Palestina, un eccezionale normale
Nel settembre 2023 ero in Palestina per partecipare ad un convegno organizzato dall’università Dar al-Kalima di Betlemme. Betlemme dista da Gerusalemme soltanto otto chilometri, ma per potercisi recare è necessario prendere l’autobus di linea, passare un checkpoint – fare lunghe code per farsi controllare bagagli e documenti dai soldati israeliani – e decidere se tentare di trovare un taxi, o farsela a piedi. Questo perché in seguito agli accordi di Oslo del 1994 il territorio della Cisgiordania venne sezionato in aree sottoposte a regimi amministrativi differenti, separate tra loro da diversi dispositivi di controllo della mobilità, che possono essere sia fissi, come le strade separate per israeliani e palestinesi, che mobili, come i controlli volanti o la chiusura improvvisa degli accessi.
Al checkpoint di Hebron street poco fuori Betlemme vedendo passare vari capannelli di uomini che rientravano dopo la giornata di lavoro, notavo con curiosità che molti di loro indossavano gli stessi stivaletti di una marca australiana molto in voga tra i giovani israeliani di Gerusalemme, soltanto che i palestinesi li usavano come scarpe da lavoro, impolverati e chiazzati di pittura.
Con un passaporto palestinese non è possibile andare a Gerusalemme o nel resto di Israele se non con un permesso di lavoro. Quasi il 20% della forza-lavoro in Cisgiordania è composta da lavoratori impiegati nelle aziende israeliane negli insediamenti illegali (colonie) o in Israele; di questi il 99% sono uomini occupati per la maggior parte nel settore dell’edilizia.
Anche L. ha un permesso di questo tipo. Poco più che trentenne, è alto e magro, ha la sigaretta fissa all’angolo della bocca e dorme in media quattro ore a notte perché fa tre lavori, tra cui il fattorino di un’azienda israeliana e il gestore di un raffazzonato smercio clandestino di tabacco di importazione. Ha tre figli piccoli, di cui due con problemi di salute.
L. passa le sue giornate in macchina e al telefono, guida e parla di soldi, di quanti shekels è aumentato il costo al chilo del pane, del prezzo dell’auto che vorrebbe comprare al posto dell’Alfa sgangherata, di quanti soldi ha prestato al fratello che non riesce a tenersi un lavoro. Fino a qualche anno fa L. militava nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, per cui passò anche un periodo in carcere; ora si è stancato, dice, parla della sua delusione con l’aria compassata di un vecchio reduce, non ha più voglia e tempo per la politica. Continua tuttavia ad ascoltare incessantemente il repertorio delle canzoni di lotta palestinesi, e tutte le volte che ci vediamo mi fa sentire dallo stereo della macchina la versione in arabo di Bella ciao.
A volte la sera esce con gli amici per andare a bere in qualche posto sulle colline intorno a Betlemme, per cantare vecchie canzoni guardando le luci della Giordania che si vedono all’orizzonte.
Sul versante di una di queste colline, a Karkafeh, notai una costruzione mai vista prima: un grande cubo di cemento nero che strideva notevolmente con il paesaggio brullo e le case di pietra chiara. Un amico che abita lì vicino, Said, mi dice che è una specie di centro d’arte, fanno anche corsi e sotto c’è un bar, i fondatori sono due fratelli palestinesi che un paio di anni fa hanno ricevuto dei finanziamenti europei. Una sera delle colleghe mi propongono di andare per una serata “food&music”, pubblicizzata su instagram con una grafica un po’ hipster.
Il cubo è effettivamente un po’ hipster: in stile minimalista, arredo di design, i livelli open-space sono dedicati alla produzione musicale, a spazi di co-working per architetti e designers e corsi di yoga, e a spazi chill con cucina a vista. Quando arriviamo ci sono giusto un paio di persone. Uno dei due fratelli-fondatori è alle prese con i fornelli mentre l’altro ci fa fare un giro della struttura raccontandoci la genealogia di questa idea un po’ pazza, investire in un cubo di cemento per giovani artisti abbarbicato su una collina della Cisgiordania, sgranando uno dopo l’altro i progetti, festival, guest lectures a cui ha partecipato in giro per il mondo. Un’amica architetta conosciuta al convegno lo guarda adorante mentre si parla di biennale di Venezia e di concept-stores.
Osservo il paesaggio notturno e chiedo al nostro ospite cosa sia l’agglomerato di luci che ci guarda dall’altro lato della vallata: è una colonia israeliana. Ma fino a una ventina di anni fa era un bosco. Effettivamente questo posto si chiama Wonder Cabinet, e forse sono riuscita a cogliere meglio la dimensione un po’ magica e un po’ disforica di questo punto di osservazione sulla Palestina di oggi, che per un verso continua strenuamente a vivere e muoversi come può dentro e fuori dai suoi confini, ma dall’altro non può dimenticare la propria condizione coloniale: l’amara ironia di bere un cocktail su un terrazzo vista settlement.
A Betlemme ci sono tre campi profughi in cui vivono più di 15mila persone, luoghi “eccezionalmente normali”, come direbbe Edoardo Grendi, che punteggiano la complessa geografia palestinese. Si tratta di quartieri autonomi sorti laddove si erano accampati i rifugiati della nakba del 1948; negli anni i condomini si sostituirono alle tende, e passeggiando per gli stretti vicoli l’attenzione viene catturata dall’ombra della fitta ragnatela di fili elettrici, cavi e festoni politici o religiosi. Scendendo verso la parte bassa della città in direzione Beit Jala – un piccolo comune confinante con Betlemme – si può raggiungere il campo profughi di Aida.
F. mi accoglie in casa sua che, come altre case di Aida, è sempre impeccabilmente pulita e arredata con eleganti mobili dal gusto un po’ kitsch tipicamente palestinese, stridendo notevolmente con il paesaggio esterno di strade fangose e costruzioni arrabattate.
Anche lei è sempre impeccabile: trent’anni, laureata in legge, senza figli (un’anomalia per la società palestinese, spesso ancor più tradizionalista nei campi profughi), lavora per un’associazione che si occupa di cooperazione internazionale, accudisce la madre malata, aiuta la sorella che ha due figli e un marito in carcere.
Anche il marito di F. è in carcere, trattenuto da gennaio sotto regime di detenzione amministrativa, ovvero in assenza di un processo e di un capo di imputazione preciso, è costretto a star rinchiuso senza una data di fine carcerazione prolungabile di sei mesi in sei mesi a discrezione del tribunale militare israeliano. Nonostante le difficoltà F. sta programmando il campo di lavoro internazionale dell’estate prossima, un progetto in cui persone provenienti dall’Italia e altri parti d’Europa si recano ad Aida per conoscere la realtà quotidiana palestinese. Ora più che mai, mi dice, è necessario che di Palestina se ne parli e la si veda.
La mattina del 7 ottobre ero con F., siamo state svegliate dal rumore di un’esplosione prima che i telefoni cominciassero a suonare ripetutamente. Fino a oggi non ha ancora potuto comunicare con suo marito e solo qualche settimana fa ha saputo dall’avvocato che il suo processo è stato rinviato a data da destinarsi per “causa guerra”.
L. era stato il primo a mandarmi un messaggio, aveva scritto in inglese «la guerra sta iniziando». Oggi lavora sporadicamente, ma mi manda i video dei suoi figli che cantano Bella ciao in arabo.
Il Wonder Cabinet di Karkafeh ha riaperto a fine novembre, e in queste settimane sta organizzando un cineforum per bambini con vecchi film palestinesi.
A partire da queste microstorie non eroiche, non riconducibili all’immaginario dell’attentatore sanguinario ma neppure a quello della vittima indifesa, è forse più facile comprendere quello “stato di morte, sia lenta che improvvisa” con cui in un recente editoriale Judith Butler ha descritto la condizione a cui i palestinesi sono condannati da ben prima del 7 ottobre. Per provare a pensare alla Palestina non a partire dall’eccezionalità delle sue guerre, ma dall’eccezionalità del suo presente.