O tutti o niente: la nuova scuola
Credo che questa volta convenga partire dal fondo, dalla conclusione. Sono così tante le cose che si possono dire sul libro e con il libro di Carla Melazzini che non vorrei risultasse sfocata o confusa fra altre quella definitiva, il messaggio inequivocabile e ineludibile: per quanto difficile è possibile ancora fare scuola ma la scuola si fa se si fa per tutti.
Credo che questa volta convenga partire dal fondo, dalla conclusione. Sono così tante le cose che si possono dire sul libro e con il libro di Carla Melazzini che non vorrei risultasse sfocata o confusa fra altre quella definitiva, il messaggio inequivocabile e ineludibile: per quanto difficile è possibile ancora fare scuola ma la scuola si fa se si fa per tutti.
Se si vuole davvero continuare a pensarla, a parlarne, a farla viva per quel che ne rimane e per quel che potrebbe prendere ad essere non vi sono alternative. Tutto il resto è solo una lunga, lunghissima veglia al capezzale miasmatico di un’istituzione sociale che non smette di animare i desideri, i sogni e i fantasmi della nostra società, circondata dalla nube fosca della chiacchiera continua, dall’accumulo di analisi e diagnosi di ogni livello e di scarsa consistenza.
Evito dunque da una parte di presentare alcuni dei nomi di quei fantasmi e desideri (progetto democratico e civile, uguaglianza, differenza, giustizia, libertà, progresso, scienza, lavoro, cittadinanza, partecipazione ma anche efficienza, efficacia, apprendimento critico e sistematico, potenzialità creative ed espressive, professionalità) e dall’altra tolgo subito il terreno all’argomentare sterile: discorsi sul merito, sulla selezione, sull’istruzione come tecnica non hanno semplicemente il contesto effettivo e culturale per essere condotti con opportunità e saggezza. Essi sono impraticabili al di fuori dell’ipocrisia e della mistificazione, lo gridano i fatti, le condizioni stesse del nostro vivere contemporaneo, in Italia e non soltanto. La buona scuola che stanno frequentando i vostri figli non è buona davvero, non deciderà per l’abisso o per il riscatto e nemmeno renderà loro successo, felicità o realizzazione. È un peccato ed è da menagrami, ma purtroppo è così. Non serve a questo e non può questo. La scuola che frequentano i vostri figli non serve praticamente a nulla mentre la buona scuola che spetta ai vostri figli e alle vostre figlie è da fare, adesso e deve servire tutti e tutte le bambine e i ragazzini della città.
Le situazioni in cui si verifica la formazione delle e dei giovani sono talmente bisognose di essere rianimate e rimotivate e rivivificate che non importa quante brave persone e belle storie vi siano nelle scuole d’Italia. Ci mancherebbe che in simile mare non si trovi estrema varietà. Ma non importa purtroppo fino a quando non fanno sistema, non fanno movimento o rottura o rivoluzione, finché non fanno storie, testimonianze e saperi e alleanze come ad esempio tenta in parte questo libro. Se parliamo di educazione dobbiamo riconoscere che manca l’arte, la sua tecnica e il suo apprendistato: non si sanno creare i contesti, gli ambienti e i procedimenti che consentano a un/a giovane di esprimersi e di apprendere, misurando il mondo e se stessa/o nel mondo alla sua maniera unica che se fosse lasciata sbocciare compirebbe in un sol punto l’armonia individuale e sociale. Da una simile scuola sapiente e in ricerca , che insegni e lasci apprendere al fine di creare i propri posti nelle collettività, al fine di farsi voce civile e corpo sociale nella misura più autonoma e dignitosa possibile, siamo lontani in maniera impressionante e la strada per (ri)arrivarci passa per un lungo umile paziente apprendistato. Questo in fondo ci dice il luminoso libro di appunti sull’esperimento di scuola napoletana di Chance: che abbiamo bisogno di apprendere la reciprocità, il rispetto e la fratellanza che soli fondano realmente la relazione pedagogica e che tutto ciò si sperimenta e si apprende solo se si fa per tutti ossia anche per gli ultimi e gli emarginati anzi no, meglio, se si fa soprattutto per gli ultimi e gli emarginati perché quel che chiedono e donano loro è più radicale, necessario e definitivo. Per tutti.
Altrimenti come spiegarsi che una professoressa «di media cultura e umanità», come Melazzini stessa definisce sé e le sue colleghe, pretenda di parlare da una nicchia–ghetto sperimentale sulla scuola intera, con la convinzione che quel che narra di quell’esperienza corale condotta ai margini, in una situazione socialmente e antropologicamente estrema, sia di utilità pubblica e generale? Come può supporre che la “straripante quantità di cose” che i ragazzini di Chance hanno insegnato ai loro docenti sia necessaria a ogni insegnante?
Credo che l’autrice degli appunti di lavoro e riflessione raccolti in Insegnare al principe di Danimarca sapesse di essere fortunata. Certo non quanto a fatica, lavoro, impegno, esposizione al dolore e alla vanità. Eppure ella sa e dice che non vi è stato danno nella situazione separata ed estrema in cui quelle/i di Chance hanno potuto creare il loro esperimento di scuola. Hanno avuto, si legge tra le righe, l’opportunità di inventare, di improvvisare, di creare e sbagliare, cooperando. L’occasione di rischiare, di fallire e poi di riparare e questo di nuovo è un dono che fanno coloro che sono detti ultimi e rifiuti. Lei non lo dice esplicitamente ma si capisce che quei ragazzini e ragazzine hanno così poco da tutelare, hanno così pochi mezzi per far valere il loro (inesistente) privilegio e così pochi motivi di prepotenza che con loro è possibile rischiare. E il “rischio è insito in ogni serio apprendimento”. Come anche senza responsabilità non c’è vero insegnamento, e viceversa: bisogna poter rischiare per insegnare davvero e bisogna poter essere responsabili per apprendere davvero. Ciò che dunque Melazzini ha ben capito e vuole dimostrare è che il danno grosso avviene nelle scuole normali o perbene che condannano le differenze, addestrano alla sottomissione e all’ipocrisia e nelle quali le occasioni di vera cooperazione sono scarsissime e in ogni maniera il rischio e la responsabilità vengono negati e controllati grazie alla paura. Paura degli insegnati per le rivalse legali da parte del diritto dei più forti; paura delle famiglie che i loro figli rischino di fallire o soffrire per essere se stessi e di vedere deluse le proprie aspettative e ambizioni; paura generata dalla condizione di minorità e irresponsabilità con cui sono mantenuti i giovani: questo fa in modo che difficilmente si resista alla tentazione e all’incidente continuo di offendere, umiliare, sacrificare, sprecare e ferire una persona giovane. Nella forma che ha la scuola, riflesso si sa delle altre istituzioni sociali e delle condizioni politiche generali, non si usano il dialogo, il tempo e le risorse perché gli individui giovani possano scoprire le loro reali possibilità e talenti, perdendosi e ritrovandosi fino a divenire se stessi, con corpo e mente sani.
L’augurio dunque che mi facevo leggendo il libro Sellerio era che tante e tanti docenti in Italia lo acquistassero per discuterne, per rifletterci sopra inquietamente, per irritarsi e poi ispirarsi. In parole povere che avesse successo e che fosse più forte del suo successo. Leggendo ho riconosciuto negli appunti di Carla Melazzini, raccolti dopo la sua morte e offerti così come erano fissati in mezzo alle giornate operose e senza tentazioni egotico-artistiche, tutte le caratteristiche per essere fruiti e consumati voracemente e sterilmente. Il nostro presente ha fame di rappresentazioni autentiche, e intense, della vita, fame che sempre c’è stata mentre complicato e contradditorio è il modo attuale di consumare senza nutrimento e senza rigenerazione, alla ricerca dell’appagamento narcotico, di un palliativo per le condizioni che negano di fatto quella stessa vita e umanità di cui si vanno cercando avidamente immagini.
Melazzini ha scritto per testimoniare, capire e condividere, senza compiacimento e speculazione ha rappresentato le mattinate di scuola, le scale salite e scese, i colloqui con genitori e bidelli, le storie e le emozioni di quelle ragazzine e ragazzini napoletani che coi loro gesti esplosivi ed eclatanti, coi loro destini piccoli avventurosi e tragici ostentano generosamente l’immediato più profondo della condizione umana in tutte le sue innumerevoli diversità. L’importante è non approfittare nuovamente di loro, di usare davvero il brivido che danno le storie, le parole, i ritratti le emozioni loro senza abuso e oltraggio cioè senza fare i guardoni, le anime buone o i degustatori di antropologia. Bisogna sentirsi coinvolti e visto che è un libro che parla di scuola bisogna, come ho detto, riflettere sul gesto educativo radicale creativo e appagante di mettersi in relazione reciproca e costruttiva con i più piccoli e piccole tra i piccoli, accettando integralmente senza giudicare e senza negare le differenze.
Le opere che si compiono nell’azione chiamando a una dimensione attiva e politica, hanno un’universalità che si presta alla strumentalizzazione, da parte di chi è più vicino e più lontano. Tutto ciò a me l’ha insegnato Napoli e di Napoli è pieno il libro Insegnare al principe di Danimarca. Non solo perché si dedica a descrivere ed esaminare la città, perché tratta del suo spazio e dei suoi codici, spiega la sua guerra e le sue culture. Ma anche perché mostra come tutto lì si faccia così terribilmente significativo e allegorico,così emotivamente e sorprendentemente coinvolgente e vivido e caloroso. Chi ha vissuto e amato la città nuova lo sa, è uno schianto del cuore e poi mi devo trattenere dallo spandere fiumi di cattiva poesia e canto stonato. Esagero? Non credo. Se no non ci sarebbero stati negli ultimi anni il consumo sfacciato di racconti sull’estremismo di Napoli, la Gomorra-mania e Scampia trasformata in icona pop. Come dice Braucci, Napoli è per l’Italia come il ritratto di Dorian Gray: si fa carico di mostrare tutte le brutture e i mali del paese in maniera che in esso mai nulla cambi. Ma queste cattive leggende sull’immutabilità di Napoli, sulla rassegnazione fatalista e “induista” del napoletano devono essere rigettate, smascherate e ricondotte all’effetto spietato degli interessi di casta, a problemi in definitiva di azione politica, sia individuale che collettiva.
Di conseguenza un altro tema decisivo nelle riflessioni di Melazzini è il gruppo. Chi ha operato a Napoli sa come ci si trovi presi tra il miraggio di attingere alla risorse mirabolanti di una socialità diffusa e vivace e la frustrazione dei suoi coatti auto-sabotaggi, oscillando dai momenti in cui assieme si produce fortemente e virtuosamente senso e quelli in cui tutto si svela vano e meschino. Chi invece ha provato a fare scuola in qualsiasi posto sa che senza cooperazione è impossibile. Non mi riferisco a stare nella scuola, magari anche dignitosamente, ma parlo di creare lo spazio e il contesto per l’esperienza formativa fondante, con effetti di educazione e di istruzione costruttivi e liberatori. Non insegna mai davvero uno solo a tanti, non si accende la funzione reciproca di apprendimento. La stessa traduzione dei significati culturali e scientifici deve “ragionevolmente” essere corale tra le discipline, come si è scritto e riscritto su inutili ufficiali carte. Ma preparare materiali di studio e didattiche condivise richiede tempo, convinzione, agio e la capacità di abitare una comunità operosa, obiettivo da cui tutto negli ultimi decenni ci ha distolto e che sarebbe folle andare a cercare nelle scuole “normali”. Comunque sopra e oltre la didattica è tutta l’educazione che non può essere altro che cooperativa (è quasi tautologico). Melazzini usa costantemente la prima persona plurale e del suo gruppo docente racconta, in controluce, le routine di verifiche e critiche reciproche, di contrattazioni e revisioni, di mediazioni e soluzioni nonché la vicenda di successi e fallimenti, sia umani che professionali. Inoltre mostra che solo un gruppo docente cooperativo può difendersi dall’onnipotenza e dal suo opposto, l’annichilamento, tanto più attraenti di fronte a destini che ti illudi o desideri di lambire e che invece ti spiazzano per la loro ineluttabile ferocia.
Il gruppo docente cooperativo deve fare da specchio al gruppo–classe, deve offrire un’immagine di come potremmo essere al nostro meglio. Ciò è necessario perché per quanto artificiale il gruppo classe è l’ambiente sociale effettivo dove si compiono l’educazione e la formazione scolastica. Le pagine che ho preferito sono quelle in cui la professoressa di Chance critica la mania di proporre ai ragazzi e alle ragazze l’attualità intesa come meditazione sull’orrore dell’uomo e della storia. Spiega che i più giovani hanno il diritto al tempo per tentare un’altra risposta, a sottrarsi alla brutale ingiustizia del sempre è stato e sempre sarà così. Ciò secondo me è profondamente connesso alla ripetuta richiesta che si fa nel libro di tutela e di rispetto nei confronti del gruppo-classe. La relazione con i pari è fondamentale per i giovani, è il loro campo di scoperte, il paradiso e l’inferno dei loro anni. Non vanno né offesi né scoraggiati e disillusi in questa dimensione, che rivela bisogni autentici e profondi a cui dovrebbero conformarsi le nostre istituzioni. Nella scuola il gruppo-classe deve essere riconosciuto come un organismo istituzionale, dotato di diritti e di doveri, di autonomie e libertà e come un soggetto sociale dotato di vita inconscia e politica che debbono trovare trattamento ed espressione.
Vanno in questa direzione alcune delle tecniche e pratiche che Melazzini racconta. Qui sta l’ultimo punto di valore del libro, fra tanti, che vorrei segnalare. Per delle/degli insegnati non può che essere interessantissimo leggere delle tecniche didattiche e pedagogiche che hanno usato a Chance: il circle time (in altri contesti detto consiglio degli allievi o assemblea); i colloqui individuali; le simulazioni d’esame; le camminate e la didattica itinerante per la città; i soggiorni di formazione professionale in luoghi vicini e lontani; il lavoro in rete con le agenzie del territorio; l’attività artistica e manuale; la pedagogia della parola. “La didattica che le ragazze e i ragazzi di Chance hanno esercitato su di noi con azione spesso virulenta ma efficacissima è consistita nel costringerci ad applicare alcuni principi semplici e vecchi come il mondo”: cioè dei basilari della sapienza pedagogica, dei principi per i quali chi non è fascista, chi non è cattivo o sordo non può fare che altro che lottare, lottare e lottare, assieme agli altri e alle altre convinti che altrimenti non vi sarà nessuna scuola che lasci fiorire le possibilità e i talenti individuali, crescendo la libertà e la giustizia che ci rendono umani.