Per un nuovo welfare
Temi come quelli dell’emarginazione, della povertà e dell’ingiustizia sociale appartengono alle società di ogni epoca e latitudine. Ciò che fa la differenza è il modo in cui le società si organizzano per affrontarli. Rispetto alle società del passato, la nostra avrebbe il vantaggio dei tanti suggerimenti che l’esperienza di secoli e le teorie fornite da scienze, filosofie e religioni potrebbero offrirle.
Non rientra nelle nostre capacità, né è nostro compito, stabilire se oggi ci sia più o meno ingiustizia sociale, povertà ed emarginazione rispetto al passato. Tentiamo tuttavia di proporre in maniera (probabilmente troppo) sintetica alcuni punti a premessa di questo piccolo manifesto sul welfare.
1) Ricchi e poveri
La sproporzione tra ricchi e poveri, in ogni regione del mondo, è tutt’altro che azzerata, anzi la crisi internazionale e le politiche degli stati per farvi fronte sembrano oggi aggravare questa forbice. Qualsiasi discorso sul welfare presuppone una diversa organizzazione dei mezzi di produzione e del sistema di distribuzione delle ricchezze. Immaginare i modelli di società verso cui tendere è il presupposto indispensabile per ridefinire concetti e categorie chiave usati in questi anni dalle politiche sociali come “disagio”, “esclusione”, “devianza”, “illegalità”.
2) Vocabolario
Termini come “povertà” non hanno più lo stesso significato che avevano nel secolo scorso. Anche se l’attuale crisi internazionale sta portando a nuovi cambiamenti, il consumismo del 2000 (caratterizzato dalla preferenza di beni superflui a quelli di prima necessità) ha stravolto anche significati e significanti del vecchio vocabolario del disagio sociale.
3) Sovranità ridotta
In Europa i governi nazionali fruiscono di aiuti e hanno più peso in ambito mondiale (o almeno ce l’hanno alcuni dei governi europei) anche in cambio della rinuncia ad alcune delle proprie funzioni sovrane. In ambito di immigrazione ad esempio, molta parte della legislazione italiana non può che uniformarsi a quella europea. Anche in materia di sicurezza e sanità, per molti versi, i governi locali non possono che uniformarsi alle direttive europee. E molti dei fondi europei (oggi tra le poche possibilità di tenere in vita iniziative negli ambiti più disparati) sono subordinati al rispetto di regole e finalità stabilite dagli organismi sovranazionali che li elargiscono (ovviamente tutto questo è vero in teoria, perché in pratica innumerevoli e diversificati sono i modi che gli stati si sono inventati per fare in altro modo).
- Bilanci
Alla voce “welfare” appartengono molte delle azioni e misure di uno stato (pensioni di lavoro e invalidità, sanità, etc.). Solo una piccolissima fetta del bilancio italiano viene destinata al sistema degli aiuti direttamente rivolti a migliorare condizioni di povertà ed emarginazione conclamate. L’istituzione di un fondo a questo destinato è avvenuto solo negli anni ’90 e la sua programmazione non va oltre l’anno, impedendo così a comuni e altri enti locali di predisporre una programmazione di più ampio respiro.
- Invisibili
Un’ampia fascia di popolazione, come i migranti nelle Terre di lavoro tra Napoli e Caserta, pur contribuendo a produrre reddito ed essendo di fatto la colonna dorsale di molta economia locale, solo per il fatto di non possedere un regolare permesso di soggiorno, non viene contemplata nei piani di zona (l’analisi dei bisogni e la “lista” dei servizi che uno o più comuni propongono a governo e regioni per il proprio territorio): la spesa sociale si basa su dati e analisi di contesto difformi dalla realtà.
Primo movimento
Anche per uniformarsi ai modelli degli altri stati, a partire dagli anni novanta l’Italia ha tentato di avviare una riforma dello stato sociale. La pretesa mutazione è stata inserita in un sistema caratterizzato per lo più da servizi di base erogati dal pubblico (e in maniera molto difforme a seconda tra nord e sud) e dal supporto di un volontariato non remunerato e militante (religioso, comunista, anarchico o comunque basato su motivazioni e rivolto a finalità che avevano radici negli ideali attorno a cui quelle stesse organizzazione cercavano di radunare proseliti).
- Esternalizzazione
Molte delle funzioni pubbliche sono state “esternalizzate”, cioè affidate al privato sociale, ovvero alle suddette organizzazioni che decidevano di inserire il proprio “volontariato” all’interno di un nuovo sistema fatto di finanziamenti, bandi, concorrenza con altre organizzazioni analoghe, capacità di creare impresa e altri elementi ascrivibili ad una logica di mercato. Fino a pochi anni fa (seppure, ribadiamo nuovamente, costituissero una piccola porzione del bilancio nazionale) i finanziamenti destinati a questo settore hanno fatto in modo che molte di queste organizzazioni divenissero vere imprese, con migliaia di dipendenti, rigidamente gerarchizzate e capaci di immolare valori e ideali di un tempo alla produttività (presunta, perché poi molte di queste organizzazioni hanno lavorato in assenza di sistemi di monitoraggio e verifica effettiva). Anche se molte sono rimaste piccole organizzazioni, il tipo di assetto a cui si sono uniformate le più grandi è stato capace di creare cultura di impresa come tendenza dominante per chiunque volesse occuparsi di sociale.
- Conseguenze
Se il nuovo sistema ha permesso di raggiungere sacche del disagio prima inesplorate, garantendo talvolta anche una buona qualità del servizio, al contempo impoveriva il bagaglio valoriale e la spinta motivazionale della parte di società storicamente tesa a combattere il disagio sociale. Migliorava in molte occasione la capacità di supportare l’individuo nella sua unicità, ma risultava intaccato il progetto politico, quello di cambiamento del contesto in cui questa individualità si trovava e in cui si sarebbe di seguito trovata ad affrontare i propri temi di vita. Christopher Lasch e Ivan Illich parlerebbero di medicalizzazione della società.
Questo anche per il parallelo venir meno della funzione svolta da partiti e altre organizzazioni “politiche”, quelle capaci di andare al di là dell’amministrazione dell’ordinario e rivolte alla creazione di società davvero nuove se non rivoluzionarie.
- Dipendenza assistente-assistito
La riforma del sociale degli anni novanta ha per molti versi aggravato la dipendenza assistente-assistito.
a) Dal punto di vista psicologico
Teorie come quelle ascrivibili alla psicologia transazionale di Eric Berne hanno messo in evidenza come il triangolo vittima-persecutore-salvatore sia alla base anche di molte relazioni di aiuto. Nella strutturazione del proprio carattere i salvatori sono all’eterna ricerca di una vittima da salvare e di un persecutore da incolpare, nel tentativo di evitare di affrontare i propri temi di vita. La vittima, chi sta male, soffre e ha bisogno, divenendo per i salvatori linfa vitale nella misura in cui permette loro di continuare a mantenere equilibrio e senso alla propria esistenza. Stessa dinamica, ma dalla diversa posizione scelta, avviene per vittime e persecutori, anche loro con un copione di vita sempre uguale. È questo uno dei principali circoli viziosi attraverso cui una società perpetua i suoi orrori, perché malgrado fatica, sofferenza e energie spese da vittima, persecutore e salvatore siano reali, per nessuno la reale motivazione coincide con il mutamento sociale, bensì con il perpetrarsi della situazione originaria. Il lavoro teorico-pratico dei transazionalisti e di molti psicologi sociali ascrivibili ad altre scuole ha messo bene in evidenza che il cambiamento sociale è possibile solo se si esce da questo triangolo. Se cioè le persone cominciano di nuovo a relazionarsi in maniera autentica (per dirla con Carl Rogers), vedendo l’altro così com’è e non in quanto pedina funzionale alla realizzazione dei propri piani (poco importa se buoni o cattivi).
b) Dal punto di vista economico
La dinamica psicologica sopra descritta collude in maniera pericolosa con l’altra di tipo economico. Se sul versante psicologico il salvatore ha assoluto bisogno di vittime per mantenere il proprio equilibrio, dal punto di vista economico “salvare la vittima” nel mercato del sociale è diventato una professione. In un’ottica di mercato diventa perciò necessario ricorrere a tutte le strategie di marketing, comprese quelle tese a mettere in evidenza le caratteristiche più appetibili della propria merce (e nel nostro caso il grado di sofferenza delle vittime è una delle qualità che più interessano i possibili donors), anche inventando o ingigantendo l’esistente.
Scampia in questo senso è un esempio eloquente: il risveglio dell’attenzione mediatica e l’arrivo di fondi e interventi pubblici in occasione di ogni nuovo omicidio conviene a tutti, in primis al privato sociale che ogni volta prende una boccata di respiro (solo economica, ovviamente) necessaria alla sopravvivenza del proprio fare.
Secondo movimento
A seguito della crisi internazionale di questi anni è oggi in atto un nuovo mutamento, con una situazione che per sommi capi potremmo così riassumere.
- Carenza servizi di base
I servizi di base ancora garantiti dal pubblico non sono migliorati. In molti casi anzi, come in quello della scuola pubblica, è addirittura diminuito il rapporto insegnanti/alunni, è quasi scomparso il tempo pieno e non ci sono azioni concrete per il miglioramento del corpo insegnante (ancora caratterizzato da precariato e demotivato rispetto a temi come la formazione permanente).
- In mezzo al guado
La fetta di “bisogni” intercettati e parzialmente affrontati con l’avvento del privato sociale sono rimasti per lo più “in mezzo al guado”, nell’illusione indotta che tutto potesse essere definito “male sociale”, da curare con l’intervento di professionisti e finanziamenti statali. I pesanti tagli del governo centrale e l’incapacità di molte amministrazioni locali a ottimizzare l’esistente e a procurarsi nuove risorse, ha fatto sì che molti degli interventi, anche quelli “storici” (come le educative territoriali) venissero meno. Molti dei lavoratori di questo settore non ricevono stipendio da anni e accettano regimi contrattuali pre-industriali.
- Sovra investimento
In presenza del crescente malessere sociale e in assenza del pubblico, è paradossalmente sempre più al privato sociale che viene richiesto di svolgere tanto le sue funzioni più recenti (quelle appunto di erogazione di servizi, ma senza più risorse e quindi senza operatori professionali), quanto quelle più antiche di stampo “politico” (un tempo svolte dai partiti) o di inchiesta e informazione (un tempo svolto dai giornali, sindacati e gruppi di inchiesta).
- Selezione naturale
Come avviene per i cittadini, anche nel privato sociale sembra che governare lo stesso meccanismo di polarizzazione: organizzazioni già forti e ricche (come le grandi cooperative sociali o le nuove aziende, a regime pubblico-privato, che vendono “servizi alle persone”), lo diventano sempre di più, perché si basano sullo sfruttamento del lavoro dei propri operatori (per lo più dequalificati e demotivati) e adempiono alle funzioni meramente formali e/o di controllo sociale che il pubblico richiede loro.
- Navigazione a vista
La totale precarietà dell’intervento e l’impossibilità di programmare diventano le caratteristiche del privato sociale di oggi. E questo proprio in un settore in cui le questioni non possono essere affrontate se non sul lungo e medio periodo e con professionalità adeguate.
- Lo scacco dei funzionari
Malgrado i tagli, la macchina amministrativa rimane estremamente costosa e spesso sotto lo scacco degli stessi dirigenti e funzionari incapaci di apportare mutamento sociale e di utilizzare in maniera adeguata le risorse umane interne al proprio organico (molto spesso sottoutilizzate e altrettanto demotivate). La differenza contrattuale tra i dipendenti pubblici (anche di quelli preposti al “sociale”) e quelli privati che per il pubblico svolgono funzioni e compiti esternalizzati è una stridente ingiustizia sociale a cui governo e amministrazione dovrebbero porre riparo.
- L’impresa dei servizi
A fronte della mancanza di risorse da destinare al sociale, sempre più politici, amministratori e “esperti” suggeriscono alle associazioni di convertirsi in impresa. Nella crisi conclamata dell’imprenditoria (il picco negativo di molta parte del commercio equo e solidale ne è un esempio) molte organizzazioni tentano disperatamente di ri-convertire la propria mission (pur essendo sprovviste di know-how e competenze adeguate) e i servizi essenziali – difficilmente “confezionabili” e vendibili – rimangono senza più erogatori sia nel pubblico che nel privato.
- Fondazioni
Molti dei servizi del pubblico e del privato rimangono ormai subordinati alla volontà di fondazioni bancarie e di altre organizzazioni private, più abili a mettere insieme e trasferire risorse. In un sistema di selezione però sempre più crudele e ipocrita, capace di creare inimicizia e concorrenza in un clima da vera e propria guerra tra poveri.
- E oltre ai soldi?
Esempi come quelli dei rom dimostrano che il problema del sociale non è solo la mancanza di risorse economiche. Nella ricerca a cui abbiamo partecipato I rom in Comune (a cura di Giovanni Zoppoli e Francesca Saudino, Mammut 2012) è ampiamente documentato come il Comune di Napoli (come molti altri comuni italiani) abbia finora affrontato (e continui a farlo) la “questione rom” con enorme spreco di risorse. Continuando a costruire campi e centri di accoglienza, l’amministrazione comunale alimenta il sistema basato su emergenza e meccanismi collegati. I soldi spesi per la scolarizzazione dei rom ad esempio, non riescono a migliorare davvero il rendimento scolastico, ma ottemperano a criteri formali (come la frequenza) e costituiscono un palliativo alla “politica dei campi” (che essendo lontani da tutto, hanno bisogno di servizi come quelli di scuolabus ad uso esclusivo dei bambini abitanti nei campi). Nelle scuole più vicine ai campi e ai centri di accoglienza c’è un’alta concentrazione di adulti rom che continuano così a essere percepiti e affrontati come problema da alunni, genitori e docenti. Problemi a cui si continua a dare una risposta “etnica” e non migliorativa dei servizi e delle istituzioni “di tutti”.
Terzo movimento
L’attuale crisi economica internazionale ha messo definitivamente in ginocchio il sistema del welfare quale lo conosciamo, ponendo la nostra società a un bivio. Il ritorno a condizioni di povertà e emarginazione di dickensoniana memoria o il rinnovamento effettivo delle politiche sociali a tutti i livelli. Perché il cambiamento vada verso la seconda delle due ipotesi pensiamo che possa essere utile che avvengano i seguenti mutamenti.
1) Lo Stato
- Lo Stato riassuma nelle sue priorità la giustizia sociale, anche nel contrasto diretto alle forme di disagio e povertà e in un’ ottica di potenziamento dell’agio. Destinando risorse adeguate (umane ed economiche) a queste tematiche e dando la possibilità di programmare a enti pubblici e privati almeno per un quinquennio.
- Le regioni, lo Stato e gli organismi sovranazionali riportino nell’alveo originario nodi tematici e questioni oggi rientranti sotto il nome di “politiche sociali” e “sicurezza”. Una riforma radicale della legislazione internazionale in tema di stupefacenti e migrazioni potrebbe risolvere gran parte dei problemi di Scampia molto più degli eserciti e di milioni di euro dati al sociale. Così come una seria riorganizzazione delle agenzie per l’impiego (e del mercato del lavoro) otterrebbe molto di più dell’invenzione di lavori e lavoratori socialmente utili.
- Le politiche sociali pubbliche privilegino forme di sostegno diretto alla persona (come il reddito minimo di cittadinanza o di inserimento) a forme di socializzazione al lavoro e formazioni bluff.
- Le principali problematiche sociali vengano riconvertite da traino al ribasso, a traino al rialzo. Nel secolo scorso la presenza di disabili e di alunni “scapestrati” è stata per pedagogisti come Montessori, Freinet, don Milani occasione per migliorare la scuola di tutti. Prendiamo il caso dei migranti. Oggi la presenza di migranti è spesso alibi per abbassare garanzie e trattamento economico per il lavoro e la giurisdizione di tutti. Noi ci auguriamo che avvenga il contrario e che la presenza di chi è in grado di mettere meglio in luce le contraddizioni sociali (come i migranti appunto), diventi stimolo per migliorare vita e istituzioni di tutti. A partire dalla scuola, dalla libera circolazione delle persone, dal consumo di stupefacenti.
2) I Comuni
Reimpostino le proprie politiche in chiave sociale:
- facendosi portatori di queste istanze e di proposte di legge (come sull’abolizione del sistema di accoglienza dei migranti basato sul permesso di soggiorno, o per una nuova legislazione internazionale sul consumo di stupefacenti) presso gli organismi nazionali e sovranazionali competenti;
- ricollocando come competenza residuale e negli alvei originari funzioni e competenze che oggi rimangono impropriamente in mano al sociale. Perché di rom e scuola devono occuparsi le politiche sociali e non quelle educative? Questioni come quelle della mancanza di aree di emergenza e prima accoglienza per tutti (in una città sismica e vulcanica) sono di competenza delle politiche sociali?
- riducendo gli sprechi, ovvero utilizzando risorse umane ed economiche per reali esigenze sociali. Avendo perciò il coraggio di rimuovere dirigenti e funzionari inadatti ad esercitare il proprio ruolo;
- operando scelte di campo e decidendo se i finanziamenti e le agevolazioni servono ad assicurarsi consenso e a garantire equilibri elettorali o a risolvere questioni sociali secondo modalità che contraddistinguono quell’amministrazione. Diventi questa la bussola nella scelta degli assegnatari privati a cui esternalizzare i servizi e non bandi truccati e altri meccanismi più o meno ipocriti;
- riducendo la differenza tra chi esercita funzioni e ruoli ascrivibili all’intervento pubblico. Stesse garanzie e trattamento economico devono avere i dipendenti del pubblico e del privato sociale;
- evitando interventi spot, funzionali solo a forma e immagine;
- evitando di creare precedenti pericolosi, come qualsiasi cosa assomigli a un campo rom o un centro di accoglienza. Evitare di creare zone di città dove sono concentrati individui “bollabili socialmente”;
- portando avanti sperimentazioni coraggiose, come quelle della “stanza del consumo”, anche come modalità di promozioni di nuove forme legislative sul consumo di stupefacenti;
- promuovendo formazione permanente e miglioramento del rapporto quantitativo e qualitativo alunno/insegnate, ricorrendo a pedagogia attiva ed educazione interculturale per migliore l’offerta formativa di tutti.
3) Associazioni e attivisti
I gruppi e i singoli operatori e attivisti che operano attivamente nel sociale dovrebbero prima di tutto:
- recuperare “visione” e funzione politica. Diventare cioè nuovamente capaci di guardare alla società nel suo complesso e di immaginarne il cambiamento;
- partire dal cambiamento permanete degli individui e della organizzazione di cui fanno parte. Attraverso formazione permanente, riflessione e scambi aggiornare sempre visioni, sentimenti e passioni con l’obiettivo di entrare in contatto reale con sé stessi e le persone a cui ci si rivolge (uscendo appunto dal triangolo vittima-persecutore-salvatore);
- percepire tutti come pari, al di là del ruolo che ciascuno si trova a svolgere;
- uscire dalla logica mercato, non percependo gli altri gruppi e le altre organizzazioni come competitor, e al tempo stesso rifiutando condizioni contrattuali che abbassano le condizioni generali del mercato del lavoro;
- fare chiarezza rispetto al proprio compito. La necessità di svolgere interventi sociali e educativi attraverso specifiche professionalità (educatore, insegnante, psicologo, sociologo, urbanista…) non è un invenzione del mercato dell’ultimo ventennio, ma ha radici ben più antiche. Per svolgere alcuni ruoli e funzioni bisogna avere esperienza e preparazione adeguate, come avviene in altri ambiti (chi farebbe tirare un dente al proprio figlio da qualcuno che non sia dentista, anche se armato di tanta buona volontà? Perché nel lavoro sociale e educativo dovrebbe avvenire diversamente?). Le organizzazioni che possono ancora svolgere questo compito devono sapere di poter contare sulle risorse umane e economiche necessarie. In assenza, meglio rinunciare e ricominciare da modalità proprie dell’attivismo politico e culturale;
- puntare sempre ad alzare la qualità del proprio intervento. Anche attraverso una corretta politica del lavoro, riducendo la differenza di trattamento economico e giuridico tra “dirigenza” e “manovalanza”. Meglio non fare niente che far male, dequalificando e mortificando l’operatività sociale;
- ripulire e chiarire le motivazioni aggregative alla base della propria organizzazione, evitando di trovare nel falso bisogno o nel falso pericolo rappresentato da un inesistente altro il falso motivo al proprio stare insieme.
4) I cittadini
- Non rinuncino mai a considerarsi parte attiva nel mondo, facendosi sempre capaci di mutare la vita propria e quella degli altri, in maniera autonoma e in risposta alle spinte profonde della crescita individuale e della giustizia sociale;
- non si rassegnino mai al tipo di società in cui vivono e continuino a immaginare mondi nuovi e compagni con cui sognarli e realizzarne pezzi a partire dall’immediato;
- si facciano protagonisti di lotte capaci di incidere sui temi dell’equità sociale;
- si occupino direttamente della cura di spazi abbandonati urbani, di aree verdi e di chi è in difficoltà come modo per migliorare anche la propria vita e di dare pieno corso alla realizzazione del sé;
- nel farlo prestino sempre attenzione a che il proprio operato vada nella direzione della liberazione/emancipazione e mai in quella della sottomissione/occupazione di menti e spazi altrui;
- riscoprano la convivialità tra pari come ragione prioritaria della vita sulla Terra.