Ramondino, l’infanzia

Nata nella Clinica Internazionale di Napoli il 31 agosto del 1936 e dopo pochi mesi approdata in Spagna: inizia subito il destino cosmopolita di Fabrizia Ramondino, inscritto perfino nel nome dell’ospedale in cui ha visto la luce, in una bella stanza con vista su Capri. La sua prima patria non è la caotica, mediterranea Napoli. Gli anni più luminosi e fantastici della scrittrice sono i primi sette, trascorsi a Maiorca. Il padre diplomatico è tornato a Napoli dalla Cina nel 1934, ma poco dopo la nascita della primogenita deve ripartire, stavolta con la famiglia, per la Spagna, dove resterà fino al 1943 e dove nasceranno i fratelli di Fabrizia, Giancarlo e Annalisa.
Prima delle ombre della guerra, del ritorno a Napoli e del rifugio in costiera sorrentina, di cui racconterà in Althenopis – il suo libro più noto e più amato – la scrittrice napoletana ha il tempo di assaggiare la vita attraverso l’universo fiabesco e sensuale di Maiorca. Pochissimi scrittori riescono, come Fabrizia Ramondino, a restituire con assoluta autenticità pensieri e gesti dell’infanzia, non rievocata come un tempo lontano, ma condizione esistenziale ancora bruciante nelle pieghe dell’io. Per questo è assai meritoria l’impresa di Fazi, che riporta in libreria, con una bella prefazione di Nadia Terranova, Guerra di infanzia e di Spagna, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 2001.
La casa di Son Batle, per la scrittrice, è materia di diverse rivisitazioni letterarie, a partire dai racconti di Storie di patio (1983), una parte dei quali confluisce nel romanzo del 2001, dove l’alter ego di Fabrizia è Titita. La bambina racconta in prima persona la sua esperienza del mondo, a partire dalla casa, dal giardino e dai campi, territorio di infiniti giochi con il fratello Carlito e poi con la sorellina più piccola, Anita. Un territorio incantato ma anche feroce, dove prevale il legame animistico con la terra, gli animali, la natura tutta. Il mondo dei grandi è invece distante e spesso irraggiungibile appare la mamma, che “si vestiva di fremiti come una falena”. Una inarrivabile figurina muliebre, il cui corpo del resto viene definito asettico e fragile anche in Althenopis.
Più presente e carnale il legame con la tata Dida, sapiente e pratica, dispensatrice di affetto e nutrimento. Capace di magie quotidiane, per esempio rendere vivi gli oggetti, come i soldi accuratamente piegati in seno, da dove escono “caldi, fragranti come caldarroste”. La tata offre a Titita il grande abbraccio protettivo di cui la bimba non dubita: dopo una dura lotta con la madre per poter andare a casa di Dida, alla fine la spunta. Solo allora Titita scende dalle braccia della donna alla quale si era attaccata e si avvia trionfante con lei, “sicura di non venire più rapita”. Con i coetanei invece Titita incrocia sguardi obliqui e inquisitori: per esempio, di fronte a una bambina sconosciuta, dice, “ce ne stemmo l’una di fronte all’altra ciascuna perduta nel segreto dell’esistenza dell’altra”.
Non è un atteggiamento nostalgico quello che anima la scrittura di Ramondino quando tocca il mondo edenico di Son Batle. Piuttosto è una visione del mondo, una weltanschauung che connota tutta la sua poetica. Il punto di vista dei bambini ha qualche tratto oracolare, c’è una vista lunga, una più acuta percezione dei sensi che l’adulto non possiede o smarrisce, almeno in gran parte dei casi. Non nel suo evidentemente: anche da adulta Fabrizia è stata, ad esempio, una grande raccoglitrice di pietre, sassolini, foglie, come i bambini; ha continuato ad avere un’attenzione al minimo gesto, all’espressione dell’interlocutore, a certi sentimenti inespressi. Eppure questa sua vicinanza alla prospettiva infantile non si traduce nell’ammirazione incondizionata verso un’età che la scrittrice riconosce anche capace di essere cattiva, indecente. Un’età in cui ciascun individuo può cadere preda di timori panici ed ellissi di senso. I bambini di Fabrizia Ramondino hanno una loro inconfondibile voce e vanno ascoltati, in un dialogo proficuo e paritario con l’adulto. Non c’è mai paternalismo, ma una inesauribile empatia.
Nell’infanzia di Titita, poi, ci sono momenti in cui si aprono squarci sul futuro o si compiono destini. In Storie di patio e poi in Guerra di infanzia e di Spagna il padre dice alla figlia con fare assertivo: “Tu da grande diventerai bibliotecaria!”, segnando un futuro da persona “istruita”, non semplice madre di famiglia o dama mondana. Concetto ripetuto nel Libro dei sogni: “Mio padre quando avevo sei anni mi disse: tu diventerai bibliotecaria” e in Althenopis, (dove viene considerato un lavoro assai poco allettante). Del resto sia per parte materna sia paterna Fabrizia Ramondino veniva da una ferrea tradizione di studi. Non solo per il padre orientalista, ma anche per certe aspirazioni materne, poi rimaste irrisolte. Pia Mosca, donna coltissima, educata alla scuola svizzera di Napoli, avrebbe voluto frequentare l’università ma non riuscì. “Il viaggio che mia madre non fece era solo da via Tasso all’Università: a causa dei suoi privilegi di classe – le avevano fatto frequentare la scuola svizzera e il titolo finale non era valido in Italia – non poté accedervi. Avrebbe voluto studiare chimica, l’affascinava la cattedra della Bakunin” (da In viaggio).
Il rapporto con il padre, d’altro canto, resta un tema che percorre sottotraccia gran parte della scrittura di Ramondino, anche come “rimosso” o come oggetto di gelosie. Lo conferma la stessa scrittrice nell’intervista rilasciata a Franco Sepe, quando racconta che Natalia Ginzburg stava leggendo il suo romanzo, Althenopis e le consigliò di ampliare le pagine dedicate al padre. E lei pensò senza osare però dirlo: “Non ti rendi conto che non si tratta di ampliare o migliorare la descrizione di un personaggio, ma che si tratta della rimozione di un trauma profondo”. Il riferimento è alla precoce morte del console, avvenuta davanti agli occhi della figlia adolescente e della moglie, negli anni francesi.
Ne Il libro dei sogni poi l’autrice parla di M (il marito) che “mi aveva privato del suo amore, come mio padre quando partimmo dalla Spagna e che a me preferiva mia sorella, più femminile”.
L’amore per il padre è esplicitato nel delizioso racconto Fidanzamento in Storie di patio, ripreso per intero in Guerra di infanzia e di Spagna. Compare qui un’attitudine elencatoria di Fabrizia Ramondino, più analitico-illuminista che barocca, che si ripeterà in altre occasioni, per esempio nel racconto delle liste di oggetti messi in valigia alla vigilia di ogni partenza. Nel romanzo del 2001, l’elenco riguarda una serie di doni.
Nella quotidianità dei giochi può capitare che arrivi una malattia. Titita si ammala di polmonite e durante la convalescenza gode delle attenzioni e dei regali del padre. Nella prospettiva della bambina ammalata e poi convalescente è spudorata e innocente al tempo stesso. La bimba non dubita che quelli di Papito siano doni di fidanzamento e ne mette in fila pregi e difetti con praticità spiccia (si sofferma sul possibile utilizzo dell’oggetto, ad esempio: un cane di porcellana, un’enorme tartaruga meccanica, una scatola per il cucito). Ma esibisce pure una sognante immaginazione con la quale trasfigura ogni regalo secondo il suo ruolo di “fidanzata”. È sorprendente la capacità di Fabrizia Ramondino di assumere con assoluta naturalezza un punto di vista orizzontale rispetto al suo personaggio. La scrittrice racconta con lo stesso sentimento della bambina, che crea universi fantastici, ad esempio, nella stanza dove è stata collocata per la cura, paragonata a una sorta di arcipelago. “C’era tanta acqua attorno alle terre che emergevano come fronti pensose: il letto, un grande continente; il comò, con sopra i vari giocattoli e i dolci che le regalavano, una terra esotica e popolosa; isolette, irrisorie e dimenticate, le sedie; uno scoglio pericoloso, con sopra il faro, il comodino”. Un’immagine che rasserena la piccola malata.
Del resto, la casa di Son Batle resta per tutta la vita un paradiso perduto, mentre quella di Massalubrense (in Althenopis) ha spazi assolati ma anche larghe zone d’ombra. Il vero irraggiungibile luogo della più intensa e vitalistica esperienza esistenziale è Son Batle, dove perfino il cattivo tempo ha un sapore magico: “Fuori intanto la pioggia tamburellava piano sui vetri, sembravano le dita del giardino che bussavano alla finestra”.
La seconda casa spagnola, quella di Porto Pi, che compare alla fine del romanzo, non viene amata come la prima: “Quella prima casa è sempre stata per me, nonostante le esperienze tragiche di ogni infanzia, il paradiso perduto e l’ho rivista molte volte in sogno, vuota di abitanti e di cose, mentre ne invocavo il nome e mi disperavo”. E a Son Batle Fabrizia torna nel 1979, quasi per caso, durante una vacanza. Lo racconta nella raccolta In viaggio. Nel Natale del 1979, “racimolati non so come i soldi per il viaggio”, il desiderio di rivedere i luoghi dell’infanzia prevale. “Tornai a Maiorca. Non riconoscevo più la costa, stuprata da enormi edifici in cemento fin sulla riva del mare. E nessuno conosceva quella casa, di cui solo sapevo che era dietro il Castillo de Bellver. La trovai, come un cane, col fiuto, andando a piedi di villaggio in villaggio e chiedendo di osteria in osteria. Ricordai all’improvviso che si trovava accanto a un cimitero. Questo cimitero era noto. Finalmente la vidi. Né mia figlia né gli amici che erano con me erano in grado di condividere la mia emozione, tranne Meri, un’amica peruviana, lontana dalla sua terra da molti anni, e che cominciò a raccogliere bacche dagli alberi e dai cespugli, foglie rare, semi, che osservava amorosamente – quasi mi offrisse il significato di quel ritorno, quello alle origini naturali, alla vera unica patria, quella dell’infanzia, e quasi avesse saputo che quelle bacche, quei semi, quelle foglie, erano stati i miei primi giocattoli, poi sempre preferiti agli altri”. Una materia umile ma incredibilmente ricca al tempo stesso, oggetto di ammirazione e di conforto per la scrittrice, cercata e trovata anche in dimore successive, ornamento e lusso fino alla fine della sua esistenza, capace di catapultarla con forza verso la sua prima terra perduta.
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