Ottobre 2023: l’eco di voci lontane
Quanta crudeltà dal 7 ottobre! “Ma tu che sei vecchia, che dici? Com’ è possibile tante vite sprecate, tanto sangue che scorre, un dolore infinito su un pezzo di terra così piccolo?”. Provo a rispondere. Non sono stata mai esposta a tanta brutalità, trasmessa, per giunta, in diretta a tutto il mondo. Le immagini e le descrizioni dei sopravvissuti degli insediamenti israeliani colpiti richiamano quello che immagino siano stati i pogrom nell’Europa orientale di un secolo fa, e quello che accade nella striscia di Gaza, invece, mi rimandano alle foto di Varsavia o Dresda, con intere famiglie morte sotto le macerie, intere società ridotte a macerie. Nello spazio di qualche decina di chilometri, in un solo mese. Che dire? Oramai vivo lontano da quella terra. Passo le giornate con occhi increduli davanti alla TV. Le mie notti sono interrotte da incubi. A poco a poco si riaccende la memoria: io ci sono già stata. Esattamente 40 anni fa, quando nel 1982 la guerra “di pace in Galilea” finì con la cacciata dell’Olp da Beirut. Molto più tardi ho scritto a questo proposito un articolo. Eccone un estratto.
Una Voce mancata*
Mio padre si era già addormentato in un sonno dal quale non si sarebbe più risvegliato quando cominciò la rivolta dei palestinesi contro l’occupazione israeliana. Aveva già formulato la sua opinione sul disegno politico di Sharon, in modo molto chiaro, nel giugno 1982. Fu pochi giorni dopo l’invasione del Libano, quando scrisse questa lettera ad un caro amico francese, storico come lui, Pierre Vidal-Naquet, e a sua moglie: Vi scrivo ascoltando la radio che ha appena annunciato che “noi” stiamo per “raggiungere il nostro obiettivo” in Libano: ridare la “pace” agli abitanti della Galilea. Queste menzogne goebbelsiane mi fanno impazzire. È chiaro che questa guerra selvaggia, più barbara di tutte le precedenti, non ha nulla a che vedere né con l’attentato di Londra [cioè l’assassinio dell’ambasciatore israeliano a Londra] né con la sicurezza della Galilea; ma, se dei leader dell’opposizione, dei professori “rispettabili”, dei giornalisti cosiddetti obiettivi ripetono tutti come pappagalli gli slogan di Begin e di Sharon, cosa si può pretendere dall’uomo della strada? Per ora (ma io non credo che questo durerà a lungo) “l’unità nazionale” è perfetta. […]Cosa resta da fare davanti a questa ebbrezza sciovinista, condivisa da tutti i nostri ultra-patrioti? Noi non siamo che un gruppo molto piccolo di oppositori. Noi qui, come i palestinesi laggiù, siamo completamente isolati, abbandonati anche da coloro che ci sono vicini, e siamo già vinti. A tutto questo bisogna aggiungere l’appoggio scandaloso di Reagan e dei suoi complici. Non si parla più di un’invasione limitata a 40 chilometri dalla frontiera; è un vero Blitzkrieg, senza limiti, senza fronte né retrovia, senza alcuna restrizione. Ascolto senza sosta il rombo della nostra aviazione; passano giorno e notte per bombardare dei villaggi e delle città abitate, dei campi di rifugiati cacciati già una volta dalle loro case – e da noi stessi. Nessuna pietà! […]Degli ebrei, già vittime essi stessi di tanta crudeltà, possono diventare tanto crudeli? Che vergogna! […]
Fate, vi prego, cari amici, tutto quello che è in vostro potere affinché i Begin e gli Sharon, non raggiungano il loro doppio obbiettivo: la liquidazione finale (uso la loro espressione che è alla moda qui in questi giorni) dei palestinesi in quanto popolo e degli israeliani in quanto essere umani. (Benjamin Cohen, 1921-2000, storico, una delle tante voci della sinistra in Israele, pubblicato su “Le Monde”, 19 giugno 1982).
Provocato dalla brutalità della “Operazione Pace in Galilea”, sullo sfondo della sua impotenza nei confronti dei crimini di guerra commessi in suo nome, mio padre ha fatto uso delle immagini più forti che aveva, cioè quelle della Seconda Guerra Mondiale.
Pur non accettando il parallelo storico, che tocca una questione sensibile, va sottolineato che questo non disonorava la memoria delle vittime del genocidio nazista. Al contrario, come per molti altri di quella generazione in Israele, l’Olocausto faceva parte del loro presente. Il genocidio nazista non era solo un simbolo astratto della banalità del male o della malvagità del 20° secolo, ma una memoria viva della perdita della sua famiglia – genitori, sorella, nonni, zii, tutti. Di solito le associazioni con questa memoria venivano sublimate, e di preferenza non prendevano un’espressione linguistica, né a casa né fuori. Ma nelle notti non c’erano inibizioni. Le notti di mio padre erano riservate al dolore della separazione, ai sensi di colpa di essere sopravvissuto solo lui (e un fratello), erano riservate al ricordo del padre che voleva salvarlo dal ciclo della povertà e dell’antisemitismo in cui vivevano in Polonia, all’immagine della madre che aveva venduto il soprabito per pagare il viaggio del figlio in Palestina (poco prima della guerra), e al ricordo della sorella che preferì rimanere con i genitori e li accompagnò al campo di sterminio di Treblinka.
I giorni, invece, venivano dedicati alla lotta per un mondo più giusto – dal comitato contro l’espropriazione delle terre di Dir al-Assad in Galilea (negli anni ’60), contro l’occupazione israeliana del 1967, attraverso il comitato di Bir Zeit (contro la chiusura dell’Università nel 1981) fino alla lotta contro l’espulsione (senza processo) dei palestinesi. Così, tra il dolore personale di notte e la lotta politica di giorno passava la sua vita, senza che le due cose venissero mescolate. L’invasione di Sharon in Libano, mirando alla liquidazione della direzione politica dei palestinesi che vi abitavano, è stato uno dei rari casi dove la memoria dell’altra guerra che perseguitava le sue notti, e la crudeltà del presente si sono incontrate. Il fatto che una lettera privata divenne lo spunto di un impegno politico di molti intellettuali, in Israele e in Europa, contro la guerra in Libano, si spiega, senza dubbio, alla sensibilità legata alla memoria dell’Olocausto.
Mio padre morì un sabato, che secondo il calendario ebraico era “Alef Rosh Hashana” (primo giorno dell’anno), un giorno in cui, secondo la tradizione, muoiono i giusti. Può darsi. Di sicuro, al suo funerale erano presenti parecchi giusti, che, come lui, cercavano di contribuire a una soluzione che rispettasse i due popoli; altri giusti, invece, non poterono arrivare. Quel giorno (il 3 ottobre 2000) stavano in diversi paesi in Galilea per esprimere la loro solidarietà con le vittime palestinesi (13 cittadini israeliani), uccise dalla polizia nel corso di una manifestazione contro la repressione nei territori occupati. Le sue esequie furono un’altra occasione per sollevare la protesta, attraverso la voce del poeta Itzhak Laor:
Il giorno in cui seppelliamo Benjamin molti altri di questo paese seppelliscono i loro cari. Il grande silenzio che esce dalla cosiddetta “coscienza collettiva”, di fronte ai crimini che si svolgono “in diretta”, questo silenzio permette di fare efficientemente quello che si chiama cinicamente “un lento salasso di sangue”. Non è da venerdì scorso che s’è costruito questo silenzio generale. Sono già anni che ci insegnano a pensare in termini della fine della Storia: se sei contro Benjamin Netanyahu, devi sostenere Barak; se sei contro Milosevic, devi sostenere i crimini della NATO; se sei contro l’occupazione, devi sostenere tutto quello che si chiama “processo di pace”. Questa presentazione di alternative false, soffocanti, paralizzanti, è prodotta dagli intellettuali, non da agenti della pubblicità.
Gli intellettuali hanno qualche vantaggio. Essi creano la parola che possiede la forza di mettere in moto un’azione, non possono che credere che “all’inizio c’era il logos”. Non hanno altra scelta, forse, perché sono mancanti nella sfera politica: anche se non amano il potere, hanno paura, comunque, di ammettere la loro debolezza. La stessa sensazione di debolezza ci ha accompagnato in tante attività in cui eravamo impegnati, nel corso di cinque o sei guerre idiote, avventure sanguinose e crudeli. Contro questa sensazione di debolezza ci voleva un colpetto sulla spalla da parte di qualcuno che credeva nella forza della propria voce, non aveva paura né vergogna di essere una piccola minoranza. Questo era il segreto della forza di quell’uomo coraggioso.
Da dove prendeva questa forza? Solo dalla lunga tradizione di rivoluzioni sconfitte? O forse si trova la spiegazione per il suo coraggio straordinario se guardiamo la stele sulla sua tomba dove ci sono scritti, come aveva dettato a sua figlia, oltre al suo, i nomi di sua madre, suo padre, sua sorella e degli altri suoi cari assassinati nell’Olocausto. Più importante è constatare che non c’erano molte persone come lui tra noi, certamente non ce ne sono stati negli ultimi trenta anni e certamente non nelle università, purtroppo.
La voce della protesta però non si è completamente fermata. Ci sono ancora uomini e donne coraggiosissimi che non hanno perduto la voce malgrado la manipolazione e il prezzo personale pagato (ci sono anche vittime del terrorismo), che continuano, mano nella mano con i palestinesi, a lottare contro la politica di repressione. Alcuni si identificano come i portaparola di una coscienza ebraica, vittima dell’Olocausto, altri no. Non tutti possiedono una tradizione storica comune. Anche questa è una particolarità della nostra società: sono piuttosto il presente e il futuro a fornire il denominatore comune tra gli israeliani.
Oggi mi sento di aggiungere che chi come me pensa da anni che solo un avvenire di uguaglianza tra Israeliani e Palestinesi potrebbe garantire una vita serena per tutti, avrebbe dovuto, forse, essere più pronto a intuire i sogni degli altri, dei coloni e dei colonizzati. Ho finalmente una risposta. Purtroppo nessuna analisi mi ha preparata a vedere una guerra genocida che si svolge davanti agli occhi di tutti e che nessuno cerca di fermare.
Temo che sotto il fumo della guerra si miri a cacciare la maggioranza dei Palestinesi nel deserto, ma questo non l’ho detto ad alta voce.
*Tratto dal mio contributo al libro Vita Tua, Vita Mea, Le altre voci di Israele, raccolte da una Palestinese, a cura di Rania Hammad, Sinnos editrice, 2004.