Quelle radio degli anni settanta
A volte è necessario fermarsi e volgere lo sguardo all’indietro. La scomparsa di Piero Scaramucci mi ha fatto tornare alla mente una Milano lontana nel tempo, per me comunque formidabile, gli anni Settanta, un giornalismo morale (anche se oggi può apparire un ossimoro), un’informazione civile e di battaglia politica, mi ha ricordato l’impegno di molti per dare voce agli altri, a chi non poteva parlare.
Questa storia inizia nel 1975 in Zona Sempione, area industriale e popolare, dove si mischiano una forte presenza operaia con una vecchia borghesia nascosta nei suoi lussuosi palazzi irritata dalle rivolte di giovani e lavoratori, timorosa di perdere i privilegi di un tempo. In una vertenza contro tagli e ristrutturazioni gli operai e i tecnici della Elettronvideo, piccola fabbrica di elettronica, mettono in campo uno strumento inedito di battaglia: una radio, una radio di lotta che trasmette nel quartiere. Dall’etere arrivano i bollettini delle vertenze delle fabbriche della zona, si crea un circuito di voci, di raccolta di fondi, di solidarietà e anche di emulazione. La radio diventa subito una novità politica, con l’intervento della Cooperativa culturale Sempione e la partecipazione di militanti della sinistra estrema. Nell’ottobre 1975 l’esperienza del Sempione si trasforma, nasce e inizia a trasmettere Canale 96, radio militante, “voce libera di Milano” definizione che confinava con “stazioni pirata” termine mutuato dai grandi giornali dalle radio off shore britanniche, o radio “clandestina” che evocava uno spirito eversivo.
Sul “Quotidiano dei lavoratori” apparve un avviso breve, mi pare recitasse così: “Canale 96, chi vuole collaborare telefoni al …”. Semplice. Telefonai e il sabato dopo mi trovai in un monolocale in via Mac Mahon a “mettere su i dischi” e a leggere le notizie, assieme a un compagno della Comasina che si era appena diplomato con me all’Istituto Zappa. Le trasmissioni chiudevano a tarda sera con l’Internazionale, ovviamente. Ci pensarono i carabinieri, con l’aiuto di un elicottero per “scoprire” l’antenna, dopo un paio di settimane a chiudere la radio, a sequestrare le attrezzature perché la procura sosteneva che “la radio è un’emittente privata clandestina e come tale abusiva”. Di più: i carabinieri erano convinti che Canale 96 fosse una sede delle Brigate Rosse. Fu una grande operazione di marketing per noi, un’enorme pubblicità. A dicembre la radio riaprì, pochi mesi dopo ci trasferimmo all’ex hotel Siviglia, in largo Richini, uno stabile occupato che era stato uno storico albergo per le compagnie teatrali e poi una casa d’appuntamenti. Intanto nel Paese c’era stata una moltiplicazione di radio libere, erano nate oltre 100 stazioni che avevano iniziato a trasmettere, a rompere il monopolio Rai, a esercitare il diritto costituzionale di informare. Sentenze di pretori e magistrati alternavano vittorie e stop alla rivoluzione in FM, ma la strada per la libertà dell’etere era aperta, davvero come un segno dei tempi.
All’inizio fu una scossa terribile per il mondo paludato dell’informazione, per il regime della Rai lottizzata, per politici, editori, industriali. I più svegli tra i padroni si misero subito a occupare frequenze e a lanciare radio commerciali producendo ascolti e profitti che durano fino ai nostri giorni. Le radio “ribelli” rappresentavano una ventata di novità, centinaia di neofiti del giornalismo che nulla sapevano di informazione fecero scuola, e che scuola, una specie di autoformazione provata sul campo. L’unico, uno dei pochi che ci capiva e aveva delle idee sagge, era Scaramucci che animava Radio Popolare. In quella congiuntura politica, nel ’75 e nel ’76 il Pci conquista le grandi città e contende alla Dc il primato elettorale nel Paese, le radio furono un grande elemento di cambiamento. Umberto Eco venne in via Mac Mahon a parlare di “guerriglia semiologica” mentre la palude dell’”informazione borghese” era scossa dalle dirette via etere degli scioperi operai, degli scontri alla “prima” della Scala, delle assemblee studentesche. Usavamo i gettoni e le cabine della Sip, niente cellulari, web o digitale. Ma era un bel giornalismo. Umile, trasparente, certamente ingenuo, ma incisivo e politico. C’era quasi una naturale, spontanea vocazione a raccontare i fatti, a raccogliere le voci, a diffondere culture ed esperienze, anche quelle trascurate o fino a quel tempo ghettizzate, le donne e gli omosessuali, c’era un profondo desiderio di verità, l’impegno di denuncia delle bugie del potere, dei poteri, perché nel nostro Dna c’era la scoperta della menzogna sulla Strage di Stato, su Pino Pinelli, sulle trame nere.
La parola chiave di quegli anni era Controinformazione, ma presto non ci bastò: non era sufficiente criticare e contestare l’informazione ufficiale, l’aspirazione era di fare Informazione con “I” maiuscola in diretta competizione con le strutture, il linguaggio, il potere dell’editoria padronale. Il testo di riferimento era un saggio di Pio Baldelli, Informazione e controinformazione edito da Mazzotta che ci avvertiva: “I mass-media sono un’arma micidiale nelle mani della classe dominante contro la quale si può combattere solo conoscendone a fondo i meccanismi e le tecniche”. La radio, allora, era una potenza, coglieva lo spirito di un Paese malmesso e arrabbiato, dava voce a tanti esclusi. D’altra parte non era stata forse una radio, Radio Renascença nel 1974 a dare il via alla Rivoluzione dei Garofani Rossi in Portogallo?
Fu una bella stagione, anche vista dopo tanti anni, con limiti ed errori, dilettantismo ed estremismo, ma piena di cambiamenti positivi. Si formò una generazione di giornalisti, manager della comunicazione, operatori culturali, organizzatori di concerti, docenti, critici, artisti…. poi, in molti casi, conquistati dal sistema, quello vero, più grande e potente. Col passare del tempo, come a volte accade, anche le grandi novità, le profonde rotture sociali, politiche e culturali perdono vigore, sono assorbite, ricondotte in parte o del tutto nell’alveo degli interessi di casta e della convenienza personale, della carriera, degli umani opportunismi. D’altra parte niente più del giornalismo espone ai rischi di una caduta nel narcisismo, se non di peggio.