo e quello in cui abbiamo cominciato ad entrare in contatto effettivo con i bambini. Esci e ti accorgi che è troppo bello vederli in faccia, i bambini.
Siete stati tra i primi a fare teatro per i piccolissimi, per i bambini dei nidi d’infanzia…
L’idea nasce da due educatrici dell’Ada Negri (nido d’infanzia di Bologna, ndr). Loro portavano i loro bambini a teatro per vedere gli spettacoli per le scuole dell’infanzia. Cose che si potevano fare un tempo: potevi prendere i tuoi bambini del nido, caricarli su due taxi, dieci dodici bambini, e venire a teatro. Adesso se lo fai ti arrestano. Una mattina io sono in teatro per guardare uno spettacolo del Teatro dell’angolo, passo lungo il corridoio e sento uno che mi chiama “dado!”, mi volto e vedo questi bambini piccolissimi, sono due in ogni poltrona. Mi chiedo “ma chi sono?” poi vediamo lo spettacolo e io guardavo questi bimbi attenti allo spettacolo. Parliamo con le educatrici che li avevano portati, in quel periodo avevamo una rivista che si chiamava Icaro, loro scrivono un articolo: “nella programmazione del San Leonardo ci piacerebbe che una volta ci sia scritto spettacoli per i nidi d’infanzia”.
In quegli anni il servizio 0-6 del comune era gestito da gente illuminata. Colgono la sfida con tantissimi dubbi e da lì pian piano nasce una relazione stabile.
Tutt’ora c’è chi pensa che sia un non teatro, che non esista il teatro 0-3…
Molti pensano ancora che lo 0-5 non sia possibile. Molti pensano che il teatro per bambini non abbia senso. Che questo teatro sia una specie di nicchia dove intratteniamo i piccoli ma che in realtà non sia teatro. C’è l’idea che chi fa teatro per bambini in realtà sia un animatore: una visione secondo cui i bambini si animano, non sono pubblico. Questa è una cosa che emerge anche dagli interventi di spesa sull’arte per bambini e l’arte per adulti. Sui bambini si investe un ventesimo, un trentesimo, rispetto agli adulti.
Io dico che il teatro per bambini esiste e come e richiede dei professionisti. Il teatro per ragazzi ha sempre avuto al suo interno due visioni. Una è quella secondo cui esistono le fasce per età e poi quelli che dicono che se il teatro per bambini è bello è per tutti. Io sono sempre stato dalla parte delle fasce d’età. Non solo esiste un teatro per bambini, ma se devi lavorare con una fascia d’età la devi conoscere, devi poterla frequentare, devi poterti accorgere che ogni bambino ha un suo ritmo. Io credo che le diverse età abbiano un diverso senso del tempo e dello spazio, quindi un diverso ritmo e allora io non posso pensare che il ritmo di uno di tre anni sia uguale a quello di uno di tredici. Può anche essere che uno spettacolo abbia diverse chiavi di lettura e – casualmente – funzioni per diverse fasce d’età però quando lo penso (lo scrivo, lo realizzo) deve essere uno spettacolo che nasce per una età precisa. Poi magari non ci hai preso…
Chi realizza lo spettacolo lo sente: i bambini di età diverse hanno diversi ritmi, son diversi i meccanismi comici, il volume che devi usare.
In alcune occasioni ti abbiamo sentito dire che non bisogna avere un’idea al ribasso dei bambini, ce ne spieghi il senso?
Io penso che se li frequenti i bambini non puoi avere una idea al ribasso di loro.
Leggevo un articolo sul momento in cui si acquisisce il senso logico-matematico, sarebbe un momento molto avanzato della crescita e sinceramente io ho delle perplessità perché le deduzioni dei bambini all’interno dello spettacolo sono spesso altissime a livello logico, le loro proposte, domande, hanno una solida struttura logica per quanto a volte facciano riferimento ad elementi che non sono reali.
Se tu frequenti i bambini non giochi più al ribasso. Purtroppo molto spesso, soprattutto nella scrittura, parliamo quindi di chi affida ad un testo la sua comunicazione, si pensa che il bambino abbia sempre bisogno di essere condotto; si ha una idea di soggetto che non è autonomo nel poter rielaborare quello che riceve e quindi i testi sono infarciti di “vieni, adesso ti porto qui”, “adesso ti mostro”, “adesso capirai”, “ti illustro”.
I bambini invece sono incredibilmente capaci di produrre elaborazioni personali diverse l’uno dall’altro e di sentire cose alte e profonde. Sono capaci di far coesistere le emozioni.
La complessità e la semplicità: quando si lavora con i bambini c’è sempre questa idea di dover essere in qualche modo riduttivi…
Bisogna essere semplici senza essere riduttivi. Devi essere semplice perché tutto sommato devi dare dei tempi, offrire un ritmo adeguato. Loro hanno una esperienza di vita dietro che è contenuta in termini di tempo vissuto. Quindi hanno bisogno anche di tempo e spazio in cui riprendere, riguardare, riprogettare. Se si bruciano questi tempi rendendo la struttura troppo “abbondante” di particolari, inserendo troppe “cose”, non si lasciano spazi di rielaborazione. Secondo me la pausa nel rapporto con l’infanzia è fondamentale. È il momento in cui non solamente lasci l’attesa ma è il momento in cui il bambino può costruirsi la sua storia, decidere dove andare. Se si tolgono questi spazi, gli si impongono tempi che sono forzati.
Come si costruisce l’attenzione di un bambino. Ci si affida a delle tecniche?
La loro attenzione si costruisce attraverso l’attenzione che tu hai nei loro confronti. Se non hai la più pallida idea di chi siano i bambini con i quali lavori, se non ti sei messo lì ad ascoltarli a cercare di capire che cosa desiderano, se tu non fai attenzione ai loro bisogni, loro non ti danno attenzione. L’attenzione la guadagni con il rispetto.
Poi esiste tutto un gioco che è fatto di pause, di tecniche, di spazi in cui possano rielaborare dove si sentano tenuti per mano ma non strattonati. Un po’ come nella relazione in generale con i bambini: loro hanno una gran voglia di giocare, correre con te ma non esiste che tu glielo imponga, devi in qualche modo dire: “la porta è aperta, volete entrare? Volete giocare insieme, vogliamo fare delle cose? Io ho delle idee”.
Se si accorgono che li stai considerando allo stesso livello, alla pari, io credo che a quel punto loro ti diano una attenzione straordinaria. Ma questo credo che valga in tutti i contesti.
C’è un passo di un libro di Korczak in cui lui dice che gli adulti hanno sempre l’idea di poter invadere lo spazio dei bambini, di toccarli, di accarezzarli…senza chiedere il permesso. Un attimo: io direi teniamo le distanze, entro se mi fai entrare non è che posso arrogarmi questa possibilità. Soprattutto con i più piccoli c’è questo alto livello di invadenza.
Con i bambini – quando reciti per loro – è un lavoro di sguardi, di ponti che crei, alla fine tutto rimane un gioco di grande rispetto; devi dare al tuo pubblico, anche a quello adulto, l’idea che in qualche modo stai recitando per ciascuno. C’è anche la capacità di non prenderli mai in giro, non sopporto ad esempio quando ad una domanda precisa, tecnica, si offre sempre una risposta fantasiosa.
Alla fine di alcuni spettacoli facciamo il gioco del buio con i bambini, calano le luci e pennelliamo il buio insieme, è anche bello, diventa un gioco di finzione. Ma se c’è una domanda precisa, “ Si, ma come fai veramente a fare il buio?” Dico: “Perché c’è Andrea che fa il tecnico, esiste un banco luci ecc.”.
Voi lavorate molto con le scuole. Tu che idea hai delle scuole? Sei un osservatore esterno, privilegiato, riesci a vedere delle cose che chi lavora all’interno non nota, magari preso dal quotidiano.
L’idea che ho della scuola è che sia un mondo che in questo momento è un po’ chiuso in sé. È un momento di crisi. Sicuramente la scuola ha preso dei colpi non da poco, l’ultimo sicuramente la riforma Gelmini. Di certo c’è questo aspetto che pesa, ma non è solo quello. La scuola ha perso quella dimensione di apertura, la capacità di vivere la città come grande luogo educativo. Sento molto spesso gli insegnanti stanchi, non tutti ovviamente. C’è tanta gente che ancora ci mette l’anima, però c’è una difficoltà in questo momento a costruire un’idea collettiva di scuola. Di che cosa dovrebbe essere di fronte ai cambiamenti: i nuovi italiani, le difficoltà dei rapporti con le famiglie…
Credo che la scuola in questo momento faccia fatica a far emergere, a rendere visibili, degli entusiasmi. Ci sono magari dentro i singoli, ma non c’è una visione e un agire collettivo. Mi piacerebbe fare dei riferimenti al passato. Il teatro ragazzi è nato negli anni 70, anni in cui c’è il Movimento di cooperazione educativa, la scuola è tutta alla ricerca del ‘fuori’, si crea il tempo pieno, a Bologna c’è Bruno Ciari. C’è una dimensione particolare in cui all’interno della scuola si aprono le porte: non abbiamo più la classe ma si parla di lavoro comune per età, per fasce, per progetti collettivi. E poi entra l’animazione. È la scuola che la chiede, non sono gli operatori esterni che la propongono. È così che nascono i laboratori d’arte, quelli di cinema, di teatro.
Forse c’era una simbiosi tra quelli che definiamo operatori esterni e gli insegnanti, vivevano in un contesto speciale, unico.
Una simbiosi culturale, sicuramente. C’è anche questa capacità della scuola di esprimere esigenze: “Abbiamo bisogno di altre professionalità.” Allora nascono le aule didattiche, gli spazi aperti, i musei concepiti in un certo modo. La scuola chiede stimoli da fuori, ma soprattutto prova ad offrire l’idea che la città è scuola. Si teorizza così, c’è tutto un movimento culturale a partire da Mario Lodi. Sicuramente adesso conserviamo delle cose, perché delle conquiste son state fatte. Ci sono degli insegnanti di altissima qualità, però credo sia difficile a volte lavorare se tu non senti che i colleghi sono con te.
Che rapporto c’è tra teatro e pedagogia?
Un vostro motto è: “una casa non si costruisce dal tetto, i ragazzi hanno bisogno di teatro.”
Cosa costruisce il teatro?
Io penso che il teatro sia pedagogico, nel senso che sicuramente è uno strumento come qualsiasi atto volontario nelle relazioni. Tutti i processi artistici hanno un ruolo pedagogico, perché tutti gli atti umani “forti” hanno funzione pedagogica. Il teatro però non dovrebbe mai essere didascalico. Non accetto l’idea che l’arte, compresa anche la letteratura, serva per essere didascalia, se non quando c’è una necessità importante di agire velocemente, quando c’è un’urgenza.
Con il teatro, con l’arte dici: siamo esseri umani, siamo in relazione, tanto più teniamo aperte le porte, tanto più siamo attenti l’uno all’altro, tanto più ci rispettiamo, tanto più capiamo che abbiamo un grandissimo bisogno di comunicare, di raccontarci. Racconto non perché abbia dei grandi racconti, ma perché mi piace raccontare. E allora so che anche a te piace raccontare, quindi teniamo aperte le porte alle storie. Credo che questa sia la funzione fondamentale e tra l’alto, col teatro ragazzi, diciamo che si possano tenere aperte porte anche tra soggetti di età diverse. E che i racconti sono tanti e che è giusto metterli in comune. Però non posso, come farebbe l’approccio didascalico, dire: “adesso ascolta, ti spiego come si fa.”. Un teatro di pace ad esempio secondo me passa attraverso un teatro di rispetto nel quale non ti spiego cos’è la pace ma ti lascio tanti dubbi; ti dico: “comincia a ragionare, la realtà non esiste, esiste una interpretazione della realtà”. Se tu suggerisci queste cose, io credo che un bambino che vive in maniera forte un’esperienza artistica, teatro o cinema che sia, cominci a chiedersi se non sia possibile anche costruire una dimensione in cui il piacere non sia dato dal governare gli altri, ma dal condividere, non legato al manipolare, gestire gli altri. Questo è un discorso sul potere. Credo che l’arte, se usata in un certo modo, ti possa portare in una dimensione di non-potere, perché la funzione è quella del ‘contatto’: se ti governo che piacere ho nel contatto? Se non ti lascio lo spazio di sorprendermi.
Chi lavora coi bambini secondo me ci arriva molto prima a questo ragionamento a differenza di chi lavora con gli adulti dove invece c’è il prestigio, la voglia di governare il pubblico, il piacere di essere acclamati.
In questo secondo me il teatro è estremamente pedagogico, ma dev’essere lasciato libero. Ciò vuol dire che quando fai il laboratorio non facciamo lo spettacolino finale, non facciamo la recita, facciamo dei percorsi, cerchiamo di fare in modo che tutti, con le loro diverse potenzialità, possano scoprirsi.
Perché poi nella scuola, o comunque nel rapporto con i genitori c’è sempre il problema di dover pagare dazio, di dover presentare ‘la recita’? Perché nella cultura condivisa c’è questa ansia del risultato e poca attenzione al percorso?
Anche nella didattica è sempre più così. Quando valuti delle attività è sempre più importante l’esito finale e non il percorso che ti ci ha condotto.
Il discorso della valutazione è molto complicato. Io ad esempio sono amante della matematica. Con la matematica apro dei mondi, posso attivare processi creativi, molto più dell’arte. Immaginare come si è creato l’universo attraverso la matematica è più creativo che costruire un bosco finto.
Secondo me comunque su certe cose è possibile non dico valutare fino in fondo – devi mantenere sempre l’idea che possa essere sbagliato il metro di valutazione – ma almeno capire come si stanno svolgendo i diversi passi del percorso. Quando parliamo di sensibilità, no. Io credo ad esempio che le proposte artistiche nella scuola debbano essere dichiaratamente non valutate. Perché lì il mio lavoro è creare un ambiente in cui tu svilupperai le tue competenze, anche quelle valutabili. Ma se io non riesco a creare questo contesto, se io continuo a lasciarti la paura del foglio bianco, la paura di esprimerti attraverso la scrittura, che cosa valuto in italiano? Solo se io creo quel contesto posso poi valutare e correggere, anche fino in fondo.
Sempre dal tuo osservatorio: i bambini, come li vedi? Il rapporto che hanno con la città, con i genitori, e più in generale il modo in cui sono “trattati”…
Non esprimo giudizi ma impressioni. Non ne sarei qualificato. Io guardando da questo luogo (il teatro ndr), vedo che c’è una crescita nell’attenzione di molte famiglie, nel portarli ad esempio a teatro. In questi ultimi anni, una cosa che mi colpisce è che ci sono genitori che vengono a teatro coi loro figli, non li accompagnano semplicemente. Che amano creare un momento da condividere. C’è poi la crescita impressionante dei babbi che vengono. Tanti. Da un lato c’è una grande crescita di coscienza delle potenzialità dei figli, dall’altro lato trovi invece genitori che dicono: “li porto al laboratorio di teatro il lunedì, perché poi al martedì vanno a quello di danza, mercoledì vanno in piscina e così via”. E quindi è solo una gestione del tempo.
Ti chiedi per quale ragione ad esempio la città sia sempre meno vivibile per i bambini, meno accogliente. Non li vedi più i bambini che girano da soli. Di questo ce ne siamo resi conto tutti quanti, la conseguenza è che un bambino è sempre un po’ più condotto, più guidato, meno autonomo. In questa situazione un bambino fa fatica a sentirsi rispettato e in lui un sentimento che può nascere è quello di rivalsa. Penso all’educazione di genere, a quella interculturale: ad un bambino fai fatica ad “insegnare” il rispetto per il diverso perché lui stesso non si sente rispettato. Questa società, secondo me, ha capito tante cose teoricamente, ma poi non sa più ascoltare molto, facciamo fatica a stare zitti. Cercare di capire, cogliere le particolarità: ecco, in questo, secondo me, c’è una grande tensione, genitori che vogliono fare bene il loro mestiere in città che sono sempre meno accoglienti.
Credo però che i fenomeni non vadano mai in una sola direzione. Adesso sembra paradossale, però in un momento in cui c’è un incremento spaventoso di violenza sulle donne da parte dei compagni, vedo tantissimi uomini che invece vivono la paternità con molto più piacere e passione e grande presenza. E’ difficile dire se stiamo andando solo in una direzione. Siamo in un mondo molto complesso.