Punire i poveri e criminalizzare il dissenso
1.
Con il nuovo millennio la crisi delle democrazie occidentali, incapaci di dare risposta ai bisogni di larga parte della società, si è manifestata in tutta la sua evidenza. Ad essa ha corrisposto, ovunque, un crescendo di repressione: nei confronti dei poveri (cattiva coscienza delle democrazie) e del dissenso radicale. Si è così generalizzata la trasformazione – già in atto negli ultimi decenni del secolo scorso – dello Stato sociale in Stato penale e, con essa, la costruzione di un diritto (penale e non solo) del nemico. Ciò grazie anche a una rappresentazione mediatica della paura che fa apparire naturale e spontanea la reazione, il rifiuto e, alla fine, l’annientamento dei barbari, dei marginali, dei ribelli. Non è la prima volta che ciò accade nella storia. In ogni caso, nei decenni scorsi sono ricomparse, a destra e a sinistra, vecchie pratiche, aggiornate solo nelle definizioni e negli slogan: basti pensare alla “tolleranza zero” della destra americana e alla sua importazione in Europa da parte di Tony Blair, a cui si deve l’incredibile affermazione che «è giusto essere intolleranti verso i senzatetto nelle strade» (The Guardian, 10 aprile 1997). In Italia tutto questo evoca dei luoghi simbolo: le grandi città e, poi, il luglio genovese del 2001 e la Valle di Susa. E le sue tappe sono scandite dai nomi dei padri dei principali provvedimenti securitari degli ultimi trent’anni: Turco-Napolitano, Bossi-Fini, Maroni, Minniti, Salvini, Lamorgese…
Perché, dunque, menar scandalo per il disegno di legge n. 1660, approvato dalla Camera il 18 settembre e ora all’esame del Senato? Una ragione c’è. Siamo certamente di fronte all’ennesimo pacchetto sicurezza, ma c’è qualcosa di più. Se il provvedimento diventerà legge – come è pressoché certo – sarà un un passaggio cruciale nella nostra vicenda istituzionale. Da un lato, infatti, il disegno di legge si inserisce in un progetto complessivo di riforma autoritaria dello Stato, comprensivo del premierato elettivo, dell’autonomia regionale differenziata e della ridefinizione dei rapporti tra giustizia e politica. Dall’altro, è forse la prima volta in cui vengono tenuti insieme (e regolamentati) settori eterogenei ma concorrenti riassumibili nella generalizzazione del governo repressivo della povertà, nel consolidamento della repressione sistematica del conflitto sociale e del dissenso, nel potenziamento dei poteri e delle tutele attribuiti alla polizia e agli apparati.
Non volendo – e non potendo – ripercorrere qui, anche solo per titoli, tutte le previsioni del disegno di legge, provo a fornire dei flash su alcuni dei suoi caratteri più significativi.
2.
Il primo dato è il potenziamento del ruolo del carcere nel governo della società. Il carcere scoppia: il 31 ottobre i detenuti hanno raggiunto il numero di 62.110 superando di nuovo, dopo 13 anni, la soglia, delle 62.000 presenze; i suicidi di persone detenute sfiorano le 80 unità; gli atti di autolesionismo non si contano; l’ordine nei luoghi di detenzione è assicurato solo da una violenza diffusa e dall’uso generalizzato di psicofarmaci. La risposta del disegno di legge è la previsione di 14 nuovi reati e di altrettanti aumenti di pena, in continuità con una scelta che ha portato, negli ultimi due anni, all’introduzione di 48 nuovi reati. Ciò comporterà un maggior numero di condanne e pene più elevate e, dunque, più carcere: superfluo dirlo, accentuandone contemporaneamente il carattere classista, posto che i soli reati depenalizzati sono tipici dei “colletti bianchi”, a cominciare dall’abuso d’ufficio. Il fatto sollecita due considerazioni aggiuntive. Primo: l’aumento del carcere non è la conseguenza di una crescita dei reati ma una scelta politica, come dimostra la circostanza che il tetto della criminalità, nel nostro paese, è stato raggiunto nel 1991, quando i detenuti erano circa 35.000 (35.469 al 31 dicembre) e, dunque, la metà (o poco più) di quelli odierni. Secondo: il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti dove il diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità del reato) è stato sostituito da un diritto che punisce le persone non per quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con il carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una pizza o di una merendina (cfr. E. Grande, Il terzo strike. La prigione in America, Sellerio, 2007), con la conseguenza che i condannati all’ergastolo presenti nelle carceri statunitensi sono, oggi, oltre 200.000, pari a uno ogni 1.500 abitanti.
3.
Un secondo elemento che caratterizza il disegno di legge è l’opzione, anche qui seguendo il modello degli Stati Uniti, di “punire i poveri”. Lo dimostra in modo plastico, quasi come un manifesto politico, l’introduzione nel codice penale di una norma (l’articolo 634 bis) in forza della quale «chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze […] è punito con la reclusione da due a sette anni», cioè esattamente la pena prevista per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche. Già ora – superfluo dirlo – l’occupazione di edifici destinati ad abitazione è un reato, punito con la reclusione fino a due anni e con una multa. Per questo la norma, ancor più che un presidio a tutela della proprietà, si pone come simbolo della risposta istituzionale all’emergenza abitativa (100.000 sentenze di sfratto esecutive, 40.000 sfratti ogni anno, 50.000 case popolari occupate). A tale emergenza il Governo e la maggioranza rispondono non con un “piano casa” ma con un surplus di punizione per chi cerca di risolvere il problema, sia pure indebitamente, con l’occupazione di un immobile. Non potrebbe esserci dimostrazione più plastica, anche in termini simbolici, del passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale e del governo repressivo della povertà.
4.
Alla punizione dei poveri si affianca quella di chi dissente in modo radicale.
Primo. Manifestare (già oggi spesso ostacolato con motivazioni pretestuose da troppo zelanti questori) diventerà sempre più un rischio. Il ripristino del reato di blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» e la sua punizione con la reclusione da sei mesi a due anni «quando il fatto è commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale fatto da una sola persona è poco più che un’ipotesi di scuola…) incidono direttamente e immediatamente sulla possibilità di manifestare. Saranno, infatti, criminalizzati e puniti finanche i dimostranti pacifici che stazionano in modo continuativo e in gruppo in una strada prospiciente i cancelli di una fabbrica (dove è in corso uno sciopero) o l’ingresso di una scuola occupata. La norma è esemplare in sé ma anche perché rappresenta l’esito di un percorso di anacronistica restaurazione. Il blocco stradale infatti, già previsto da un decreto legislativo del 1948, è stato depenalizzato nel 1999. Quasi vent’anni dopo, con il decreto legge n. 113/2018 (primo decreto Salvini), è iniziato il percorso a ritroso: il blocco stradale è diventato nuovamente reato ma, per mitigare l’asprezza della disposizione, si è previsto il carattere amministrativo dell’illecito nel caso di ostruzione stradale realizzata solo con il corpo. Con il disegno di legge n. 1660 si completa il ritorno alla penalizzazione piena, realizzando un attacco diretto al diritto di manifestare in quanto tale (ché la repressione di condotte illecite nel corso di manifestazioni è già attualmente assicurata dalle disposizioni che puniscono la violenza privata, il danneggiamento e molto altro ancora).
Secondo. C’è, nel disegno di legge, un ampio gruppo di norme che, con piccole differenze terminologiche, connotano le manifestazioni come eventi borderline, prevedendo specifiche aggravanti per i reati di danneggiamento, resistenza o violenza a pubblico ufficiale e lesioni se commessi nel corso delle stesse. In tutti questi casi le pene sono sensibilmente aumentate sino alla paradossale possibilità di applicare la pena della reclusione sino a 20 anni per la resistenza o violenza a pubblico ufficiale commessa «al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica» (dove si consuma il passaggio dalle leggi ad personam alle leggi ad movimentum). Questa previsione – merita sottolinearlo – ribalta la stessa impostazione del codice Rocco, il cui articolo 62 n. 3 prevedeva (e prevede, non essendo mai stato abrogato) come attenuante per qualunque tipo di reato «l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto», pur con il limite che «non si tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’autorità»: il legislatore repubblicano, nonostante la Costituzione, si mostra meno rispettoso del diritto di manifestare del suo predecessore in camicia nera.
Terzo. Per la prima volta nel nostro sistema viene esplicitamente considerata illecita la resistenza passiva. Lo prevede il nuovo articolo 415 bis del codice penale, che introduce il delitto di rivolta in carcere (sanzionato, per chi si limita a parteciparvi, con la reclusione da uno a cinque anni), precisando che «costituiscono atti di resistenza» rilevanti ai fini dell’integrazione del reato «anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». In concreto dunque, se sarà approvato il disegno di legge, incorreranno nel reato di “rivolta”, per esempio, i detenuti che, in gruppo (anche piccolo) e disattendendo gli ordini ricevuti, rifiuteranno, per protesta, di rientrare in cella dall’aria, o di assumere il cibo, o di recarsi alle docce, impedendo così al personale penitenziario di chiudere le celle, di liberare la mensa etc. La previsione del delitto di resistenza passiva con riferimento a una categoria di soggetti (i detenuti) considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé (proprio perché riferita a persone in condizioni di particolare fragilità), introduce nel sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto nell’ormai lontano 1989 per i tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo del territorio. Non è una illazione: già accade nello stesso disegno di legge che estende la disciplina e le pene previste per la rivolta, con una lieve riduzione, ai fatti commessi in tutti i luoghi di accoglienza per migranti (e, dunque, non solo i Cpr, ma anche, addirittura, i Cara e gli hotspot).
Quarto. Verrà pesantemente limitata anche la possibilità di azione dei movimenti attivi nei settori più sensibili del conflitto sociale, con interventi sulla falsariga di quelli adottati negli ultimi anni (e ancora in questo stesso disegno di legge) per ostacolare, con sanzioni amministrative e penali, l’azione delle Ong impegnate nel salvataggio di migranti in mare. È il caso della norma che estende il delitto di occupazione di immobili destinati a domicilio altrui a chi, «fuori dei casi di concorso nel reato, si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile» e a quella che prevede un aggravamento della pena per il delitto di “istigazione a disobbedire alle leggi” «se il fatto è commesso a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute». L’attacco ai movimenti per la casa e a quelli di sostegno alle persone detenute non potrebbe essere più diretto ed esplicito.
5.
In ultimo, ma – come si usa dire – non per ultimo, il disegno di legge imprime una netta curvatura autoritaria al rapporto tra polizia e cittadini, così chiudendo il tormentato tentativo di democratizzarlo, perseguito, nel tempo, con la previsione di non punibilità della reazione all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, la dichiarazione di incostituzionalità della necessaria autorizzazione del ministro per procedere nei confronti di operatori della polizia per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, la sindacalizzazione e smilitarizzazione del corpo, l’abrogazione del delitto di oltraggio e via elencando. Questo percorso, subirà, in caso di approvazione del disegno di legge, una drastica inversione che ripristinerà una situazione simile a quella degli anni Cinquanta (un’epoca in cui – è bene ricordarlo – le politiche di ordine pubblico lasciarono sulle strade e nelle piazze del Paese oltre 100 morti). Ciò grazie a disposizioni che prevedono tra l’altro, per gli operatori di polizia, la già ricordata tutela privilegiata nel corso di manifestazioni; una particolare assistenza sul piano legale consistente nella possibilità, ignota per gli altri pubblici ufficiali, di fruire, se indagati o imputati per fatti inerenti al servizio, dell’anticipazione da parte dello Stato di una somma di 10.000 euro per ogni fase del giudizio per spese di difesa (con possibilità di rivalsa nel solo caso di responsabilità a titolo di dolo giudizialmente accertata); l’autorizzazione a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio; una maggior libertà di azione simboleggiata dalla possibilità – nei confronti di associazioni terroristiche (ma con evidente potenzialità espansiva) – di intervenire non solo a mezzo di “infiltrati” ma anche mediante “agenti provocatori”, e dalla dotazione – per i servizi di ordine pubblico (e non solo) – di dispositivi di videosorveglianza idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento.
6.
Concludo con una sola osservazione. Il disegno di legge è stato inizialmente sottovalutato, tanto che, nei mesi successivi alla sua presentazione, è stato ignorato dai più. Oggi si comincia a percepirne la gravità. Non basterà a impedirne l’approvazione. Ma potrà servire a prendere le contromisure (come tante volte hanno saputo fare i movimenti di opposizione) e, soprattutto, a impegnarsi per costruire una cultura che abbia come riferimento non il testo unico di pubblica sicurezza ma quel diritto alla felicità che i padri fondatori vollero inserire nel preambolo della Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1789.