Quali fini, oggi?
Parliamo di scuola e parliamo soprattutto del primo ciclo, dalle scuole dell’infanzia alle secondarie di primo grado. Le scuole dove si passa tutti, le scuole che sono un diritto e un dovere, le scuole dove per alcuni anni si è cercato di fare davvero bene e che da alcuni altri anni vengono (tramite interventi legislativi tesi alla standardizzazione e alla riduzione di spazi, risorse , personale, sperimentazioni autonome) demolite. Parliamo anzi soprattutto della scuola “media” perché è quella dove si danno meno eccezioni positive, meno situazioni in cui dopotutto “si regge” e “delle cose belle ci sono”.
La scuola secondaria di primo grado si presenta oramai anche nelle ricerche quantitative nazionali e internazionali come dispositivo atto a produrre con più rigore i noti effetti di selezione, valutazione, oppressione, assoggettamento di cui han già così bene parlato tante/i da Bourdieu a Illich, da Papi ai mille pedagogisti foucaultiani che si possono contare in accademia.
Discipline di studio frammentate, materie di studio artistiche ed espressive come arte e musica private di qualsiasi carattere espressivo appunto e pratico laboratoriale, esclusione di qualsiasi attività creativa e di laboratorio, negazione di ogni pratica didattica cooperativa, negazione di ogni protagonismo studentesco nella gestione materiale e organizzativa dell’istituto, utilizzo di libri inadeguati, contenuti avulsi da ogni collegamento con l’esperienza, corpo docente anziano impreparato e tendenzialmente fascista e inetto, insomma la scuola media è un buco nero e lo sappiamo.
Se sei una/un maestra hai qualche chance di fare un bella cosa, alla medie invece comunque sei certa del male che tende a produrre l’istituzione in maniera strutturale. In realtà è così anche all’asilo e alle elementari, con la differenza che l’individuo eccezionale, la famosa il famoso bravo maestro, riesce a cambiare profondamente il segno dell’esperienza che vi si fa da alunne/i. C’è ancora margine là. Il vantaggio della scuola media è dunque quello di mostrare più crudamente le cose come sono.
La scuola è prima di tutto un’istituzione e come tale conviene pensarla e parlarne. Non ci si può fermare alla relazione educativa e d’insegnamento con le/ i ragazzi nella quale, comunque, nonostante il dispositivo, in fondo te la cavi e agisci.
Pensare la scuola si può fare solo sapendo come è l’istituzione che insiste tanto su docenti che studenti. Essa è una macchina che macinerà sempre quello che deve. Ossia selezione, valutazione ed effetti di dominio e controllo. Da questo punto di vista l’anarchia ha ragione: fuori dalla scuola perché essa è inemendabile.
Senonché la scuola è lì e noi si vuole pensarla, accettando la premessa ineluttabile per cui il bilancio sarà sempre negativo: più male che bene, sempre. Ma anche bene sempre e qui sta la nostra parte da pensare, da fare, da immaginare.
La scuola produce i suoi effetti in quanto tecnologia cioè manipolazione di spazi tempi corpi e simboli assieme. Muta l’ambiente e il soggetto assieme. In una scuola poi si produce facilmente la dinamica per cui professori/professoresse contro alunne/i; alunni/e contro attenzione; divertimento contro noia della lezione; casino contro fatica di studiare e questo determina tutta la dinamica esperienziale nella scuola e produce le parole, le relazioni, gli atti, le conoscenze e i sentimenti di chi ci sta dentro e gli effetti che sappiamo. Questa è tecnologia.
Per lo stesso motivo, la tecnologia, accade che se decidi di stare nell’istituzione e di investire nel produrre il margine incalcolabile e imprevedibile di bene che comunque sai che sortisce là dentro (perché ogni tecnologia e istituzione e storia umana produce assieme al male e all’ingiustizia anche occasioni incalcolate di emancipazione e di bene) devi farlo sullo stesso piano su cui funziona la macchina ossia con la disposizione di corpi tempi e spazi e simboli ossia con le famose celeberrime pedagogiche TECNICHE.
Non c’è niente da fare. Certo conta la parola, l’atteggiamento, come sei tu, quello che dici e che porti di tuo in classe con e a loro ma alla fine se vuoi incidere oltre la tue ore sulla macchina, per effetti più consistenti e di respiro di “meglio con me che con un’altra”, lo devi fare con le tecniche: usando altre parole, facendo altre cose coi libri i banchi gli orari, le mani, le regole, l’organizzazione die compiti, i tempi delle attività i turni di parola, etc etc.
Cosa ne deriva: che la scuola pedagogicamente può essere pensata e fatta altrimenti solo a livello di movimento, cosi come è accaduto con Freinet, Oury, Montessori Ferrer Lodi MCE etc. ossia con la creazione e diffusine di tecniche cresciute nella pratica, nello scambio, nella condivisione coltivata di minoranze attive di formatori e docenti.
Perciò accade lo scazzo con i sindacalisti: essi odiano questi discorsi e non capiscono che tu sei anche più di loro per la lotta e per gli scioperi perché loro ragionano e parlano per diritti e rivendicazioni ma mai non fanno mai nulla sul piano pedagogico, che è lo specifico e il primum della categoria, Progetti di azione sindacale che non rivendichino contenuti pedagogici sono inutili, per me.
Questa è posizione, del movimento e delle tecniche e dell’inquietudine e della trasformazione istituzionale è perdente e minoritaria ma pure quella che mi gusta. E disgusta. Perché l’anarchica ti ripete che così perpetui e non arrivi mai a fare la leva in mezzo ai raggi della ruota: potresti stare fuori. E in ciò ha ragione sempre e altrettanto è vero che la scuola è lì e quasi tutte e tutti ci vanno. La contraddizione non è risolvibile, amen.
No c’è un’ultima cosa: stante la trafila “scuola – istituzione – movimento pedagogico minoritario” si giunge alla formazione dei formatori. Infatti la Francia, che ci è sempre sorella, sta investendo da due anni tutto lì: nelle scuole per insegnanti. E perde perché non riesce a farle a dovere e che funzionino. In Italia ci sono minoranze (in contatto spesso con questa rivista) che le saprebbero fare. Ma possono relazionarsi con la “buona scuola” o con la scuola attuale? Possono fare a meno di pensare che ci si può scoprire la vocazione cioè l’intenzione, la capacità, la potenzialità di divenire brava/o docente a trenta o quaranta anni? Siamo davvero certe tutti quanti che conviene avere un ceto pedagogico che scelga il mestiere a diciotto anni? Dove c’è spazio per discutere di ciò e di molto altro? Dove per formare maestre e professoresse e maestrie e professori con le tecniche e con le ricerche formative e con la visione di film?
Buona scuola o malvagia non importa: tutto sta crollando e nel rivolgimento bisogna stare. Tanto non è che andasse bene, non è che non siamo già ferocemente sole e soli nelle scuole, già assediate dall’insensato e dal dannoso. Quindi si può solo inventare mezzi di lotta operosa, tra dentro e fuori, sognando università elementari e trame carbonare e creative nelle piccole città. Cercando, cercandosi e provando a parlare meglio e altrimenti.