Realtà, miti e chimere
![Illustrazione di Lufo (Luca Longi)](https://gliasinirivista.org/wp-content/uploads/Asini_Lufo_GS_02-1024x715.jpg)
L’enorme talpa che scava sotto Roma per la costruzione della metropolitana buca un antico palazzo imperiale. I lavori, frenetici e brutali, si fermano. La scoperta archeologica pare incredibile, ma l’ingresso dell’aria fresca, dopo duemila anni di clausura totale, cancella irreparabilmente le pitture romane. Tutto è perduto. In Roma di Fellini (1972) lo sviluppo della modernità non è compatibile con la classicità, il filo è tragicamente spezzato. Questa scena sembra vivere interiormente ne La chimera, ultimo film di Alice Rohrwacher, ma anche nei suoi precedenti, come una domanda viva e densa di inquietudine. Il filo è letteralmente calato dal mondo di sopra al mondo di sotto, dimensioni che per una volta corrispondono a condizioni ribaltate, perché di sopra vive l’immagine di una giovane ragazza morta prematuramente e di sotto, in una tomba, si muove disperato come una bestia in gabbia un uomo ancora vivo. Siamo nel terreno dei sogni, ma quelli fatti alla maniera degli antichi, cioè pieni di premonizioni e archetipi. La giovane ragazza, chiamata Beniamina, nomen omen, tira il filo per salvare il suo amato e somiglia a una sorta di Euridice, ormai creatura dell’aldilà, alle prese con un Orfeo confuso, incapace di cantare la sua poesia, per un mondo pieno di reti da cui è arduo liberarsi. Oppure potrebbe essere un’Arianna, che tira quel filo nella speranza di trovare un’uscita dal labirinto.
Nel film precedente Lazzaro felice (2018) la realtà sembrava mossa da un motore fiabesco, con un esito sorprendente, perché non era la realtà a farsi fantastica, ma la fiaba – sulla scorta di Calvino – «ad essere vera», perciò anche le soluzioni più fantasiose rientravano sempre nel campo dell’autenticità del sentimento e della conoscenza di riti antichi e perduti. Anche in quel caso la paradossale successione temporale, dalle epoche della mezzadria alla contemporaneità, sollevava questioni brucianti sul “grande inganno” dello sviluppo economico, sulla fine del mondo contadino, mescolando lo “sguardo bovino e silvano” della Resurrezione di Piero della Francesca, riaffiorante nel volto del protagonista, a certe acrobazie della miseria nelle atmosfere di Miracolo a Milano.
In quest’ultimo lavoro la regista alla fiaba sostituisce alcuni miti, mescolandoli e rendendoli archetipi potenti per creare sovrapposizioni inconsuete e indispensabili tra passato e presente. Il passato è quello degli etruschi, popolo di straordinario fascino, considerato degenerato dai Romani perché era solito mangiare addirittura due pasti al giorno e per di più in compagnia delle donne, che avevano grandi diritti e responsabilità. Molto più civili dei romani, gli etruschi hanno lasciato una miriade di tombe sparse nell’Italia centrale che da sempre sono state depredate da gruppi di tombaroli.
Fino a tempi relativamente recenti era piuttosto facile trovare dagli antiquari cocci e vasellame provenienti dalle tombe etrusche, senza contare il mercato illegale dei beni più preziosi, solitamente indirizzato all’estero. Il presente del film è un passato prossimo, circoscrivibile più o meno agli inizi degli anni Ottanta, il decennio in cui più forte si manifesta quella “mutazione” denunciata da Pasolini anni prima, segnata dall’omologazione e da una rottura violenta con le radici. È questo il cuore del problema che batte, in forme differenti, in Le meraviglie, in Lazzaro felice e in quest’ultimo film. Rinunciare alla dimensione del passato remoto, ai classici, a una costante domanda sul “da dove veniamo?” è la ferita più profonda della contemporaneità. I tre film mettono il dito in questa piaga, ma non si abbandonano a un cupio dissolvi, bensì si ostinano a ricostruire forme di sopravvivenza, di temporanea rimarginazione.
In Le meraviglie (2014) il rapporto con i classici passa da una domanda rivolta al concetto di rappresentazione. Una famiglia partecipa a uno show televisivo di un canale regionale travestendosi alla moda etrusca, cioè mezzi nudi, per promuovere così i prodotti alimentari del territorio, principalmente salumi. La televisione cattura l’immagine patetica di questi adulti che si fingono etruschi, in una pacchiana spettacolarizzazione del passato. Al contrario due ragazzini, con un’azione performativa, costruiscono un’immagine poetica e misteriosa, che rimanda al mondo delle api e a chissà quale divinità. Neppure conoscono il mondo antico, ma in qualche modo lo sentono dentro. In Le meraviglie questo rabdomantico rapporto con il tempo remoto si manifesta nello sguardo dell’infanzia, capace di cogliere in maniera istintiva l’essenza delle cose.
In La chimera è la capacità rabdomantica di Arthur a creare un filo con il passato, ma questo non sarebbe sufficiente senza un’operazione di risveglio scatenato dalla giovane Italia, una ragazza che si indigna di fronte alla spoliazione delle tombe e che chiama la polizia. L’indignazione di questa giovane ragazza, già madre di due bambini, impegnata in lezioni di canto da una ricca signora costretta in una sedia a rotelle (Isabella Rossellini), che la tiene come una serva, ha a che fare con lo scandalo della dissacrazione.
Anche se oggi è impossibile capire quale sia il senso di seppellire tanti oggetti di pregio in una tomba, pensando che possano servire al defunto nell’aldilà, ciò non vuol dire che tutto quanto sia solo merce da trafugare, vendere, rovinare. Questo tipo di indignazione fa venire in mente il disappunto, raccontato nella prima scena del Giardino dei Finzi Conti di Giorgio Bassani, di una bambina, in visita alle tombe di Cerveteri, che si commuove per la morte degli etruschi. «Ma sono morti da migliaia di anni, da così tanto tempo che è come se fosse un popolo fantastico», le viene risposto, come per cacciare lontano i pensieri cupi. E invece no, si oppone la bambina, la compassione può attraversare i secoli, anzi li deve attraversare per poter mantenere una profonda dimensione umana.
Il risveglio di Arthur dalla vita di misero tombarolo avviene grazie a Italia. Tra i due scorre complicità e attrazione. Si riconoscono, ma non possono amarsi, anche se ugualmente il pezzo di strada che compiono assieme è per entrambi salvifico, almeno in una comune presa di coscienza. È l’unico punto in cui universo maschile e femminile si incontrano in maniera positiva (l’altro è il rapporto di Arthur con l’anziana signora, sempre all’insegna non di una ragione specifica, ma di una sensibilità comune), per il resto maschile e femminile vengono incarnati da gruppi che si vogliono autosufficienti, maschilista e greve, quello dei tombaroli, utopico e solidale, quello della piccola comunità che si riunisce attorno a Italia, occupando una stazioncina ferroviaria abbandonata e trasformandola in casa comune. Ma l’ampio ventaglio delle figure femminili offre anche esempi assai negativi, come la trafficante di oggetti d’arte all’estero, inserita nelle economie dei grandi musei e fondazioni bancarie, e come le figlie dell’anziana signora, interessate ad accaparrarsi un po’ di eredità, vendendo il palazzo avito e spedendo la madre in ospizio.
I temi affrontati dal film sono davvero tanti, stupisce la densità non solo della narrazione in sé, ma anche di come questa viene condotta. La ricostruzione minuziosa della provincia italiana dei primi anni Ottanta, con un’attenzione impressionante ai costumi, agli ambienti, ai manifesti pubblicitari appesi sui muri delle strade, permette allo spettatore l’immersione di una condizione di forte realismo, che non ha bisogno di patine, ma è un realismo bizzarro, perché è ad alta intensità. È un passato quasi uguale a come uno se lo può ricordare, ma non uguale. L’impressione è che ogni dettaglio, pur nella naturalezza della rappresentazione e nella sua sottile e persistente trasfigurazione, sia portatore almeno di un doppio significato. Dalla realtà si oscilla verso il simbolo, il racconto allarga i confini sfiorando l’allegoria, la storia sembra un abito indossato dal mito. Ma tutto si tiene. In un equilibrio sghembo, a tratti disarmonico, come corpo unico. E l’irregolarità consente che il film non si risolva direttamente nella trasposizione di un mito o di una fiaba, piuttosto ondeggia sfocato, provocando dubbio e poi meraviglia, che sono, dai tempi della Grecia, le scintille che innescano un processo di conoscenza.
In questa ricerca di senso c’è un atteggiamento che ha che fare anche con il teatro dove se nel primo atto, diceva Cechov, si vede un fucile appeso alla parete, state certi che negli atti successivi verrà utilizzato. Ne La chimera la giustificazione di ogni dettaglio risiede nella stessa costruzione di un mondo policentrico, che mette a fuoco anche dettagli secondari, offrendo così spunti per variegati percorsi di approfondimento. A tratti sembra di guardare un quadro di Bruegel il Vecchio, come quello che rappresenta sullo sfondo una larga distesa di mare con un veliero illuminato dal sole. In primo piano un contadino sta arando il terreno con un cavallo al giogo e più sotto un pastore col cane sta facendo pascolare un gregge di pecore. Sono i personaggi principali. Ma in basso a destra c’è un uomo che sta affogando. È Icaro, caduto per essersi avvicinato troppo alla luce del sole con le sue ali di cera. Il vero protagonista del quadro è lui, ma appare totalmente in secondo piano. È lo sguardo dello spettatore che lo deve scoprire. L’indifferenza del mondo, o l’inesorabilità della fatica umana, viene esplicitata dalla presenza di un teschio umano fra le frasche, un’allusione al proverbio fiammingo «nessun aratro si ferma perché muore un uomo». Nemmeno se questo si chiama Icaro e ha tentato di volare. L’immagine diventa un’avventura.
Ogni cosa rappresentata significa esattamente quella cosa, ma in forma velata rimanda a qualcos’altro. Una realtà bifronte che necessita di osservazione e attenzione, ma che regala sorpresa e conoscenza. Così in primo piano abbiamo un gruppo di tombaroli, alla ricerca dei tesori dimenticati, e un giovane nevrotico e rabdomante. Sullo sfondo il mondo degli etruschi, misterioso e affascinante. La narrazione sembra procedere anacronistica seguendo vicissitudini lontane dagli interrogativi del presente. Poi le chimere di Arthur da sogni vani rimandano al leggendario mostro etrusco e il volto amato e perduto della giovane donna brilla nella testa decapitata di un meraviglioso complesso statuario destinato al contrabbando straniero. La realtà si mescola alla poesia e viceversa. Quel che sembrava lontano improvvisamente ci rivela qualcosa di oggi, ma in modo profondo e intimo, quasi filosofico. Il tempo è fuori dai cardini e il film, scegliendo un minuscolo pezzetto di realtà, lo racconta molto bene. Per un attimo, come un’epifania o uno scherzo, vediamo o sogniamo quel filo che potrebbe riportarlo in sesto.