Ottantanove e lo scacco della rivoluzione
“Viva la rivoluzione” / “La rivoluzione piccola piccola” / “Miniaturizzata” / “Rinsecchita” / “Formato mignon…”. In questo climax discendente è gustosamente riassunta tutta la struttura del pensiero messo in scena in Ottantanove, il nuovo spettacolo della Compagnia Frosini-Timpano. Nello spazio a tratti disarmante del teatro contemporaneo italiano, il duo romano ha saputo tracciare un percorso di spettacoli in cui la satira e un certo minimalismo scenico facevano da tono e da sfondo a una vera e propria ricerca storiografica in atto sulla scena: fra i loro precedenti lavori, si ricordano Aldo Morto, incentrato non sul sequestro Moro ma sulla sua ricezione mediatica e la sua eredità anche feticistica, o Acqua di Colonia, sul colonialismo italiano e la sua rimozione. Rispetto a questi precedenti lavori, Ottantanove aumenta l’ampiezza di sguardo, scardina ogni impianto monografico e si presenta come un meditato flusso di coscienza sui due Ottantanove, sul 1789 della Rivoluzione francese e sul 1989 del crollo del Muro di Berlino.
Ottantanove è uno spettacolo che ha la strana virtù di essere al tempo stesso generazionale e storico, genealogico e di autofiction. In scena, Daniele Timpano, Elvira Frosini e il terzo attore Marco Cavalcoli guardano, anzi, dal punto di vista del pubblico vengono guardati guardare la fine dell’era delle rivoluzioni e il suo implicito fallimento, mescolando una competenza storica non scontata a riferimenti slapstick alla cultura pop. “L’Europa! Che meraviglia, un modello per il mondo. Così credevo da bambina. Tutto nasce allora, coi Lumi, con la Rivoluzione. È come un’infanzia. È là che nasce il mondo in cui viviamo. Avete presente il finale di 2001: Odissea nello spazio? È il Settecento”.
“L’infanzia. Mitizzi l’infanzia, come si mitizza la Storia, la Rivoluzione” / “I nostri miti” / “I nostri fantasmi”. Così come la storia, la storiografia stessa viene all’apparenza feticizzata e infantilizzata, a partire dal riferimento alla Storia d’Italia a fumetti di Biagi da cui chi-è-in-scena – negli spettacoli dei Frosini-Timpano c’è sempre una sovrapposizione tra la fluidità del concetto di personaggio e un venir meno del filtro tra ruolo e interprete – avrebbe letto per la prima volta del 1789. “Non dobbiamo fare la rivoluzione. C’è già stata la rivoluzione. La rivoluzione non dobbiamo farla. Dobbiamo solo ricordarla”. Questa frase, volutamente contestabile, lascia scorgere il secondo tema nascosto dello spettacolo, l’altra faccia della sua luna: il senso di un fallimento, non storico ma esistenziale, di una generazione che crede di aver “perso” proprio perché, a differenza delle precedenti, sente di non aver fatto la storia.
Ottantanove fa così, con una struttura quasi da mappa concettuale scandaglia sensazioni attuali e dati di fatto storici, interpreta e nel contempo rievoca teatralmente. Uno dei passaggi più precisi dello spettacolo è senza dubbio proprio quello che indaga sul nesso tra teatro e rivoluzione, tra metateatro e democratizzazione. “Il teatro della rivoluzione, costruito in un teatro. Il teatro in un teatro. Il teatro nel teatro”. Proprio perché sa di dover essere teatrale, simbolica, scenografica, la Rivoluzione arriva a dire, per bocca di suoi teorici come Rousseau, che “il teatro è la manifestazione trionfante della società gerarchizzata, è l’ebrietà della separazione classista, separa la scena dalla sala e divide gli spettatori in gruppetti”. Viva la festa collettiva e abbasso il teatro quindi, e abbasso ancor di più la religione, se non fosse che Robespierre stesso si trovò a celebrare, togato, la festa dell’Essere Supremo in cima a una montagna di cartapesta allo Champ-de-Mars. Polarità della secolarizzazione. Del resto, la Rivoluzione una volta preso il potere non volle mica abrogare il teatro: dopo tanti strali, lo rivoluzionò, portando nel giro di un decennio alla composizione di centinaia di spettacoli di “teatro rivoluzionario” poi prontamente rimossi dal canone europeo all’indomani della Restaurazione. Simili restaurazioni non sono un retaggio del mero Ottocento: anche negli anni sessanta, ricorda lo spettacolo, andò trasmesso sulla Rai uno sceneggiato sui giacobini a firma di Federico Zardi, applaudito da Togliatti e contestato dalla DC, misteriosamente scomparso da ogni archivio pubblico.
Questo discorso che Ottantanove lascia emergere sull’arbitrarietà di ogni canone teatrale, da una parte e dall’altra dello schieramento ideologico, procede a piè pari con le riflessioni che lascia cadere circa la secolarizzazione “dall’alto” portata avanti dai rivoluzionari e l’altrettanto brusca restaurazione del sacro voluta dopo il Congresso di Vienna. È un passaggio obbligato per uno spettacolo così quello di ricordare le particolarità del calendario rivoluzionario, che voleva “lavorare ostinatamente il tempo e in un sol colpo cancellare la cronologia del Cristianesimo e la cronologia del Paganesimo”, scandendo razionalmente l’anno “senza più Natale, senza dicembre, marzo, aprile e maggio, la domenica o la Pasqua” e senza neanche Carnevale, dando nuovi nomi ai mesi e resettando l’anno zero al 22 settembre 1793, data di proclamazione della Repubblica francese. I Frosini-Timpano non mancano di ironizzare sui nomi assurdi scelti laicamente per i mesi – Nevoso, Piovoso e Ventoso quelli invernali – per poi mostrare l’altra faccia della medaglia, l’astio tuttora presente, e rivolto direttamente contro la Rivoluzione francese, da parte di alcune sacche di un’ideale Reazione.
Se Ottantanove alterna passaggi canonici a ritrovamenti sorprendenti dai più impensabili “archivi” nel senso ampio del termine, a questa seconda categoria appartiene senza dubbio la telefonata di una vecchina di Sarzana che fece un appello a Radio Maria per organizzare “una campagna denigratoria per la rivoluzione francese, per i Garibaldi, per Napoleone”. Lo stesso tenore ha una pagina del sito ultratradizionalista vaticanocattolico.com che, ostinandosi a italianizzare tutti i nomi dei grandi rivoluzionari a cominciare da un improbabile Gian Paolo Marat, identifica nella Rivoluzione Francese l’inizio della “grande apostasia finale”. Sotto un aspetto però questi ultratradizionalisti ci vedono giusto. “I rivoluzionari più diabolici incominciarono ad adorare il suo cuore. O Cuore di Gesù, O sacro cuore di Marat! Il suo cuore fu preso e appeso al soffitto di uno dei loro ritrovi speciali. Gli idolatri usavano riunirsi sotto il suo cuore…”.
Senza saperlo, vaticanocattolico.com si trova a concordare con uno dei più recenti saggi del grande storico nostrano Carlo Ginzburg, contenuto in Paura reverenza e terrore e dedicato ad analizzare proprio l’iconografia di ascendenza cristiana che sta alla base di quadri come Marat all’ultimo respiro di David. “Questa invasione della sfera del sacro” è, secondo Ginzburg, “l’altra faccia della secolarizzazione”: nonostante le apparenze oppositorie, costantemente “il potere secolare si appropria, quando può, dell’aura della religione”. Dal cristianesimo il processo di secolarizzazione avviato dall’Illuminismo avrebbe ripreso la capacità di appropriarsi mimeticamente delle strutture e dei simbolismi delle grandi religioni del passato. Proprio per questo la Rivoluzione calcava tanto l’accento sull’aspetto comunitario, preferiva la festa al teatro – preferiva riaffermare ancor più forte un Noi, anche quando il destino della nazione era nei fatti nelle mani di uno sparuto gruppo di leader non per forza d’accordo tra loro. Questo elemento comunitario è proprio quello che la secolarizzazione scorderà quando, all’avvento dell’era digitale e a pochi passi dal crollo dei regimi nell’Est, nei paesi dell’area capitalista venne data un’ulteriore stretta a favore di un mito individualista.
“La società non esiste: esistono individui. Lo ha detto Margaret Thatcher nel 1987. Margarettaccia, come la chiamavano i miei nonni”. Con l’approdo al liberalismo, Ottantanove si avvia al termine del suo percorso riflessivo e generazionale, instradandoci, per così dire, all’altroieri dell’oggi. “Io credo in me stessa. Forse non credo neanche in me stessa. E comunque è difficile credere in un noi”. Se per la gioia di Popper il riformismo è la nuova rivoluzione, è del tutto sterile chiedere, come uno dei tre provocatoriamente fa, “scendiamo in piazza domani?”. La risposta, altrettanto caustica, è “scendiamo in piazza a vedere quelli che scendono in piazza”.
Frammentario ma analitico: sono questi i due aggettivi che lo spettacolo ha il pregio di accostare. Nella convinzione, forse inattuale e certo poco condivisa, che una drammaturgia può prescindere dalla narrazione ed essere profonda trattazione, che il teatro può essere luogo di pensiero, più che di esibizione.
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