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Piergiorgio Bellocchio: curiosità, attenzione, morale

1 Giugno 2022
Goffredo Fofi

La vicenda intellettuale e politica dei “Quaderni piacentini” non era del tutto insolita nel quadro degli anni Sessanta del Novecento, quello di una rivista che nasce locale e provinciale e assume rapidamente un’importanza nazionale, per la sua capacità di discutere il nuovo di un’epoca vivacissima. Che era quella del “miracolo economico” – sul fronte della cultura, ma legato strettamente a quello della politica – di cui ha saputo cogliere criticamente un “nuovo” che attraversava e cambiava la politica così come i costumi e di conseguenza le arti. Le riviste avevano avuto in passato la funzione di aprire al nuovo, di proporlo, esperirlo. E negli anni dei movimenti politici che esplodevano nel mondo – dopo le rivoluzioni cinese e indiana, con la decolonizzazione in Africa e Asia e le sue speranze, con le guerriglie latino-americane, con i movimenti degli studenti statunitensi, legati strettamente a quelli dei neri sia su pratiche nonviolente che violente, con la “coesistenza pacifica” nata di fatto sulla paura atomica, sulla destalinizzazione nell’Urss e l’affermarsi di proposte autonomistiche nei suoi “paesi satelliti”, le parallele rivolte generazionali in paesi come il Giappone o le Filippine, esigevano sguardi nuovi, una nuova attenzione e comprensione di cui le forze ufficiali della sinistra, condizionate dalla loro storia e burocrazia, non sembrava potessero rendere conto mettendosi al passo con la Storia.

Eppure di cose nuove ne accadevano tante anche in Italia, per esempio il luglio 1960, le migrazioni contadine verso il Nord, il risveglio degli operai della Fiat, e una vitalità delle arti quale non si ricordava dal dopoguerra, soprattutto di un cinema che sapeva raccontare i cambiamenti sia economici che di costume e mentalità con impressionante immediatezza e acutezza. I “Piacentini” seppe vedere tutto questo, esprimendo una posizione garantita da collaboratori vecchi e giovani di grande sensibilità sociale.
Ero stato cooptato nella direzione, con mia sorpresa, da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi e con loro ci spingevamo in macchina a discutere di tutto a Torino con Panzieri, Cases, Baranelli, Donolo, Ciafaloni o Bianca Guidetti-Serra, a Milano con Fortini (ma anche, alle sue spalle, Vittorini) e Edoarda Masi e Fachinelli, Sereni, Raboni, Giudici, Montaldi, Volponi e con Bianca Beccalli e Michele Salvati; in Veneto con Zanzotto, Bandini, Basaglia; a Bologna con Roversi e Stame; spingendoci raramente più a Sud, per discutere per esempio animatamente, a Roma con Pasolini o Asor Rosa e più tardi con Elsa Morante o col giovane Berardinelli. O a Firenze con Timpanaro… Una rete vasta e amicale, che stupì molto Perry Anderson, direttore dell’inglese “New Left Review”, quando venne a trovarci, perché la rivista la si faceva di fatto tra pranzi e caffè e sereni confronti, quasi mai con riunioni vere e proprie del gruppo redazionale.
Se Grazia era la solida custode delle reti, Giorgio era tuttavia l’ago della bilancia e la sua un’autorevolezza. non esibita ma che veniva da sé, mi sembrava una sorta di saggezza politica che era nata dall’esperienza nelle minoranze socialiste ma sopratutto da una formazione e da un gusto letterario di rara profondità e misura, attento al nuovo ma nutrito – come dimostra la raccolta dei suoi scritti di critica per Quodlibet – da una solida conoscenza dei classici, soprattutto dell’Ottocento, e da una sensibilità acuta verso il nuovo (o il vecchio che a volte lo insidiava) della letteratura contemporanea, italiana e straniera (e Orwell era, a ben vedere, un orizzonte comune…). Si vedano a riprova le scelte, che era lui a decidere, sui “libri da leggere” o “da non leggere”, una rubrica che faceva spesso infuriare gli scrittori e saggisti italiani allora attivi.

Apparteneva a Bellocchio una insolita serenità del giudizio, basata su un continuo ragionare, solo o in compagnia, su quanto accedeva all’intorno, e su quanto all’intorno si diceva. E forse, a fare il merito della rivista di Giorgio e di Grazia, è stata proprio l’appartenenza a una provincia italiana in cui le diversità contavano ma contavano anche, e moltissimo, l’esigenza e il bisogno di dialogo, di confronto con i mondi vicini e lontani, a partire da radici ben solide in una società e in una storia. Curiosità, attenzione, morale. Capacità di distinguere il davvero nuovo e, si può aggiungere, il davvero “di sinistra”.


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