Precisazioni sugli zombetti

Preso atto del vespaio provocato dal testo sugli “zombetti”, ritengo opportuno fornire alcune precisazioni dal momento che le considerazioni ivi contenute mi pare siano state solo parzialmente intese e che il vero nocciolo della questione sia stato, con poche ma significative eccezioni, ignorato o eluso.
Partirei proprio dalla genesi del testo.
L’articolo deriva dal montaggio di una serie di aneddoti, riflessioni, considerazioni che ho raccolto nel triennio 2016-2019 in un anti-diario di scuola. In che senso “anti-diario”? Solitamente nel diario di scuola l’insegnante appunta gli argomenti delle lezioni, le interrogazioni, le difficoltà incontrate dagli allievi, i loro progressi. Più in generale, lo svolgimento delle attività didattiche e la riflessione su di esse. Man mano che trascorrevano i mesi e poi gli anni io mi rendevo invece conto che, nonostante gli sforzi spropositati e disperati portati avanti da me e dai miei colleghi nel tentativo spesso vano di fare lezione, andavo accumulando in massima parte tutta una serie di episodi surreali e grotteschi che avvenivano tra le mura scolastiche, oscillanti tra il tragico e il comico a seconda del punto di osservazione, oltre alla registrazione del puntuale e disarmante naufragio di qualsiasi strategia, metodologia, attività, proposta didattica.
L’istituto scolastico al quale mi riferisco è situato in un’area estremamente periferica della città in cui da alcuni anni vivo, in un quartiere cosiddetto “a rischio”. Non ne faccio il nome per tutelare i numerosi colleghi che tuttora v’insegnano e di cui ho grande stima: gente che ogni santo giorno si arma di pazienza e coraggio e va in trincea. Io l’ho fatto per tre anni. All’inizio con grande sofferenza, poi con sempre maggiore motivazione e passione. Lo scorso anno, a malincuore, ho chiesto e ottenuto trasferimento presso un altro istituto (il testo è stato pubblicato a novembre ma in larga parte è stato scritto prima della scorsa estate), più vicino a casa, dal momento che il servizio dei trasporti urbani, nel corso degli anni, è andato peggiorando al punto da rendere proibitivo e in certi giorni addirittura impossibile il viaggio quotidiano da casa a scuola.
La questione, a mio avviso estremamente preoccupante, se non angosciante, della criticità della situazione emotiva-relazionale-comportamentale-cognitiva-culturale in cui versano le nuove generazioni.
Ma cosa impediva il regolare svolgimento delle lezioni? Al di là delle situazioni spesso frequenti nelle scuole di “frontiera”, ben note a tutti i colleghi che ne hanno fatto esperienza – mi riferisco alle varie forme di microcriminalità, bullismo, vandalismo, disagio sociale e familiare che indubbiamente influivano pesantemente sulla vita scolastica –, ciò che rendeva estremamente difficile portare avanti le attività didattiche era la presenza nelle classi di una percentuale impressionante di alunni affetti da tutta una serie di gravi disturbi, spesso combinati tra loro e non certificati: disturbi del comportamento, disturbi di tipo relazionale, dell’attenzione, cognitivi, ossessivo-compulsivi, iperattività o abulia. Su tutto dominava un’aggressività tale da rendere la vita sociale all’interno dell’istituto paragonabile, appunto, a quella degli zombi.
La riflessione sugli “zombetti” nasce pertanto dall’osservazione di una realtà scolastica circoscritta e limitata. Nel corso degli anni, confrontando la mia esperienza con quella di molti altri colleghi che insegnano in contesti scolastici anche parecchio diversi tra loro (dal punto di vista geografico, sociale, culturale ed economico) è emerso che i comportamenti disfunzionali, più o meno accentuati e in taluni casi esasperati, sono un fenomeno estremamente diffuso tra i cosiddetti “nativi digitali”.
Una critica al mio articolo che accolgo ben volentieri è pertanto quella di essere eccessivamente catastrofista. Certo che lo è. Si tratta di un’iperbole, di un espediente retorico. Sono un insegnante e mi limito a riferire ciò che osservo ogni giorno in classe. Non ho le cognizioni scientifiche adeguate per poter sostenere che le mie affermazioni abbiano un fondamento (eppure esiste tutta una serie di pubblicazioni nell’ambito delle neuroscienze sui temi della “demenza digitale” , della “solitudine digitale” e più in generale sui danni cerebrali e cognitivi causati dall’abuso del digitale sin dall’età pre-scolare). Il mio è un testo dalla natura puramente impressionistica. E come tutte le generalizzazioni, fortunatamente, ha dei limiti. È ovvio che non tutti i ragazzi di oggi sono zombetti, così come non tutti gli adulti sono degli irresponsabili. Potrei citare una lunga serie di esempi virtuosi dell’una e dell’altra generazione. Ad esempio gli alunni che ho incontrato quest’anno (in larga parte di origine straniera) hanno rappresentato una bella sorpresa. La tendenza generale, tuttavia, è quella descritta nel testo incriminato.
In realtà tutto l’articolo è una provocazione e lo scopo di ogni provocazione è quello di richiamare l’attenzione di chi legge su una questione che chi scrive ritiene cruciale. La questione, a mio avviso estremamente preoccupante, se non angosciante, della criticità della situazione emotiva-relazionale-comportamentale-cognitiva-culturale in cui versano le nuove generazioni. Il testo sugli zombetti voleva essere un campanello d’allarme. Un monito. E avrei voluto fosse letto in quel senso.
Molti lettori invece si sono fermati a una lettura superficiale, sentendosi indignati e offesi per il fatto che un insegnante abbia osato descrivere le nuove generazioni in questi termini
Molti lettori invece si sono fermati a una lettura superficiale, sentendosi indignati e offesi per il fatto che un insegnante abbia osato descrivere le nuove generazioni in questi termini. Mi rendo conto che quella degli “zombetti” sia una metafora indigesta e politicamente scorretta in un’epoca di buonismo dilagante e che possa aver infastidito molti. Semplicemente mi è sembrata l’immagine più potente e calzante per rendere l’idea e me ne assumo ogni responsabilità. Ciò che ha scandalizzato di più è il fatto che essa sia stata riferita alle giovani generazioni. Da parte mia credo invece che tutta questa vicenda sia sintomatica del fatto che noi italiani continuiamo a essere (geneticamente?) vittime di un vizio e di un tabù: il primo è quello del familismo ipocrita, che da una parte ci impedisce di osservare in faccia la condizione odierna quantomeno “inquietante” dei nostri ragazzi, mentre dall’altra ci spinge ad abbandonarli al loro destino, delegando la loro educazione agli influencer di youtube, alla playstation, ai social, alla pornografia online. Questo perché noi cosiddetti adulti siamo preda di un doppio incantesimo, quello della frustrazione e del narcisismo (cos’altro sono i selfie che compulsivamente ci scattiamo dovunque, inviamo a chiunque e postiamo dappertutto?). Adulti solo sul piano anagrafico, in realtà eterni adolescenti irresponsabilmente rivolti verso noi stessi, distratti dai “social” e dalla ricerca puerile e perenne di gratificazioni, ma anche (fattore estremamente importante e al quale nell’articolo avrei dovuto dare più peso) stritolati da un mercato del lavoro disumanizzante che impone ritmi tali da rendere genitori e figli perfetti sconosciuti. Il tabù è invece quello del pessimismo: qui in Italia bisogna sempre “pensare positivo” e cantare che “il cielo è sempre più blu”. Se non la pensi così, sei un pazzo, un insensato e devi andare in analisi («ma come fai a pagarti l’analisi con lo stipendio che ti ritrovi?!», è la battuta che mi suggerisce un’amica e collega…). Personalmente rivendico il diritto al pessimismo e mi dichiaro radicalmente alieno dall’ottimismo acritico e irragionevole nei confronti del presente e del futuro, dal mantra sviluppista e dall’idolatria fanatica nei confronti dell’innovazione tecnologica costi-quel-che-costi. Temo anzi che il sentir nazionale sia, da questo punto di vista, ancora fermo alla vecchia storia delle “magnifiche sorti e progressive” e all’accanimento censorio e persecutorio nei confronti delle voci fuori dal coro.
Questo perché noi cosiddetti adulti siamo preda di un doppio incantesimo, quello della frustrazione e del narcisismo
Ma torniamo ai fantomatici zombetti (nome alterato, vezzeggiativo: qualcuno ricorda il buon vecchio zio Tibia?): a scanso di equivoci, ci tengo a precisare che l’invettiva non era rivolta contro i nativi digitali. Essi, per come la vedo io, di questa situazione sono semmai le vittime. Vittime di che cosa? Vittime di abbandono. Vittime della dimenticanza da parte di noi adulti, che ci scandalizziamo se il prof cattivo li chiama “zombetti” ma che non rendiamo certo loro un buon servizio rifiutando di riconoscerne quantomeno la solitudine, la tendenza all’alienazione, all’isolamento autistico, l’incapacità sociale, la sempre più inadeguata coordinazione motoria. Noi adulti che ci ostiniamo a ignorare i danni incommensurabili che smartphone e social hanno arrecato alle competenze di lettura, scrittura e calcolo. Pare che l’analfabetismo funzionale di ritorno colpisca oggi il 47% degli italiani che risultano sprovvisti delle competenze di base necessarie per muoversi autonomamente nella società contemporanea [fonte: Treccani]. Pare anche che «solo il 20% della popolazione adulta italiana possegga gli strumenti indispensabili per orientarsi con efficacia e in modo autonomo nella vita di tutti i giorni. Il restante 80% se sa leggere e scrivere lo fa con difficoltà e solo per brevi elaborati, ha difficoltà nell’analisi di un grafico o addirittura non sa fare niente di tutto ciò» [idem]. Ora, se ci sforzassimo di osservarci onestamente allo specchio, squarciando il velo di Maya delle apparenze e delle ipocrisie e prendendo coscienza del disastro, sarebbe già un buon punto di partenza per poter cominciare a immaginare un cambiamento di rotta.
L’invettiva, lo ribadisco, non riguardava gli zombetti, ma era rivolta contro la società dello spettacolo, contro la santificazione acritica dell’innovazione tecnologica e del digitale, contro la macelleria sociale causata dalle politiche economiche, contro il modello sociale rappresentato da noi adulti. Contro la nostra inadeguatezza nell’essere adulti, genitori, insegnanti.
Non sono un “boomer”, sono un neo-quarantenne che si fa il mazzo così, quotidianamente
Un’ultima precisazione. Non sono un vecchio arnese sulle soglie della pensione, distante anni luce dal punto di vista anagrafico e culturale dagli alunni ai quali insegno e incapace di comprenderli. E non c’è da parte mia alcun disprezzo nei loro confronti. Anzi, c’è una grande empatia (della quale io stesso talvolta mi stupisco…), rispetto, tenerezza, curiosità, interesse. Ma anche una grande rabbia per la loro condizione, oltreché per il presente che abbiamo loro devastato e il futuro che abbiamo negato. Non sono un “boomer”, sono un neo-quarantenne che si fa il mazzo così, quotidianamente, nel tentativo di conciliare la comunicazione dei contenuti disciplinari fondamentali (i cari vecchi “programmi” che ormai da anni le direttive ministeriali ci intimano di accantonare con esiti disastrosi sul bagaglio culturale delle nuove generazioni) e la stimolazione continua dei ragazzi, attraverso una gran quantità di riferimenti letterari, musicali, cinematografici. Tutte cose che potrei fare ancor di più e meglio se gli edifici scolastici fossero meno fatiscenti e minimamente provvisti di strumentazioni adeguate (alla faccia degli assurdi corsi di formazione sugli ultimi ritrovati delle TIC che ci obbligano a frequentare, noi che in aula non possediamo neanche una carta geografica! O una lavagna decente, quella vecchia, di ardesia…). La cosa più difficile nel lavorare con gli zombetti è entrare in comunicazione con loro. Stabilire il contatto. Per ottenerlo è necessario sudarsi sul campo la loro fiducia e la stima. A quel punto anche dalle classi più problematiche si potrà sperare di cavare qualcosa. Spesso si tratta di risultati davvero minimi, infinitesimali. Ma personalmente diffido sempre dei “superprof”, dei colleghi virtuosi e di quelli meritevoli (senza contare che l’esito nel lungo periodo del processo didattico non è quantificabile così come si vorrebbe). Gli insegnanti non sono supereroi. Questo passa il convento e talvolta bisogna pur saper accettare il fallimento.