Perché valutare, come valutare.
Le cose non vanno bene nella scuola italiana.
Gli edifici sono maltenuti ed insicuri. Mancano beni e servizi elementari. L’età di pensionamento delle/degli insegnanti è stata aumentata ripetutamente; le insegnanti perciò sono spesso anziane e stanche. Le insegnanti precarie aumentano. Aumentano le sostituzioni durante l’anno. I finanziamenti scarsi vengono dirottati sulle scuole private, per lo più confessionali. E’ grande, forse crescente, il divario tra tipi di scuole e tra regioni. Le scuole professionali, in particolare quelle regionali, anche al nord, sono inadeguate alla funzione che dovrebbero svolgere. Continua la tendenza, forse cominciata, certo accentuata, quando era Ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer a trasformare le scuole in aziende relativamente autonome, con offerte formative proprie, politiche promozionali, pubblicità, senza autonomia e responsabilità finanziaria. Non è il solo caso di funzioni, presunte, di premi e punizioni, contrastanti con la struttura complessiva: le elezioni col nome del candidato Presidente del Consiglio nel simbolo anche se non c’è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio sono un esempio non scolastico almeno altrettanto importante. Un altro esempio è il voto ai non iscritti in un congresso di partito. Alla fine può vincere la struttura o vincere la funzione presunta, come è avvenuto nel congresso del Pd, che è stato nella realtà un congresso di fondazione. O può non vincere nessuno, finire in palude, come è avvenuto per le materie interessate dalla riforma del Titolo quinto; come forse sta avvenendo nella scuola.
Anche altri sistemi scolastici sembrano in grave crisi. Non tanto quelli dei principali paesi europei, e nordici – Germania, Francia, Finlandia – quanto dei paesi anglosassoni che prendiamo a modello – Stati Uniti, Inghilterra – e dei paesi dell’America latina direttamente influenzati dai Chicago boys, dai consulenti americani dei governi locali. Della crisi grave delle scuola cilena, peruviana, messicana si trova una traccia profonda, oltre che in letteratura (per esempio Martin Carnoy, National Voucher Plans in Chile and Sweden: Did Privatization Reforms Make for Better Education?) nella memoria dei migranti, che ricordano l’incubo delle scuole pubbliche con 60 alunni per classe e la situazione più normale, ma costosa, delle scuole private. Da cui la tendenza a pagare rette difficili da sostenere anche qui, nell’ipotesi, falsa in Italia, che la scuola privata sia migliore di quella pubblica.
La discussione su privatizzazione e valutazione – le due cose vanno insieme perché nelle scuole private non c’è un programma comune e la possibilità di esami standardizzati o centralizzati uniformi – nei paesi anglosassoni risale ad un saggio del 1955 di Milton Friedman (The Role of Government in Education) ed ha prodotto articoli, rassegne e libri innumerevoli.
Negli Stati Uniti la discussione può essere emblematicamente rappresentata dal contrasto tra Diane Ravitch (Reign of Error: The Hoax of the Privatization Movement and the Danger of America’s Public Schools) e Michelle Rhee (Radical: Fighting to Put the Students First) che va ben oltre la differenza di opinioni espressa nei due libri. Ci sono polemiche sui rispettivi blog e articoli, incarichi ricoperti e perduti, accuse di incompletezza e falso, processi in corso (non tra le due autrici ma di uno Stato, il New Jersey, contro le insegnanti che avrebbero falsificato, o corretto, i test per non perdere il posto). È impossibile dare un resoconto, anche per sommi capi, delle posizioni delle parti in conflitto, anche perché, nel tempo, le posizioni sono radicalmente mutate. Diane Ravitch, nata nel 1938, democratica, ora storica affermata del sistema educativo negli Stati Uniti, sostiene la scuola pubblica e polemizza contro la dittatura dei test a risposta multipla, ma in origine ha sostenuto iniziative locali, pubbliche e private contro la burocrazia e la passività degli apparati (vedi un polemico profilo sul “New Republic” di Kevin Carey del luglio 2011, http://www.newrepublic.com/article/politics/magazine/97765/diane-ravitch-education-reform). Secondo Carey la Ravitch ha sostenuto tesi mutevoli, ma sempre in modo estremo, e sempre appoggiando gli amici personali per gli incarichi. Michelle Rhee, anch’essa democratica e consulente di amministratori democratici, sostiene che i test sono l’unico modo di difendere i diritti degli studenti contro la pigrizia dei professori, ma è accusata di falsificare i dati e di non vedere che il successo del sistema dei test ha deformato e corrotto l’intero sistema, già molto traballante. Se i finanziamenti e la possibilità stessa di utilizzare i voucher, l’esistenza stessa delle scuole e quindi del posto di lavoro, dipendono dall’esito dei test, le insegnanti allenano gli studenti a superare i test, non li formano ad essere buoni cittadini e studiosi e lavoratori competenti. Se necessario, sostiene l’accusa, gli correggono i test. Il posto di lavoro val bene una piccola frode. La prova sarebbe statistica: le correzioni, da sbagliato a giusto, sugli elaborati, ci sono da sempre, e sono lecite, ma si sono moltiplicate inspiegabilmente da quando i soldi dipendono dai risultati.
Non si tratta solo del contrasto pubblico/privato, in un sistema molto, per noi incredibilmente, pluralistico. Si tratta di degrado oggettivo del sistema scolastico americano e del modo di affrontarlo; di differenze sociali, culturali, etniche, religiose; di tendenze ideologiche in conflitto nello spiegare ed affrontare tali differenze. L’ideologia neoliberale trionfante considera il privato sempre efficiente e il pubblico sempre inefficiente; confonde libertà di scelta e privatizzazione, modernità ed imitazione dell’America. Ci si può chiedere da dove nasca questo scontro culturale negli Stati Uniti e quali sia la situazione nel Regno Unito e nei principali paesi d’Europa.
Una storia americana
L’inizio dell’intervento di Milton Friedman del ’55, citato prima, è netto, inequivocabile:
“La tendenza generale nel nostro tempo ad accrescere l’intervento dello Stato nelle questioni economiche … ha portato a ritenere tutti gli interventi avvenuti in passato come naturali ed immutabili. La pausa, forse l’inversione, attuale della tendenza al collettivismo ci offre l’opportunità di riesaminare che cosa la Pubblica Amministrazione fa già oggi e di valutare da capo quali attività siano giustificate e quali no. Questo scritto cerca di realizzare questo riesame per l’istruzione.
L’istruzione oggi è in gran parte finanziata e quasi interamente amministrata dalla Pubblica Amministrazione e da istituzioni non profit. Questa situazione si è sviluppata gradualmente ed è ora data talmente per scontata che si presta poca attenzione esplicita ai motivi di questo trattamento speciale dell’istruzione anche in paesi in cui i principi della libera impresa sono dominanti nell’ideologia e nell’organizzazione. Questo ha portato a una indiscriminata estensione della sfera pubblica.” Questa sfera va ridotta, se possibile annullata.
Quello di Friedman è un intervento serio, condotto con argomenti coerenti, anche se, cercherò di sostenere, totalmente avversi ai principi di eguaglianza e libertà di tutti i cittadini, forse anche dei soli imprenditori. Vale la pena di leggerli per intero, e di provare a sintetizzarli, anche e soprattutto per chi non creda che i ricchi, investendo i loro soldi per guadagnare il più possibile, facciano anche gli interessi dei poveri e garantiscano a tutti il miglior sistema educativo possibile. Non è un testo di pura propaganda, come quello scritto con la moglie un quarto di secolo dopo (Milton e Rose Friedman, Free to Choose: a Personal Statement, 1980, tradotto in Liberi di scegliere, 1981) che fa un uso così disinvolto dei dati da scandalizzare anche in tempi corrotti come questo (cita una o due contee, senza neppure tracciarne l’evoluzione sociale e demografica, per dimostrare che con la privatizzazione migliora il rendimento scolastico negli Stati Uniti). E’ l’applicazione all’istruzione dell’affermazione tratta da Capitalism and Freedom che Gallino ha citato ne Il colpo di Stato: “Questa, io credo, è la nostra fondamentale funzione: sviluppare alternative alle politiche esistenti, quindi tenerle vive e disponibili fintanto che il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile.”
L’argomentazione di Friedman parte dall’affermazione del principio che fine ultimo della società è la libertà dell’individuo (“realisticamente, della famiglia”, aggiunge) e che per realizzare questo fine sia necessario incoraggiare “lo scambio volontario tra individui come base su cui fondare l’attività economica”. Ci sono tre sole eccezioni a questo principio: i monopoli naturali; gli “effetti di vicinato”, gruppi dentro i quali un singolo ha costi talmente alti da risultare insostenibili, o dà vantaggi talmente alti da risultare incompensabili; gli “irresponsabili”: i matti e i bambini (la cui appartenenza a una famiglia non fa che spostare il caso dalla terza alla seconda eccezione). Tutte le differenze, enormi già allora e cresciute enormemente negli ultimi decenni, di reddito, di patrimoni, di reti sociali, di accesso all’istruzione, le differenze tra i milioni di senza tetto e disoccupati e le mille famiglie che detengono una percentuale grande e crescente della ricchezza degli Stati Uniti e del mondo, vengono racchiusi negli “effetti di vicinato”; una trascurabile imperfezione. Purtroppo, continua l’autore, non si può tracciare una linea netta tra le “politiche paternalistiche” nei confronti dei matti e dei bambini e la turbativa del mercato.
Nell’applicare il ragionamento economico generale all’educazione, continua Milton Friedman, bisogna separare in linea di principio l’educazione alla cittadinanza e l’istruzione professionale, contigue, interagenti, ma, nella forma pura, diverse. L’educazione alla cittadinanza di un singolo bambino produce armonia sociale e dà vantaggi non quantificabili a ciascun altro bambino. Non si può far pagare ai genitori degli altri bambini ciò che ricevono perché non lo si può quantificare. Non si può neppure obbligare i singoli genitori a pagare l’educazione dei figli come si obbliga a pagare l’assicurazione sull’auto o sulla casa, per la sicurezza degli altri, perché ci si può disfare dell’auto o della casa, ma non dei figli, se non negando il principio della famiglia come unità primaria. Addebitare il costo dell’educazione dei figli ai genitori aiuterebbe a ridurre il numero dei figli dei poveri; ma i figli che ci sono già non si possono distruggere. Perciò ha senso il contributo pubblico all’educazione. Non ha senso la la sua nazionalizzazione, la sua gestione pubblica. Bisogna dare alle famiglie un contributo, un voucher da spendere come preferiscono nelle scuole “approvate”, un po’ come è avvenuto nel programma per i reduci della seconda guerra mondiale, precisa l’autore.
E, se le scuole vengono gestite da organizzazioni religiose, o ideologizzate, non porteranno ad una educazione settaria, faziosa, anziché alla coesione sociale? Il pericolo c’è. Ma, ci rassicura Friedman, se ci sarà libertà di scelta, i genitori potranno contrastare il settarismo con i mezzi del mercato, più facilmente che con quelli della politica, togliendo i figli dalle scuole che non li soddisfano. Basterà il controllo pubblico a garantire un blocco sufficiente di valori condivisi. C’è il problema reale delle comunità troppo piccole per avere più di una scuola, ma è diventato meno importante con l’urbanesimo e i trasporti. Perché non abbiamo fatto tutto questo fino ad ora, si chiede Friedman? Per la diffidenza verso i sussidi e le difficoltà di gestirli. Ma, se si decentra, la gestione si semplifica. Per l’istruzione superiore gli argomenti contro la gestione pubblica, o addirittura contro il solo voucher, si rafforzano.
L’investimento in istruzione professionale, invece, “è investimento in capitale umano, esattamente analogo all’investimento in macchine, fabbricati, o altre forme di capitale non umano. Serve ad accrescere la produttività economica dell’essere umano.” L’investimento in istruzione, calcolato come somma dei mancati guadagni, degli interessi sui mancati guadagni, del costo vivo dei corsi frequentati, dovrebbe essere compensato da un aumento dei redditi futuri. Lo è stato nella realtà? Friedman ci informa di aver calcolato (con Kuznets) che la resa degli investimenti in istruzione professionale, nell’immediato dopoguerra, negli Stati Uniti, è stato da due a tre volte la resa media degli investimenti. Perché c’è stato questo sottoinvestimento in istruzione? Perché investire in esseri umani non schiavi richiede il loro pieno consenso al momento della restituzione. Perché c’è grande variabilità negli esiti. Perché specializzazioni lunghe possono richiedere impegni nel tempo non affrontabili da molti. Si potrebbero vendere azioni, ipotizza Friedman, con molti dettagli, che diano diritto a una frazione dei guadagni futuri di una certa persona, cosa non illegale, ma che certo configura “una forma di schiavitù parziale”.
Conclusioni di Milton Friedman. Gli enti pubblici locali, che vedono da vicino le situazioni, dovrebbero mettere a disposizione dei genitori le somme necessarie a consentire loro di mandare i figli alla scuola che preferiscono. Dovrebbe essere invece il Governo centrale a finanziare l’istruzione professionale dei giovani prestando loro le somme necessarie in cambio della promessa di restituirle con una parte dei loro redditi futuri, accresciuti dall’istruzione avuta, perché gli enti locali correrebbero gli stessi rischi e avrebbero le stesse difficoltà degli investitori privati.
Si può provare a smontare il ragionamento punto per punto. Ma comincerei col sottolineare una cosa che dovrebbe essere ovvia anche solo a chi legga questo scritto, ancora di più a chi conosca o si prenda la briga di leggere per intero il testo di Friedman. I concetti che usa, le misure che propone, si sono così compiutamente diffusi e realizzate, non solo negli Stati Uniti ma in buona parte del mondo, in particolare in Italia, che si fa fatica a ricordarsi che si tratta di un testo di sessanta anni fa, scritto quando in Italia si discuteva di imponibile di manodopera, di Piano del lavoro, di riforme o rivoluzione. Tutti dicono “capitale umano”, voucher, “prestiti d’onore”, trascurando interamente il riferimento alla “schiavitù parziale”, alle premesse individualistiche e familistiche, ben presenti all’autore, vere solo se le si impone, riducendo ogni misura sociale, nel sistema sanitario, nella scuola, nella casa, a “politiche paternalistiche”. Realmente il “politicamente impossibile” è diventato “politicamente inevitabile”.
Il rovescio della medaglia
I miei princìpi, forse identici a quelli dei lettori di questa rivista, sono opposti. Senza la società, senza culture condivise, senza Costituzione, leggi, diritti, democrazia, pubblica istruzione, gli individui liberi non esistono. Non è il caso però di limitarsi al vecchio contra negantem principia non est disputandum e passare ad altro. Le parole e le proposte, di Milton Friedman sono diventate il linguaggio dominante, le pratiche più diffuse. Bisogna almeno vedere cosa è cambiato da quando il testo è stato scritto, nel bel mezzo dei quarant’anni, tra il 1930 e il 1970, in cui, per citare Marcello De Cecco, i soldi andavano a finanziare la produzione e non la rendita realizzata provocando bolle e crisi in successione, come avveniva prima del ’30 ed è tornato ad avvenire dopo il ’70. Era il periodo in cui, come sosteneva Kuznetz, il collaboratore di Friedman nel confrontare il rendimento degli investimenti in istruzione agli altri investimenti, lo sviluppo provocava aumento dei redditi da lavoro e riduzione delle diseguaglianze. Le differenze, in effetti, si riducevano negli Stati Uniti e nei maggiori paesi industriali. C’era la ricostruzione in Europa, la nascita o l’aumento del welfare state; la nascita dei sistemi sanitari nazionali nel Regno Unito, in Francia, in Germania; la nascita dei sistemi pensionistici universalistici; l’alfabetizzazione e l’istruzione secondaria di massa; l’allungamento dell’attesa di vita. Modigliani scriveva il saggio sul ciclo vitale del risparmio, fonte di infiniti guai nei decenni successivi, fondato, tra l’altro sull’ipotesi che il risparmio dei ricchi fosse irrilevante, che a risparmiare dovessero essere i poveri, perché i ricchi erano sì tali, ma erano pochi. L’ipotesi era infondata anche allora; ma con l’aumento delle differenze tra il 1980 ed oggi è diventata ridicola. Quelli che Friedman chiama “effetti di vicinato”, cioè l’appartenenza ad ambienti privilegiati o diseredati, interessano quasi tutta la società. I ceti medi si contraggono; i molto ricchi e i molto poveri aumentano. Aumentano paurosamente i disoccupati, il cui contenimento era stato lo scopo centrale delle politiche economiche. Una teoria che sostiene che la disoccupazione involontaria non esiste; che bisogna solo far scendere il costo del lavoro fino al livello a cui conviene assumere, non aiuta a combatterla. Sembra incredibile che in una situazione in cui molti precari lavorano per salari sotto la sussistenza, usando i risparmi o l’aiuto della famiglia per vivere, qualcuna ancora sostenga che bisogna lavorare per meno e che si tratta solo di scegliere tra tipi di investimento, in macchine o in capitale umano.
Capitale umano è una metafora. E’ possibile che nei decenni scorsi le specializzazioni più importanti (medici, tecnici informatici) abbiano guadagnato molto e contribuito ad aumentare la differenza tra ricchi e poveri. Ma se non c’è qualcuno con un capitale vero – soldi – che ti assume, capitale umano è sinonimo di disoccupato intellettuale o specializzato. Il prestito agli studenti universitari, preconizzato da Friedman, è diventato pratica corrente negli Stati Uniti e in passato ha realizzato la quasi schiavitù dei laureati non al massimo del reddito per le pesanti restituzioni. Oggi è una delle bolle più minacciose, delle dimensioni di quella dei mutui, perché la disoccupazione è salita, i redditi sono calati e i laureati non sono in grado di restituire.
Per quel che riguarda la scuola, la cultura, è quasi inverosimile che si possa pensare che un sistema scolastico, che dipende dalla esistenza di strutture consolidate, curricula, insegnanti preparati, nasca dalla scelta, di volta in volta, di singoli in cerca del miglior impiego per il proprio denaro. Che si possa entrare o uscire da una professione difficile per un incentivo ottenuto o mancato.
Una storia italiana. La privatizzazione e i test
In Italia l’effetto pratico del trionfo delle tesi di Friedman è arrivato più tardi, ma sta colpendo duro. Il nocciolo della proposta che sembra oggi dominante, nei partiti di governo ma anche in ambienti non direttamente partitici, è la privatizzazione, la libertà di scelta (è il titolo del libro scritto da Milton e Rose Friedman citato, ma anche la convinzione di molti), garantita dalla approvazione degli istituti e regolata da un sistema di valutazione centralizzata per dividere i soldi tra i meritevoli – in un senso e con fini assai diversi da quelli della Costituzione.
Ma non saranno i soldi negati, a chi sta già male, o concessi, a chi sta meglio, a creare buoni insegnanti, buona didattica, un buon rapporto con i ragazzi. Soprattutto non saranno i premi e le punizioni a favorire il modesto ma non insignificante contributo che la scuola può dare nei quartieri, ai gruppi sociali peggio messi. Una decina di anni fa stava per andare in pensione metà degli insegnanti italiani (delle insegnanti, per rispettare le proporzioni) in pochi anni, per raggiunti limiti di età. L’età di pensionamento è stata aumentata, in particolare per le donne. Le pensionate sono, per forza, diminuite. Ma gli anni passano. L’uscita di massa è, di nuovo, alle porte. Entreranno, per forza, centinaia di migliaia di insegnanti nuove. Se si guardano le provenienze e le età dei partecipanti all’ultimo concorso non si può non vedere che, data la disoccupazione crescente, ci sarà una corsa verso la zattera di salvataggio dell’impiego stabile, non una formazione ad un compito difficile. Chi era già critico degli atteggiamenti e dei comportamenti delle insegnanti ha ragione di mere che peggiorerà.
L’aspetto per me più preoccupante del sistema INVALSI è la sua natura di sistema totale, interno alla riduzione dei comportamenti umani ad economia, sordo ai rapporti che sono sempre esistiti, che devono continuare ad esistere tra creatività culturale e scuola. L’unico rapporto della sfera pubblica con la scuola è un sistema di valutazione che lega i singoli, non solo le singole scuole ma i singoli ragazzi, al loro rendimento; che misura l’efficacia della loro trasformazione in capitale umano. Se poi qualcuno gli pagherà o no uno stipendio, un salario, o gli farà credito, è un problema loro, non della sfera pubblica.
L’uso dei test a risposta multipla non mi spaventerebbe se fosse uno degli strumenti usati, a certi fini, qualche volta. Se ci sono, come ci sono, problemi di comprensione dell’italiano, e non solo nelle scuole secondarie, per accertarsene bisogna porre domande precise. Ho passato un po’ di tempo a risolvere problemi PISA e INVALSI, soprattutto problemi pratici o geometrici, ma anche di comprensione dei testi. Non mi sembrano domande fuori luogo o inutili. Meglio che far ripetere a memoria i teoremi o i giudizi critici su un autore di cui, forse, non si capiscono le parole. Certo la scuola dovrebbe essere molto più. Ma non sono i test a risposta multipla che la distruggono. I test sono una delle forme di controllo anche su di sé, di ciò che si è capito. Il pericolo è la riduzione dei rapporti umani a economia e della scuola a creazione di capitale.