Quando la scuola emancipava
Storia di una maestra di Josefina Aldecoa (Sellerio, traduzione di Sara Cavarero) è un libro di venticinque anni fa (1990) che racconta una storia ancora più vecchia. Ha un sapore d’insolito, di antico. L’autrice vi ricostruisce la vita di sua madre Gabriela (e del suo apprendistato nelle colonie, di un suo giovanile amore con un ribelle del luogo, che lotta per l’autonomia del suo paese, per una decolonizzazione che arriverà tanti anni più avanti) e di suo padre Ezequiel, maestri elementari nella Spagna degli anni venti e trenta dello scorso secolo. La Aldecoa si investe delle memorie della madre, diplomata nel ’23 lo stesso giorno in cui prendeva moglie con pompa un ancora oscuro Francisco Franco. Il libro si apre ma anche si chiude con l’osceno dittatore, il giorno in cui egli fece il suo golpe dando il via a una sanguinosa guerra civile, e con la morte di Ezequiel, ammazzato perché difensore degli operai e della Repubblica. Ma forse la vera data di partenza di questa storia sta nel giorno in cui – in conseguenza dell’insurrezione operaia del 1909, “la settimana tragica” – il governo spagnolo fece fucilare il grande pedagogista Francisco Ferrer, colpevole ai suoi occhi di avere con le sue idee stimolato i disordini. (Vi furono allora grandi manifestazioni in decine di paesi, fortissime in Italia.) In realtà l’arco storico benissimo narrato da questo libro parte dalla proclamazione della Repubblica nel 1931 – ma dal 1933 al 1936 la Spagna fu governata dalla destra, fino alla vittoria del Fronte popolare nel 1936 e alla conseguente rivolta militare capeggiata da Franco, che provocò una micidiale guerra di resistenza durata fino al 39, con la sconfitta della Repubblica e l’inizio di una dittatura pluridecennale. La storia della Spagna è vista nel libro della Aldecoa da una prospettiva particolare, che è quella – appunto – che ha le sue basi nelle idee e nel sacrificio di Francisco Ferrer.
A cavallo tra una biografia e un romanzo, la Aldecoa scrive in prima persona, “diventa” sua madre, e certamente si basa sulle memorie orali di lei e su quanto hanno lasciato di scritto lei e il marito. Ma sa scrivere e raccontare di suo, ha un notevole controllo del mestiere di narratrice e ne fa un ottimo uso, appassionando il lettore. Ma non è tanto il romanzo a doverci interessare sulle pagine degli “Asini” quanto il fondo delle cose che narra, e la loro distanza nella storia, rispetto all’idea e alla pratica della pedagogia. Questo piccolo libro, per niente retorico, pieno di pudore, è infatti la testimonianza di qualcosa che ancora ci riguarda, non solo per ideali di giustizia sociale che non dovrebbero mai morire ma per un progetto di educazione e di “scuola pubblica” inattuali e bensì eterni: l’educazione e la scuola, come fondamentali strumento di emancipazione delle “classi subalterne”. Questo è stato la fiducia nella scuola pubblica e questo purtroppo non è più, certamente in Italia. Il mondo è cambiato, e a quella finalità per la quale migliaia di “alfabetizzatori” nel mondo – sulla scia delle grandi speranze socialiste e democratiche, ma anche cristiane e cattoliche, anche borghesi di quando la borghesia aveva ideali diversi da quelli dell’arricchimento e del godimento – hanno dedicato la loro esistenza, oggi non sembra che ci sia ancora chi creda, salvo forse in qualche parte dell’Africa o in qualche angolo d’Asia o d’America Latina.
E’ stata una storia enorme, è stata una bella storia, quella degli emancipatori dei poveri e degli oppressi per il tramite della cultura, dell’insegnamento. Si è trattato quasi esclusivamente di una storia di maestri elementari o di alfabetizzatori di operai e di contadini, anche se a essa hanno aderito tanti “professori”, insegnanti degli adolescenti, prima di diventare, con loro gran piacere, le “vestali delle classi medie”. Con la parziale eccezione di certi paesi e certi anni, post- rivoluzionari. Era questo comune ideale a far sì che – mal pagati e malamente alloggiati, spediti nei posti più difficili o lontani, con la difficoltà aggiuntiva di farsi accettare da una comunità dove i ricchi non amano che i poveri imparino a leggere e scrivere, e cioè a pensare e a capire e magari a ribellarsi, e i poveri sono così rozzi da preferire che i loro figli lavorino invece che studiare – tanti insegnanti dedicassero la loro esistenza a un lavoro improbo, ma di grandissime soddisfazioni morali. Appunto: una missione.
Il collegamento tra l’insegnamento e la politica era allora immediato: se si credeva all’emancipazione dei proletari e dei poveri, ci si legava di conseguenza ai movimenti (a gruppi partiti sindacati) che proponevano stimolavano guidavano le lotte per l’emancipazione che avevano attinenza diretta con l’economia, con lo sfruttamento della forza-lavoro, con il sistema di potere. Ezequiel, il marito e collega di Gabriela, non può non interessarsi di politica anche direttamente, e morirà per questo, perché ha condiviso la rivolta dei genitori dei suoi allievi, dei suoi compagni proletari.
Storia di una maestra è un libro bello e commovente, perché ci riporta a una storia di ieri, anche se di uno ieri ancora vicino. E viene da pensare a don Milani, ai maestri del Mce, ai tanti che, almeno fino agli anni settanta e ottanta dello scorso secolo, hanno ancora creduto a questi ideali, a questa missione. Ma oggi? Il vero cambiamento, la vera mutazione nel campo della pedagogia è stata proprio questa: il passaggio da una pedagogia che era comunque “dell’oppresso”, dalla parte dell’oppresso, e di una che bada – nella più difficile (ma tutt’altro che impossibile) distinzione tra le classi – a tener buoni i buoni e ad assistere i cattivi nella loro scalata alla società, come facevano le professoresse di don Milani, e chiamano questo meritocrazia, oppure bada ai propri interessi di corporazione in crisi di ruolo e di identità. Non si tratta per loro di aiutare gli allievi a discernere grazie alla cultura il vero dal falso, il bello dal brutto e il giusto dall’ingiusto e a distinguere gli interessi degli allievi delle classi tuttavia subalterne (compresi quelli delle “medie” ma non quelli delle “superiori”). Quel che essi rifiutano di accettare è che, grazie al loro lavoro di educatori, si poss e si debba “liberando gli altri” liberare anche noi stessi. E, in definitiva, che gli interessi dei veri educatori non sono, non possono e non devono essere diversi da quelli degli educandi. Si preoccupano invece di accettare il mondo (cioè il potere) così come ci si presenta e ci si impone, a esso adattandosi (gli “educatori”) e adattando gli “educandi”.
La differenza maggiore dal passato di cui ci racconta Aldecoa è questa: che non si tratta più di emancipare gli altri, ma con gli altri noi stessi. La vocazione di educatore rimane comunque, anche se oggi così svilita dal potere e dagli educatori medesimi, una delle più alte, e il mestiere di maestro il più bello di tutti i mestieri.