Povere moderne creature
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Con “Poor things” Lanthimos ha attraversato delle soglie su cui, fino a ora, si era mantenuto cautamente in equilibrio. Indipendentemente dalla sontuosa leziosità wesandersoniana delle scene (pur belle ma stucchevoli) e da altri elementi prettamente filmici che traghettano l’irregolare regista greco nel recinto della normalità e del botteghino, vorrei fermarmi sul senso della sua ultima pellicola. Che riassumerei in questi termini.
Un donna innocentemente anaffettiva, che non prova empatia verso animali o umani, una donna senza famiglia e senza passato, si emancipa (in realtà è già da sempre emancipata essendo fin dall’inizio sola, del tutto esterna alle convenzioni sociali), prende coscienza, si scopre indipendente e autonoma soprattutto attraverso l’esplorazione del proprio corpo e lo spiegamento di una sessualità incontenibile. Dei maschi, alla donna in questione non sembra interessare granché se non le loro possibilità di farla godere (e pure alle femmine non sembra chiedere molto altro). È una specie di monade orientata al proprio interno, una forza completamente concentrata in se stessa, invincibile. Gira il mondo, scopre la povertà (unico momento di emozione, quella di fronte a un’ingiustizia sociale fiabescamente stereotipata) e conclude la parabola in un’utopia futurista: una post-famiglia che vive in un’oasi post-biologica dove gli animali sono ibridi prodotti dall’uomo e anche gli umani si scambiano pezzi di corpo e cervelli, in cui la morte non fa paura, in cui matrimonio e sesso non hanno più alcun rapporto (“come bere un bicchier d’acqua” mi viene da dire), in cui non ci sono figli (il figlio essendo stato incorporato dalla madre – nella fattispecie attraverso un trapianto di cervello dall’uno all’altra) o se ci sono i loro padri (e le madri, in prospettiva), sono dei dott. Frankenstein buoni, simpatici, de-problematizzati, nuovi prometei senza colpa e catene, e poco male se i loro discendenti finiscono per risultare povere creature di laboratorio: alla fine si piacciono così.
Insomma, “Povere Creature” somiglia molto a una fantasia postumana abbracciata con lieto candore.
A differenza dei film precedenti di Lanthimos dove accanto alla geniale eccentricità si percepisce una resistenza, filosofica se non moralistica (penso soprattutto a “Lobster”), verso gli estremi sviluppi della modernità e le sue contraddizioni, adesso il regista pare muoversi nel pieno flusso dell’esistente e ribadire senza troppe perplessità il pensiero (non pensato) dominante. Quello di un mondo completamente artificiale, deciso dalla tecnologia, dove la natura è un giocattolo umano, dove il corpo è un’appendice manipolabile, una periferica come un’altra, in cui la confusione dei sentimenti è padroneggiata e minimizzata dalla ragione, e la ragione coincide con il perseguimento inflessibile degli interessi privati, con l’individualismo più puro e sublime.
Insomma prendere i classici del titanismo umano e della mania scientifica, dall’apertamente citato capolavoro di Mary Shelley all’ “Isola del dott. Moreau”, prendere pure i classici della formazione femminile, da “Effie Briest” a “Bovary”, togliere da essi qualsiasi traccia di trauma, inquietudine, dramma, e trasporli in un mondo fantastico tra “Amelie” e il pianeta rosso di Bogdanov, o forse il “Nuovo mondo” di Huxley.
La cosa illuminante, è che il film riesce comunque a rivelare i presupposti transumanistici del femminismo (e transfemminismo) più corrente e corrivo, cosa che quasi nessun progressista, pur sostenendolo, sarebbe disposto a fare (tipo leggendosi Haraway o Preciado) probabilmente perché non sarebbe disposto ad accettarne fino in fondo le implicazioni etiche e politiche.
L’impressione è che applaudendo un film come “Poor things” lo facciano comunque, ma senza prendersene la responsabilità.