Raffaele Cutolo e la nuova camorra

Credo sia essenziale muovere dalla geografia o, meglio, dalla “geopolitica”. Partiamo quindi da Ottaviano, comune della città metropolitana a 22 chilometri da Napoli. Uno spazio “contadino”, parte della grande periferia dedita alla terra, alle coltivazioni e agli animali. Un’area che, nel bene e nel male, ha avuto una sorte migliore di altre zone vesuviane come Pomigliano d’Arco, le cui colture sono state devastate dall’insediamento forzato e tutto politico dell’industria. Una indipendenza, quella di Ottaviano, che ha preservato il paese e la cultura dei suoi abitanti, fortificati nella “durezza”: dettata dal lavoro, dai modi locali di intrecciare le relazioni e dalla capacità di inventare la sopravvivenza.
In questa terra dura e agricola, con un’aristocrazia sbriciolata, un latifondo inerte, piccoli possidenti e ampio bracciantato, nasce Raffaele Cutolo (recentemente morto a Parma dove stava scontando quattro ergastoli in regime di 41 bis), da genitori a “servizio” di un proprietario locale che viveva rinserrato nel suo castello. Una volta adulto e di “successo”, lo rileverà realizzando così una sorta di risarcimento personale.
Successivamente, quando deciderà di trasformarsi simbolicamente in un Robin Hood degli sfruttati, trasformerà quel sentimento individuale in una bandiera volgendo la sua attenzione verso i poveri e i diseredati, verso tutti coloro che vengono abbandonati dalle autorità, offrendosi come un’alternativa e un sostituto dello stato per dare loro una chance nell’affiliazione.
A questo primo dato se ne aggiunge un secondo, che in realtà ne intreccia due: la volontà di occuparsi dei senza futuro, teorizzata e ribadita, viene anche utilizzata per trovare una soluzione “organizzativa” alla sua condizione familiare, sicuramente diversa da quella delle altre formazioni della camorra napoletana. Queste reggevano principalmente su nuclei famigliari estesi con tutti i componenti impegnati sul fronte operativo della malavita organizzata e che seguivano un preciso ordine gerarchico, le cui regole coincidevano con quello della parentela. Per raggiungere posizioni nei ranghi alti del sistema, ad esempio, eri costretto solitamente a passare per via matrimoniale sposando una delle sorelle del boss. Non è un caso che, per parlare in gergo, a guardare le genealogie di queste famiglie si riscontra una forte componente cognatica. In modo simile le figlie o i figli venivano “utilizzati” per stringere legami forti con altre famiglie e realizzare, anche in questo caso, patti di sangue inscindibili.
Avviato il meccanismo, bastò poco perché Cutolo avesse a disposizione un vero esercito: ideologicamente partecipe, fedelmente esecutore, pronto a rischiare la vita per chi offre una possibilità di esistenza diversa dalla miseria, dall’arrangiarsi, dalle umiliazioni quotidiane del cercar lavoro
Ma Raffaele Cutolo non ha una famiglia numerosa. Lo affianca solo una sorella. Questa condizione viene dunque riconfigurata in una prospettiva che ci mostra anche la genialità degli imprenditori del male: costruisce una sorta di società di mutuo soccorso, dove a chi partecipa offre non solo guadagni, ma anche protezione e assicurazione per sé e per gli altri: in caso di arresto ci si assume i costi della difesa e ci si occupa delle famiglie, di cui ci si fa comunque carico anche in caso di morte “sul lavoro” dell’affiliato.
In questo modo Cutolo stabilisce un legame economico solido e duraturo che si sostituisce a quello della parentela oscurandolo e che garantisce le affiliazioni secondo un rigido sistema gerarchico di partecipazione. A cominciare dallo strutturare un rituale di iniziazione, mai pensato dalla camorra proprio perché retta essenzialmente da legami di parentela: ogni iniziato doveva pronunciare una dichiarazione di fede e di devozione verso i superiori e, soprattutto, verso il capo assoluto. Un atto di fedele sottoscrizione. Alla nuova ditta, la Nuova camorra organizzata (Nco).
Questo costrinse le famiglie camorristiche tradizionali a fondersi in un’etichetta: Nuova famiglia (Nf). E, di seguito, persino a realizzare inedite sedute notturne di iniziazioni, rifacendosi alle narrazioni mitologiche, romanzesche e filmiche, nel lugubre camposanto delle Fontanelle dove sono raccolti migliaia di teschi anonimi.
Avviato il meccanismo, bastò poco perché Cutolo avesse a disposizione un vero esercito: ideologicamente partecipe, fedelmente esecutore, pronto a rischiare la vita per chi offre una possibilità di esistenza diversa dalla miseria, dall’arrangiarsi, dalle umiliazioni quotidiane del cercar lavoro; ma anche un sostanziale riconoscimento identitario nel momento in cui si entrava a far parte di un gruppo diverso da quello famigliare, con le caratteristiche di una vera e propria organizzazione armata, ideologica e strutturata, costruita sul modello di quelle che anche “l’altra” società aveva prodotto in quegli stessi anni, come le Brigate rosse.
Tutto questo ha un effetto dirompente. Tanto da consentirci di delineare un nuovo profilo culturale del malvivente “cutoliano” che se, da una parte, eredita la forma della malavita della provincia, diversa da quella urbana, come sistema, pratiche e strategie, dall’altra si dà la libertà di muoversi in maniera indipendente, di avere contatti e stringere contratti con altre aree della criminalità organizzata, con altri gruppi e cartelli, costruendo legami e spartendo interessi, anche vendendo la possibilità di accerchiare la stessa città di Napoli e i suoi rappresentanti malavitosi.
Ma c’è un altro vantaggio che il paese permette alla nuova organizzazione e riguarda la possibilità di stringere rapporti con la politica – a differenza dei napoletani che se ne tengono a distanza – a partire da quella locale, per poi allargarsi a macchia d’olio a quella nazionale: si inizia con le collaborazioni, con lo scambio di favori contro danaro e si finisce per sottometterla.
È nell’intreccio di queste trame che si definisce la forza di Cutolo e si estende e ramifica il suo potere: tra malavita e politica, affari e violenza. Cementato da ideologia e partecipazione, condivisione e appartenenza. Una rete radicata e capillarmente inserita nelle carceri, e coperta dalle istituzioni dello stato.
È nell’intreccio di queste trame che si definisce la forza di Cutolo e si estende e ramifica il suo potere: tra malavita e politica, affari e violenza.
Il trionfo assoluto arriva quando si realizza il primo grande cambiamento nei traffici della malavita campana, dedita quasi esclusivamente al contrabbando delle sigarette. Ce ne sarà poi un secondo, che Alessandro Leogrande ha raccontato in Le male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali (prima edizione ancora del mediterraneo 2003, seconda edizione Feltrinelli 2021), ma avverrà a cavallo di fine secolo.
Per quasi tutti i sessanta e buona parte dei settanta, le “bionde” venivano trasportate via mare. Il ricordo dei motoscafi blu è ancora vivo e tuttora riecheggia nelle canzoni di Pino Mauro. Finché la Finanza non ebbe la meglio e gli strateghi dei traffici dovettero cambiare le rotte del rifornimento e trovare nuove strade. Decisero di muovere via terra. E si trovarono “costretti” ad attraversare il territorio di Ottaviano. Da quel momento Cutolo cominciò a esigere una tangente, a fare “la camorra sui camorristi”, come dissero in tanti. E fu guerra. Guerra feroce e spietata. Nco contro Nf armati. Una guerra che alla fine servì a rafforzare il potere di Cutolo.
Tutto questo fino al 1980. L’anno del terremoto.
Il 24 novembre il carcere di Poggioreale divenne una macelleria di vendette e uccisioni dove gli affiliati della Nco fecero strage dei nemici. E la successiva ricostruzione rappresentò la grande occasione di cui utilizzare la quantità di denaro che cadeva sulla città e sulla regione e che grazie alle trame politiche e imprenditoriali veniva trasformato nel fiorentissimo commercio di droga pesante.
Per comprendere il potere di Cutolo, basti pensare che il tutto veniva diretto dall’interno del carcere, da una cella aperta dove riceveva i suoi luogotenenti cui dettava ordini, circondato da una corte che lo serviva e l’omaggiava. E dove si recavano i rappresentanti dello stato. E chi si opponeva veniva ucciso, come un direttore che si “permise” di eseguire personalmente una perquisizione.
Ma il 1980 fu anche l’anno in cui Cutolo decise di regalare ai suoi adepti una strenna molto particolare: un libro, Poesie e pensieri, fatto stampare in forma privata da un editore e libraio napoletano. Una scelta singolare che stava a rimarcare la distanza dagli altri e la sua fama di “prufessore” come veniva chiamato perché, almeno lui, sapeva leggere e scrivere. Pagine in cui ricorrono le solite difese dei marginali per cui Nuova Camorra significa “fare del bene, aiutare i deboli, far rispettare i più elementari valori e diritti umani che vengono quotidianamente calpestati dai potenti e ricchi e… riscattare la dignità di un popolo e desiderare intensamente un senso vero di giustizia, rischiando la propria vita per tutto questo”. Assieme a messaggi chiari su chi comanda, sulla necessità di affidarsi al capo, alla forza della solidarietà tra gli Amici (scritto sempre con la maiuscola) contro gli amici (con la minuscola) che si insediano nelle nostre vite per tradirci: “Un uomo deve stare attento, soprattutto quando entra nella sua vita un amico, perché in esso si può celare un potenziale nemico. Un serpe infido che entra nella tua casa. E come tale si deve schiacciare, senza pensarci sopra se no vi morderà”. Perché esiste un solo vero grande Amico, sostiene Cutolo, e siamo noi stessi.
Ma in queste pagine c’è soprattutto un insegnamento ripetuto e ribadito: non fidarsi. L’intento del libro è preciso: riconoscere il capo, comportarsi da veri uomini sapendo morire e seguire il fondamento, la regola di base che consiste nel praticare la strategia della sfiducia verso tutti e tutto (cfr. il mio saggio The strategies of distrust di prossima pubblicazione). Anche perché il rischio di essere “venduto”, “cantato” o ucciso dal tuo migliore amico è frequente, se non abituale, e quindi bisogna fare di tutto per sorvegliare e essere attenti fino alla paranoia. (Un’importante analisi di questi fenomeni è stata realizzata in maniera inedita e originale da Giovanni Starace in Testimoni di violenza. La camorra e il degrado sociale nel racconto di dieci detenuti, Donzelli).
Anche in questo caso Cutolo ha il privilegio di essere stato il primo a utilizzare il libro come strumento di comunicazione con i propri affiliati. Di mettere un libro nelle mani di chi non sa o non legge. Un modo per rimarcare la differenza e ribadire la propria accondiscendenza. Lo seguirà nel 1993 Luigi Giuliano con le poesie Le ciliegie del dolore, e nel 2003 Giuseppe Misso con un romanzo, I leoni di marmo.
Ma in queste pagine c’è soprattutto un insegnamento ripetuto e ribadito: non fidarsi.
Ma l’aspetto più inquietante resta la sua capacità di intessere rapporti ampi con le diverse associazioni malavitose (dalla nascente banda della Magliana a Turatello, dalla mafia del Brenta alla ‘ndrangheta), di stringere legami stretti con i poteri locali ed estendere una rete di relazioni anche con politici nazionali fino a diventare un importante referente per lo Stato. Parliamo proprio di quella democrazia cristiana (indagata al tempo dai lavori di Percy Allum) che corse da lui a chiedere soccorso almeno in due straordinarie occasioni. Quando le Brigate rosse effettuarono i due più importanti sequestri di quegli anni: Moro e Cirillo. In entrambi i casi Cutolo fu consultato. Nel primo, nonostante fosse stata indicata la precisa localizzazione del luogo di prigionia, lo Stato decise di non intervenire: per la Dc Moro era più utile da morto che da vivo, come scrissero osservatori americani. Il secondo invece fu liberato. Non a caso Cirillo era incaricato alla gestione dei finanziamenti per il terremoto e avrebbe potuto rivelare la straordinaria, fitta rete di trame oramai consolidate tra stato e malavita nella gestione del danaro. E quindi, una volta riportato a casa e messo al sicuro, bisognò trovare un diversivo in una nuova vittima estranea e occasionale: Enzo Tortora.
Quando la notizia del suo legame con i massimi vertici dello Stato italiano fu resa nota, a nulla servì lo scandalo. Ci fu bisogno dell’intervento diretto e risolutivo dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che nel 1982 fece riaprire appositamente il carcere dell’Asinara dove fu unico ospite in modo da tenerlo realmente e per la prima volta sotto chiave, nell’impossibilità di avere scambi con l’esterno.
La conseguenza fu che la Nco, in assenza del capo, lentamente si sgretolò. E che al libro dei “misteri” italiani si aggiunsero nuove pagine.
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