Quit the doner tra le bizzarrie del presente
Non fa male ricordare rapidamente quanto sia penosa la situazione del giornalismo nel nostro paese. “Repubblica” e “Corriere della sera”, i due giornali nazionali più letti, se escludiamo qualche dettaglio insignificante oltre pagina 14, sono praticamente due fotocopie, che ci informano di ciò che hanno detto i politici la sera prima in tv da Fazio. Nessuna testata, incluse le piccole e i giornali locali, spendono un euro per le inchieste interne figuriamoci estere, e quelle che sono spacciate per tali sono trascrizioni di atti processuali, ovvero scandali. Sui giornali italiani non si legge mai una “storia”, cioè il racconto di un’inchiesta, il reportage da un luogo, di una realtà sociale, di un fenomeno che non si conosca già. Perché i giornali nel nostro paese arrivano sempre tardi e sono l’ultimo posto dove informarsi realmente sia sulla cose nostrane che, soprattutto, sul mondo. La mancanza di una reale concorrenza è uno dei motivi per cui “Internazionale” è diventato un settimanale così letto: dovendo coprire un’enorme vuoto lasciato dai nostri media, sta assomigliando sempre di più, occupandosi di cose italiane, a un nuovo “Espresso”. In generale il credito che viene dato ai giornali è bassissimo: per esempio in Piemonte “La Stampa” è comunemente nota come “La Busiarda”, la bugiarda.
Internet non ha salvato il mondo dell’informazione. Non c’è stata alcuna rivoluzione della rete, per quando riguarda i media. I siti di “giornalismo” nati negli ultimi dieci anni sono solo il ri-masticamento delle notizie mainstream, a volte come retroscena decadente da gossip (vedi “Dagospia”), altre come approfondimento che non spiega e confonde (“Il Post” e “Linkiesta”), altre ancora come aggregatore di blog differenti, in cui ci sono post che si contraddicono tra loro, di giornalisti o pseudo-tali (“Il Fatto online” e “Huffington Post”).
Eppure, nonostante il quadro desolante, qualche novità dal giornalismo può venire soltanto dal mondo dell’informazione digitale, innanzi tutto per motivi meramente biologici, perché per una legge non scritta sui giornali possono scrivere solo gli over-cinquanta (esclusi i figli dei giornalisti), e poi perché proprio la rete offre una apparente illimitata libertà di espressione, di racconto, di trasgressione. Nessun giornalista della “carta stampata” potrebbe iniziare un reportage da una piazza dell’adunata dei berluscones nel 2013 in questo modo: “Andare per la prima volta a una manifestazione del Pdl nel 2013 è come arrivare a una festa alle sei di mattina quando le droghe sono finite, tutto lo scopabile è ormai nelle stanze al piano di sopra e in cucina l’unico cocktail rimasto è il Monterota, la disperata combinazione di Montenegro e succo di carota”. Questo incipit non è preceduto da un nome e cognome, ma da uno pseudonimo, Quit the doner, forse il caso giornalistico più interessante dello scorso anno, non a caso nato su internet.
Quattro giorni prima delle elezioni politiche, il 20 febbraio scorso, l’articolo Cinque buone ragioni per non votare Grillo di Quit the doner, pubblicato sul suo blog, ha ottenuto più di 200mila condivisioni sui social network, il che in soldoni vuol dire almeno cinque volte tanto di lettori, circa un milione. L’exploit giornalistico del 2013 non è stato pubblicato da un giornale di un grande gruppo, o da una rivista settimanale patinata, ma è stato il post di un blogger, sotto pseudonimo, che tutti leggono e nessuno ha mai visto. Il crack dell’articolo anti-grillo non ha solo dato a Quit the doner una notorietà inaspettata, ma gli è valso anche il premio Macchianera Italian Award come miglior articolo dell’anno. Questo premio, conferito dalla rete con votazione pubblica, ha visto premiato nello stesso 2013 come “personaggio dell’anno” Papa Francesco. In estate i reportage e gli articoli di Quit the doner, inediti e già pubblicati su “Linkiesta” e “Vice Italia”, sono stati raccolti in Quitaly. L’italia come non la raccontereste ai vostri figli, pubblicato da Indiana (240 pagine per 14,50 euro). Un libro che è la prova concreta di come, dopo il ventennio berlusconiano e nel presente Renzi-Grillo (epoche che hanno tragicamente incamerato il comico), sia ancora possibile ridere della politica e della cultura di massa, e soprattutto sia ancora possibile raccontare la mediocrità dell’Italia al di là del “pantano mediatico” delle televisioni, dei giornali e anche della tanto celebrata rete salvifica.
Chi si aspetta da questo libro dei reportage giornalistici tradizionali di facile denuncia alla “Fatto quotidiano” o “santorate”, come le chiama l’autore, resterà deluso. Quitaly è la raccolta di alcune esperienze di massa d’oggi comuni o sotterranee e sottoculturali: da una festa molto romana a margine di un festival della fiction televisiva al raduno dei vacanzieri a Gallipoli, passando per il Salone del mobile di Milano, i mercatini natalizi altoatesini, il Lucca comics dei cosplayer, il raduno hard-core degli alpini a Piacenza, la piazza berlusconiana al declino nonostante il sostegno del botox, il meeting di Herbalife, i festival del bottiglione e del 25 aprile bolognesi e il raduno dei complottisti delle scie chimiche a Modena.
Trentaduenne bolognese, Quit è animato da una curiosità autentica e racconta, con totale libertà e humor distaccato, la surreale normalità italiana, i processi di conformismo e le realtà concentrazionarie volontarie delle masse di consumatori. Altra caratteristica, oltre al suo cinismo tipicamente bolognese, è il fatto che non sopporti e critichi – con la stessa giusta frequenza delle volte in cui il Pd o Pippo Civati entrano nel suo mirino – lo scrittore americano David Foster Wallace. Questa antipatia è curiosa e potrebbe essere una forma di rigetto comprensibile di fronte a una nuova forma di conformismo culturale, alla sopravvalutazione dello scrittore americano che abbiamo vissuto negli ultimi cinque anni, eppure ci sono delle analogie tra alcuni reportage di Quit the doner e altri compresi in Considera l’aragosta, per esempio, pieni di pietà e comprensione umana. Infatti, sebbene Quit voglia sembrare distante dai “mostri” idioti incontrati nel suo viaggio per l’Italia, la sua partecipazione e comprensione si rivelano quasi sempre nei giudizi e nelle analisi mai banali e scontati. Così la visita a, come recita il sottotitolo, “Piazza del popolo fra quello che resta del berlusconismo” diventa il pretesto per raccontare l’ennesima trasformazione antropologica dell’elettorato italiano da berlusconiano a renziano-grillino. Oppure lo psichedelico viaggio, degno di Hunter Thompson, al Lucca Comics tra i cosplayer (fan che spendono soldi e tempo per travestirsi alla perfezione nei loro eroi preferiti) serve per riflettere sulla propria formazione e sui consumi sotto-culturali degli anni novanta. E ancora la visita all’osteria sull’appenino tosco-emiliano dove si riunirono le prime Brigate rosse – unico reportage non-esperienza di massa del libro insieme a un racconto apocalittico finale – diventa un’amara dichiarazione di poetica, legata alla pesante e faticosa storia di ingiustizie di questo paese. E, infine, il racconto della manifestazione dei complottisti delle scie chimiche, è in realtà una rispettosa e approfondita indagine del perché nella nostra post-modernità ipotesi e tesi non-scientifiche e cospiratorie siano rassicuranti e consolatorie per molte più persone di quanto si creda.
Guardando a questi, che sono i migliori articoli del libro, che fanno ridere come raramente succede leggendo di cose italiane, si ha l’impressione che Quit voglia fare il giornalista senza scrupoli, “cattivo”, freddo e distaccato come un killer, un “figlio di puttana” come direbbero gli americani nei film americani. In poche parole ciò che propone è una sorta di scanzonata forma italiana di “gonzo journalism”, il giornalismo “paraculo” senza programma e senza regole, come quello nato negli Stati Uniti negli anni sessanta, senza che si sappia prima cosa si va a documentare e raccontare. Ma in realtà la sua natura e il suo istinto sono più comprensivi e “buoni” e si rivelano nei giudizi e nei momenti in cui si ferma, non colpisce nel mucchio, e riflette sull’umanità che ha incontrato e su quello che ha visto. Come se riconoscesse una famigliarità nell’ottusità del prossimo. In un certo senso è come se fosse un Jack Lemmon che vuole diventare come Walter Matthau, se pensiamo ai due archetipi di giornalista raccontati in Prima pagina da Billy Wilder: questo senza scrupoli e disposto a tutto pur di ottenere lo scoop, mentre quello, nonostante perfettamente integrato nel sistema dei media, portatore di un’etica positiva.
L’articolo su Grillo e il Movimento 5 stelle che gli ha portato notorietà non è tra le sue prove migliori: si tratta di una sorta di guida per principianti della politica, un semplice “torniamo ai fondamentali” condivisibilissimo, una lista di motivi per cui la proposta politico-totalitaria di Grillo-Casaleggio è inaccettabile, introdotta da una famosa citazione di Gramsci molto attuale “Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri.” Nel libro ci sono pezzi e analisi migliori, eppure quell’articolo è paradigmatico poiché è stato scritto e pubblicato in un momento perfetto, la vigilia dell’elezioni, in un clima di grande confusione, nel quale i giornali e i media hanno sottovalutato e non visto la novità politica e, subito dopo, si sono limitati a farne una rassegna.
L’uomo giusto, in incognito, al momento giusto è una formula che potrebbe calzare bene a Quit the doner, perché in un sistema, quello dell’informazione e anche del romanzo (o loro maggioranza), sostanzialmente insufficiente e inutile per capire il presente, il suo libro è una boccata d’aria fresca, una critica implicita a quel mondo. E soprattutto libri come Quitaly ci costringono a specchiarci in un presente conformista che non è certo edificante, ma che ci riguarda molto più di quanto ci piaccia credere.