Quanto contano genere e classe
Nel 1977 il sociologo Paul Willis pubblicava Learning to labour. How working class kids get working class jobs. Il libro era l’esito di un’intensiva ricerca etnografica condotta tra i figli della working class inglese, quelli che nel libro Willis chiama lads, una ventina di ragazzi terribili caratterizzati da una forte cultura oppositiva ai modelli e ai valori dell’istituzione scolastica ma anche alle sue promesse di mobilità sociale.
I ragazzi più resistenti alla cultura scolastica, secondo Willis, consapevoli dell’impostazione classista della società e quindi anche della scuola, e permeati di una identità operaia appresa attraverso i modelli familiari, rifiutando la scuola sceglievano la fabbrica e tutto il mondo identitario e culturale a essa connesso, pur rinsaldando essi stessi con questa scelta la struttura classista della scuola attraverso la propria volontaria autoesclusione.
Willis con le sue ricerche sosteneva una tesi in contraddizione con le teorie della riproduzione sociale allora dominanti spiegando come il processo di riproduzione di classe non agisca solo dall’alto e non sia messo in atto solo dalle istituzioni, ma anche dal basso e proprio dai soggetti che ne sono colpiti. La scelta di rimanere all’interno del perimetro dei propri habitus di classe per i lads non è irrazionale né masochistica e ha una triplice funzione: è una strategia di protezione dai fallimenti a cui li condanna la scuola; è una dichiarazione di cinico disincanto verso una istituzione scolastica che presenta se stessa come luogo di emancipazione e uguaglianza; è la base per costruire una narrazione contro-egemonica di sé dentro un mondo che li rappresenta deboli e perdenti. Su quest’ultimo aspetto Willis chiarisce come la sottocultura antiscolastica dei lads – descritti come delle irriducibili canaglie sempre in vena di scherzi pesanti e spacconerie – sia inoltre intrisa di razzismo, sessismo e omofobia e impegnata a costruire un modello di virilità non svalorizzato dalla subalternità di classe.
La ricerca di Willis è ancora esemplare a distanza di molti anni perché descrive, senza tentazioni di redenzione né proiezioni chimeriche, le contraddizioni della cultura dei ragazzi di classe popolare, accettandone i punti di vista e sforzandosi di comprenderli sul serio all’interno dei contesti materiali – politici, sociali e culturali – in cui essi vivono piuttosto che preoccuparsi della loro corrispondenza ideologica a una certa immagine romantica delle culture della working class.
Se volessimo costruire un confronto con questa ricerca e analizzare oggi qual è il rapporto che le ragazze – soprattutto quelle di cultura popolare e renitenti alla scuola – hanno con il lavoro e con la propria identità e immaginario di classe, vedremmo che pur nelle molte differenze, anche per loro il rapporto fra scuola e lavoro è al centro di un processo contraddittorio di costruzione di sé e dei significati sociali della propria femminilità, come lo era per i lads la propria identità virile. Per capire la questione e i vissuti delle ragazze nelle scuole professionali basta forse osservare alcune storie.
Ivonne ha 15 anni, è ancora in terza media ed è in dispersione scolastica. Ci viene segnalata in un percorso antidispersione che comporta lo svolgimento di alcuni laboratori artigianali e artistico espressivi fuori dalla scuola, il tentativo è quello di farle superare la scuola media e favorire il suo passaggio nella scuola superiore. O meglio in un Centro di formazione professionale, perché Ivonne della scuola non vuole sentir parlare. Durante i laboratori artigianali di fatto non combina niente, però le piace scrivere e disegnare ed è un elemento di grande aiuto nello stemperare le dinamiche di conflitto fra gli altri ragazzi inseriti nei laboratori: tutti suoi coetanei e abitanti nello stesso quartiere. Certe volte solo Ivonne sa come calmare gli animi: è rispettata dai ragazzi e nonostante abbia la loro età è considerata come una donna adulta, sa tutto di tutti, sa come prendere per il verso giusto tutti, è in grado di intavolare lunghe discussioni con gli educatori trattandoli da pari. Certe volte penso che dovremmo pagarla come operatrice in questi laboratori.
Il suo orientamento scolastico è un capolavoro di contorsionismo mentale dal mio punto di vista e suona più o meno così:
Ivonne: fra qualche anno mio zio mi farà gestire il suo negozio.
Io: potresti fare il corso per operatore del punto vendita o un corso turistico dove potresti imparare più lingue dato che tu ne conosci già diverse.
Ivonne: sì ma siccome poi a stare in negozio imparo lavorando, potrei farmi un anno a scuola di operatrice alle cure estetiche…
Io: uhm ma che c’entra? Non vuoi fare l’estetista o la parrucchiera…
Ivonne: sì ma così mentre aspetto di lavorare al negozio di mio zio faccio qualcosa che mi interessa.
Arriva l’estate, Ivonne rimane incinta e decide di non tenere il bambino, la sua scelta è dolorosa e la manda molto in crisi. Arriva settembre, ci sono i postumi di questa gravidanza mancata, la scuola va male. Poi arriva il Covid. Ivonne smette di andare a scuola. Arriva di nuovo l’estate, Ivonne ha un bambino, il padre non pervenuto. È contenta, vende on-line prodotti cosmetici e la sua casa è sempre quel via vai di chiacchiere e notizie del quartiere.
Nevrie si era voluta iscrivere in una scuola tecnica, era l’unica che si era ribellata al destino dell’orientamento da parte delle scuole medie del quartiere verso la scuola professionale. Tre anni di ripetute bocciature. Passa l’età dell’obbligo scolastico, in famiglia la guardano male perché la casa è affollata – ci vivono in 17 persone – i soldi sono pochi e lei è la figlia più grande. Si rifiuta di provare un percorso di qualifica professionale. Ha preferito andare a lavorare ma siccome un lavoro senza qualifica per lei non c’era, è stata arruolata in uno di quei lavori-truffa per agenzie immobiliari: ti pagano nella misura in cui trovi appartamenti che riesci a vendere o a dare in affitto. La vedevo uscire di casa con giacca e pantaloni e camicia bianca e una borsa stile 24 ore. Dopo alcuni mesi aveva abbandonato il finto lavoro per il quale non aveva mai ricevuto alcuno stipendio e si era ritirata in casa, un po’ in depressione, a fare la serva per la sua famiglia al servizio dei nonni, dei fratelli maschi, dei nuovi nati. A 20 anni si è sposata con un matrimonio combinato dalla famiglia ed è andata in Germania.
Per le ragazze che scelgono oggi le scuole professionali o la formazione professionale all’identificazione con la classe popolare non corrisponde nessun senso di appartenenza a una comunità – se non a quella del quartiere/territorio in cui si dispiega il proprio quotidiano – né una chiara identità attraverso le culture del lavoro di cui hanno esperienza attraverso la famiglia, come per i lads di Willis. La comunità è stata infatti frammentata dalla pluralità delle esperienze migratorie e dalla difficile ricomposizione di un fronte di classe all’interno delle lotte tutte individuali delle famiglie per l’accesso al welfare e alla casa.
Ugualmente difficile è per queste ragazze riconoscersi con orgoglio come lavoratrici nel mondo precario e intermittente del terziario a bassa qualifica. Il conflitto con la cultura della scuola si configura quindi per loro come la distruzione di ogni, seppur flebile, ribellione al proprio destino di classe ma anche personale. I loro modelli culturali di femminilità sono un importante deterrente alle carriere scolastiche e l’identificazione con una ipersessualità etero femminile che le spinge a costruirsi come desiderabili e affascinanti, sembra essere l’unico status per loro raggiungibile. D’altronde è lo stesso mondo del lavoro a loro destinato che o mette a valore un corpo femminile che deve presentarsi come rassicurante, bello e accogliente o lo ipersessualizza nel continuum che c’è per le donne sui luoghi di lavoro fra sfruttamento, disciplinamento e molestia. E allora meglio per le ragazze giocare la propria femminilità nel mercato sentimentale, dove romanticismo e desiderio di realizzarsi come fidanzate, mogli e madri sono il tentativo di costruire una linea di difesa intima e di preservazione di sé.
Il genere, maschile o femminile, i significati e le aspettative sociali a esso attribuiti e la classe si intrecciano e pesano in modo molto forte nell’arena scolastica, soprattutto per i ragazzi e le ragazze che si indirizzano alla scuola professionale, dove la correlazione fra mondi del lavoro, possibilità di impiego e gerarchie sociali producono effetti concreti sullo spazio non neutrale dell’istruzione/educazione/formazione.
Esistono scuole ”femminili” che preparano ed educano a un modello di femminilità socialmente accettabile nel mondo del lavoro e sono trasversali alle classi sociali: i licei umanistici ex magistrali che preparano alle professioni nel campo della cura e della scuola ne sono un esempio. Nelle scuole tecniche e professionali la segregazione di genere è fortissima e le ragazze sono orientate in percorsi che corrispondono agli stereotipi del lavoro adatto alle ragazze di classe popolare: operatrice alle vendite, cure estetiche, accoglienza turistica.
I dati Istat d’altronde parlano chiaro: nonostante i livelli di istruzione delle donne siano più elevati, il tasso di occupazione femminile è molto più basso di quello maschile (56,1% contro 76,8%) evidenziando un divario di genere più marcato rispetto alla media Ue e agli altri grandi Paesi europei. Lo svantaggio delle donne si riduce tuttavia all’aumentare del livello di istruzione: il differenziale, che tra coloro che hanno un titolo secondario inferiore è pari a 31,7 punti, scende a 20,2 punti tra i diplomati e raggiunge gli 8,2 punti tra i laureati. Le donne in possesso di un diploma hanno un tasso di occupazione di 25 punti superiore a quello delle coetanee con basso livello di istruzione (un vantaggio doppio rispetto agli uomini) e la differenza tra laurea e diploma è di 16,6 punti (scarto di oltre tre volte superiore a quello maschile). Le giovani donne sono meno frequentemente coinvolte nel fenomeno dell’abbandono scolastico precoce rispetto ai coetanei (rispettivamente 11,5% e 15,4%, nel 2019). Tuttavia, il tasso di occupazione delle giovani che hanno abbandonato gli studi è solo del 26,1%, mentre sale al 41,8% tra i ragazzi. Il vantaggio femminile, in termini di minori abbandoni scolastici precoci, viene dunque meno quando si confronta la quota di chi, avendo abbandonato gli studi, è comunque riuscito a inserirsi nel mondo del lavoro. A ciò va aggiunto che la condizione di NEET (giovani fra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano) è più diffusa tra le donne (24,3% contro il 20,2% degli uomini) indipendentemente dal livello di istruzione posseduto.
Nonostante quindi il genere nello spazio scolastico pesi moltissimo e strutturi gli immaginari di ragazzi, ragazze e docenti, condizioni i contenuti didattici, i modelli educativi, le relazioni fra saperi e professioni, culture del lavoro e indirizzi di studio, il dibattito che nella scuola c’è su questi temi si limita a riflessioni solo culturali e generiche sulla decostruzione degli stereotipi di genere quando va bene, sino ad arrivare al controllo sui centimetri di gonna da indossare a scuola quando va male.
Le culture femminili del lavoro, gli ostacoli strutturali a un ingresso paritario e trasversale e in tutti i segmenti lavorativi delle donne, i diritti delle lavoratrici nei settori a più alto sfruttamento e precarietà a partire dalla conciliazione fra i tempi del lavoro e il tempo della vita, le connessioni fra molestie sul lavoro e cultura patriarcale diffusa, una analisi delle gerarchie di genere dentro i mondi del lavoro a bassa e alta qualifica non sono oggetto di studio, né di stage né di alternanza. Eppure questa analisi materialista femminista manca paradossalmente in un mondo del lavoro, come quello della scuola, dove l’82,7% degli insegnanti è di genere femminile, ma una sensibilità femminista è evidentemente ancora scarsa.
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