Bologna: stage, buoni e cattivi esempi
Silvia Branca, Roberto Panzacchi, Gianni De Giuli e Luca Lambertini, che lavorano da anni nella formazione professionale a Bologna, hanno fatto una chiacchierata sugli stage per i ragazzi che frequentano i Centri di Formazione Professionale e hanno analizzato limiti, potenzialità e criticità di questi percorsi. L’articolo è l’esito della loro conversazione.
Lo stage per come è organizzato nella Regione Emilia Romagna è un’esperienza che occupa circa il 35-40% del monte ore regolare nella Formazione Professionale e consente agli allievi di fare un’esperienza dentro le aziende del territorio in base ai loro indirizzi. Questo pone molte questioni: “Ma allora che cos’è? Addestramento aziendale? Lavoro non pagato? Sfruttamento?” Sono tutte criticità potenzialmente presenti e da tenere sempre ben presenti. I nostri allievi sono minori non accompagnati, vengono da famiglie povere, vengono da percorsi per cui la scuola è stata un fallimento e perciò il loro bisogno è quello di trovare una forma di inserimento nel mondo del lavoro sin da giovani. La bontà e utilità dell’esperienza dipende da molti fattori: dall’azienda ospitante, dal rapporto che il Centro Formazione ha con l’azienda e con il tutor aziendale (figura dell’azienda dedicata a formare lo stagista) e dal lavoro del tutor stage del CFP. Quest’ultimo è una figura dedicata interamente a progettare (in maniera individualizzata per ogni ragazzo) e monitorare lo stage, e ad accompagnare il ragazzo nell’elaborazione successiva dell’esperienza.
Imparare dalla pratica non è solo un addestramento, un assimilare i principi base del mondo del lavoro ma è anche un laboratorio di prova al confronto con il mondo degli adulti (quindi la responsabilità, l’attenzione alle cose, l’attenzione alle persone, l’attenzione a te stesso) e può diventare uno spazio importante e utile per un ragazzo che non ha esperienza.
Perchè uno stage funzioni bene è necessario conoscere bene le aziende del territorio. Noi, per esempio, conosciamo bene tutte le nostre aziende, sappiamo che tipo di lavoro fanno e pensiamo anche agli abbinamenti di ogni allievo a un’azienda in base alle caratteristiche di quest’ultima. Valutiamo il tipo di lavoro ma anche a come l’azienda riesce ad accogliere un ragazzo e perciò non è un abbinamento fatto semplicemente sulle abilità pratiche, ma c’è tutto un lavoro di preparazione, svolto in equipe con il coordinamento didattico perché riteniamo importante stabilire gli obiettivi, che cosa osservare, come organizzare il rientro in aula, perché un altro elemento importante è la possibilità di vivere l’incontro col mondo del lavoro non come individuo ma come gruppo classe e quindi avere dei momenti di riflessione come gruppo e non solo come singolo. Quindi anche un insuccesso può essere un elemento di ragionamento per gli altri e di trasformazione, ma è necessario dedicare tempo all’elaborazione collettiva dell’esperienza.
Sul tema dei due ragazzi morti durante la formazione, c’è da fare un ragionamento sui ritmi imposti oggi dalla società del lavoro. Non è che la scuola uccide come si dice in certi slogan un po’ sempliciotti detti in questi giorni. Il problema è che il mondo del lavoro uccide, è che nel tardo capitalismo nel mondo del lavoro sono imposti ritmi sempre più frenetici e questo comporta una endemica mancanza di sicurezza. La questione è creare condizioni di lavoro diverse.
Il fatto che lo stage sia una esperienza di senso e veramente formativa è un problema che si pongono anche i ragazzi. Anche loro devono valutare l’azienda e chiedersi: “Mi stanno sfruttando? Mi stanno insegnando qualcosa? Mi sto annoiando? Mi trattano male?” Sono tutti aspetti su cui si lavora prima di andare in stage e il nostro lavoro è quello di essere di supporto a queste riflessioni.
Ci sono certamente anche aziende che usano lo strumento stage in modo inappropriato, che cercano di trarne vantaggio e basta, senza alcuna intenzione pedagogica o formativa. Chi ha lavorato con la grande distribuzione o con la logistica lo sa bene, ci sono settori economici più esposti a questo rischio, in cui l’ambiente difficilmente può essere formativo perché il lavoro è fortemente dequalificato e demansionato. Il tutor deve anche stare attento alla situazione del ragazzo, verificare che non ci sia un eccessivo carico di lavoro, di stress, o di lavoro ripetitivo. Perché effettivamente ci sono dei grandi gruppi aziendali in cui questa situazione si presenta sistematicamente.
Lo stage ha anche una valenza orientativa: per la prima volta l’allievo che è abituato a fare un’esperienza di apprendimento in gruppo, nella classe, è da solo e a quell’età, tra i 15 e i 17 anni, fare un’esperienza in cui sei da solo è importante, perché non hai più la difesa del gruppo e sei da solo rispetto al mondo adulto. Questo mondo ha gli occhi puntati su di te e quindi a seconda di come è questo sguardo l’esperienza può essere anche molto frustrante o negativa. In generale, però, è un momento in cui il ragazzo si misura con se stesso e questo è importante per crescere. Ci sono pochi casi, ma significativi, di ragazzi che dopo la formazione professionale e gli stage capiscono che magari possono riprendere la scuola e questa è una elaborazione assolutamente individuale, nata anche nel gruppo classe con cui ti confronti, però è il prodotto di un percorso che fanno singolarmente.
Dalla nostra esperienza rispetto allo stage scolastico, ci sono altri strumenti di formazione o comunque di inserimento attivo nel lavoro che rischiano di alimentare pesanti dinamiche di sfruttamento e abuso, come il tirocinio formativo, spesso usato in modi assolutamente impropri: molti dei nostri ragazzi, ad esempio, entrano nel mondo del lavoro con dei lunghissimi tirocini formativi che non sono tirocini formativi ma lavoro sottopagato.
Anche l’apprendistato rischia di fare spesso questa fine perché ci sono ingegneri che fanno tre anni di apprendistato..
È anche un po’ fuorviante immaginarsi che i nostri ragazzi vadano a lavorare esclusivamente perché costretti da un’organizzazione, dalla società, che spinge i poveri per emanciparsi a trovare subito un lavoro. Ci sono anche molti ragazzi che non hanno voglia di studiare e sono più orientati alle attività pratiche. Continuano a esserci anche dei dati sconfortanti sull’abbandono scolastico e sulle bocciature, che ci raccontano di come la scuola ancora respinga tanti adolescenti e quindi è necessario trovare un’alternativa.
La provincia di Bologna, all’inizio degli anni Novanta, ha costruito un percorso di definizione di un modello organizzativo e di una teoria pedagogica che supportasse il lavoro nella formazione professionale. Lo stage non significava addestrare i ragazzi per poi mandarli in azienda a completare il loro addestramento. Era costruire un sapere capace di ribaltare il mondo classico della scuola anche tecnica e professionale dove, dopo le ultime riforme, sono aumentate molto le lezioni teoriche e frontali, mentre il grosso delle attività pratiche, laboratoriali e degli stages è relegato agli ultimi anni. Tutto il lavoro fatto negli anni ‘90 anche con l’università, quando ancora esisteva una forte collaborazione con il corso di laurea in pedagogia, aveva proprio questo obiettivo: costruire una teoria, una pratica, una riflessione su che cosa volesse dire formare dei giovani e consegnare loro una qualifica che gli consentisse di continuare a studiare o, eventualmente, di andare a lavorare con una preparazione solida.
Abbiamo tutti un po’ sposato nella formazione professionale questo approccio che non separa il pensare dal fare. È un approccio molto vicino ai temi dell’educazione popolare, alla visione di Kurt Lewin, per cui non esiste una teoria senza la pratica e la pratica non è inferiore alla teoria, ma queste sono strettamente connesse.
Quando è iniziato questo lavoro di elaborazione con la Provincia di Bologna, i riferimenti teorici erano ben saldi e ben orientati a sinistra, alla gestione dei percorsi e al rispetto delle persone. Questa idea del contrasto tra una scuola “progressista” e i CFP centrati solo “sull’addestramento” in questo caso è fuorviante: in quegli anni si è riflettuto molto su come lavorare nella costruzione dei percorsi, su come elaborare contesti accoglienti e inclusivi, su come gestire anche dei momenti di confronto con le aziende. E questa riflessione ha prodotto una figura fondamentale che è il tutor. La polemica forte che c’era all’inizio di questo percorso fra i diversi orientamenti all’interno della formazione professionale era per dire e discutere se il ruolo del tutor doveva essere di “motivazione al ruolo professionale” o di “educazione al ruolo professionale” perché “educazione” per alcuni implicava il fatto che tu stavi indottrinando delle persone al lavoro; mentre con “motivazione” si sottolineava più il ruolo di supporto nell’aiutare a far trovare loro la strada. È stato un dibattito forte che ha portato a delle riflessioni, a dei convegni, a uno scambio europeo con altre realtà. Un percorso attivo e propositivo, che non si è solo trascinato nell’inerzia del fatto che siamo una regione molto vocata al lavoro artigianale, che ha molte aziende, molte opportunità lavorative.
Sul nostro territorio per un periodo si è pensato a una pedagogia, a uno stile per la formazione professionale. Però sicuramente dall’introduzione del sistema Iefp e dalla scomparsa della provincia questo meccanismo è andato in crisi.. Innanzitutto la scuola, con cui ci saremmo dovuti alleare e fondere era (ed è ancora) molto permeabile “in uscita”, cioè nell’espulsione dei ragazzi che per un motivo o per l’altro arrancano, ma altrettanto impermeabile “in entrata” nel riconoscimento delle esperienze fatte nella formazione professionale e quindi disponibile a far rientrare gli allievi a scuola. Ancora oggi, in linea di massima, la formazione professionale è molto accogliente mentre la scuola è poco incline ad accettare gli allievi che arrivano dalla formazione professionale. Il tirocinio formativo o gli stages potrebbero essere utili per riconoscere dei crediti e rientrare in un percorso scolastico.
Inoltre il passaggio al sistema delle competenze secondo il modello europeo ha coinciso anche con il passaggio da un modello che veniva dalla pedagogia a un modello che invece viene più dalle richieste del mercato del lavoro, con l’illusione di poter sintetizzare e verificare l’apprendimento, che è sostanzialmente crescita e cambiamento, in pacchetti di abilità e conoscenze. E il docente si trova costretto a lavorare non sullo sviluppo di una capacità espressiva e comunicativa del ragazzo ma a uno spacchettamento di questa capacità in una serie di piccole conoscenze che hanno poco a che fare con la capacità reale di un ragazzo di comunicare in modo efficace.
Non ci sono più momenti di riflessione fra gli operatori, si è dato per definito un sistema costruito su questo modello europeo delle competenze che spacchetta gli insegnamenti in tantissimi indicatori molto specializzati e parcellizzati e che si basa su un impianto procedurale iperburocratico e rigidamente controllato dall’alto. La formazione professionale, che ancora oggi ha una maggior capacità di dialogo col mondo reale, sta progressivamente perdendo questa caratteristica perché sempre più improntato a un modello di controllo e valutazione che nulla ha a che vedere con dei parametri dell’educazione e della formazione. In questo quadro gli stessi operatori hanno perso molto la capacità di mettere in discussione quello che stanno facendo, ne riconoscono le incongruenze e gli aspetti critici ma non hanno più la forza di riflettere e produrre dei cambiamenti che sarebbero possibili.
Un altro importante aspetto che è venuto a mancare è il confronto che prima c’era tra i lavoratori di questo settore e i decisori politici.
Chi lavora sul campo non ha voce su queste questioni e non ha spazi di confronto. Inoltre il livello contrattuale in questo mondo vede gran parte del corpo insegnante, e dei formatori che lavorano, nel precariato.
Anche il sistema delle qualifiche professionali ha grossi limiti, è diventato una specie di delirio tassonomico che vuole far rientrare tutto il mondo del lavoro e delle professioni in un sistema basato su unità di competenze in cui sono indicate tante piccole e specifiche abilità e competenze con relativi indicatori di valutazione. Questo sistema delle competenze spesso non corrisponde alla realtà del mondo del lavoro o della formazione, che però deve allinearsi a esso.
Attorno a questo sistema è organizzato un capillare sistema di controllo burocratico, sempre più lontano da una visione pedagogica, educativa o formativa.
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