Nuove strade del fumetto per ragazzi

La recente fioritura del fumetto per ragazzi, dopo anni di più o meno marcata latitanza, è all’interno del panorama editoriale non solo italiano un fenomeno particolarmente interessante. E questo non soltanto perché, come per ogni fenomeno editoriale, indagarne le cause, riflettere sulle strade percorse e analizzarne le metodologie può almeno in parte indicare la direzione in cui questo mercato traballante si sta muovendo, ma soprattutto perché le specificità di questa rinascita rivelano, a mio avviso, qualcosa del modo in cui generalmente si intendono i fumetti, i lettori – giovani o meno – e, in qualche misura, la lettura tutta.
Il primo aspetto interessante è che la rinnovata attenzione, in primo luogo da parte del pubblico, e la conseguente espansione in termini produttivi di un fumetto pensato per giovani lettori non è un dato locale. È anzi un’ondata transnazionale, che ha investito con particolare vigore soprattutto quei Paesi in cui il fumetto già stava andando bene, ma che non avevano (o avevano parzialmente accantonato) una tradizione forte in questo senso: Italia e Stati Uniti in primis, dove collane e talvolta intere divisioni editoriali dedicate a fumetti per una fascia d’età che va dall’infanzia alla prima adolescenza spuntano come i funghi, sia tra gli editori canonicamente “di fumetto” che, forse addirittura più interessante, tra i colossi dell’editoria di varia per l’infanzia.
Certo, esempi illustri che, pur rimanendo nella contemporaneità, pre-datano questi ultimi anni di palese rinnovamento non mancano: la grande tradizione disneyana, anche e soprattutto italiana, è sicuramente il più organico, ma lodevoli sono anche state iniziative pioneristiche quali l’attività di First Second e Scholastic Graphix o più isolate come la rivista “Mondo Naif” di Kappa Edizioni, fondata nel 1998. Tuttavia è solo in un passato molto recente che l’interesse si è ravvivato fino ad assumere i connotati di un vero e proprio settore culturalmente vivace. Per dirla con le parole di Gina Gagliano, tra le fondatrici di First Second, ora direttrice editoriale della neonata Random House Graphics e in generale tra le principali forze motrici di questo fenomeno, “prima del 2005 il mercato del fumetto era dominato dai supereroi e dai manga” mentre oggi “sembra che ogni bambino, ovunque, stia leggendo un graphic novel”.
Ma com’è che, quasi d’un tratto, l’attenzione per il fumetto e per questa fascia d’età sono diventati tali da spingere un po’ tutti gli attori del mercato a puntare in questa direzione?
Dal canto mio, come per molte delle recenti trasformazioni che hanno coinvolto negli ultimi anni la letteratura disegnata, ritengo che il successo che il fumetto sta riscuotendo tra i giovani lettori abbia a che fare, almeno in superficie, con una questione di legittimità culturale. Non è un caso, infatti, che il vettore principale di questa fioritura sia la bizzarra etichetta merceologica, creata e formalizzata “ad hoc” proprio per forzare una percezione di legittimità, del graphic novel: il dato interessante non è infatti la comparsa del fumetto per ragazzi in sé – che in fin dei conti, tra alti e bassi e con le forme più svariate, è sempre esistito –, ma il suo approdo organico e sistematico nel canale relativamente vergine della libreria di varia. Tutto questo non sarebbe potuto accadere senza la preventiva accettazione da parte di un pubblico adulto, perlopiù scettico, di quel cavallo di troia che è stato ed è ancora il “romanzo a fumetti”. Per dirla in parole povere: prima di poter arrivare ai bambini è stato necessario prendersi il tempo di convincere i grandi – cioè genitori, educatori e insegnanti – che i fumetti erano o potevano essere una cosa seria.
Tra i vari demeriti e le numerose sovrainterpretazioni, talvolta anche dannose, che si possono attribuire al termine, vale la pena riconoscere che il graphic novel ha in primo luogo svolto una fondamentale funzione emancipatoria. Ha al contempo inaugurato una tradizione fumettistica generalmente più autoriale delle precedenti, dando il via a una tradizione stilistico-narrativa perlopiù inedita e ampliando notevolmente lo spettro di possibilità per un linguaggio a lungo ritenuto inferiore e superficiale. E se è vero che soprattutto in tempi recenti si tende ad associare al concetto di “romanzo a fumetti” una qualità di merito che non gli appartiene e un valore che eccede quello puramente merceologico, è anche vero che è con la sua affermazione che si è via via radicata in un pubblico non specialista l’idea che il fumetto avesse un qualche valore culturale. E il valore culturale lo si dimostra, preoccupante pregiudizio, parlando tra adulti di cose da adulti. Motivo per cui, ritengo, si sono a lungo trascurati i lettori più giovani. Che sia andata così non è di per sé un problema, beninteso, ma va considerato che nei lunghi anni caratterizzati dalla sottoproduzione di fumetto per ragazzi il mondo è molto cambiato – in termini economici e di mercato del libro, in termini sociali, in termini di fruizione culturale – e ci si è poi trovati con un grande vuoto da riempire in fretta, cioè con una grossa opportunità da sfruttare, ma senza aver necessariamente avuto il tempo di riflettere organicamente sui passi da compiere.
Quindi eccoci qui, a dove siamo ora, in un momento in cui “sembra che ogni bambino, ovunque, stia leggendo un graphic novel”; in cui case editrici come Il Castoro e Random House, che mai si erano dedicate sistematicamente al fumetto, riformulano la loro struttura con divisioni editoriali specifiche; in cui nei relativi editori aumenta il peso delle collane dedicate ai giovanissimi (Tipitondi di Tunué, BaBao di Bao Publishing e Dino Buzzati di Canicola); in cui perfino i più granitici tra gli editori di fumetto, penso per esempio a Sergio Bonelli Editore e DC Comics, rimodulano la loro identità inaugurando – non sempre con successo – iniziative il cui target sono i figli dei propri clienti abituali. Qualche volta i nipoti. Tutto questo è molto bello, e a prima vista fa ben sperare: l’esplosione della proposta ha portato con sé una gran diversità e una ancora maggiore inclusività che, lentamente, stanno formando i lettori del futuro. Ma forse vale la pena riflettere, o sarebbe stato opportuno farlo a suo tempo, sul modo in cui li stiamo formando, questi lettori del futuro, a quale direzione li vorremmo avviare.
La prontezza con cui ci si è avventati su questa nuova gallina dalle uova d’oro, un pubblico digiuno ma affamato di narrazione visiva, quindi facilmente colonizzabile, ricalca quanto accaduto solo pochi anni prima al fumetto per adulti: un disordinato assalto alla diligenza la cui unica finalità sembrava essere il produrre il più possibile il più in fretta possibile. Anche tralasciando l’evidente incompatibilità di questo modus operandi con le trasformazioni di un’industria che vorrebbe definirsi culturale, se non nelle modalità almeno negli intenti, la mancanza di una strategia che affondi le proprie radici sulla comprensione del linguaggio proposto, su una precisa idea di lettore e su una presa di posizione forte sul valore della lettura ha mostrato e continua a mostrare i limiti di una sovrapproduzione selvaggia e indirezionata. E se è noto che il mercato del libro ha le sue (folli) regole che spingerebbero anche il più virtuoso degli editori a compromettere, nel migliore dei casi parzialmente e con eleganza, l’integrità del proprio catalogo per stare dietro a una richiesta di novità che non conosce riposo, è anche vero che quest’attitudine a cedere sul fronte qualitativo è particolarmente grave e pericolosa se l’oggetto del discorso è un linguaggio relativamente ancora poco compreso e il suo destinatario un pubblico in formazione. Proprio laddove sarebbe necessaria una particolare attenzione, invece, troppo spesso le ragioni economiche paiono soverchiare quelle culturali e pedagogiche. “Tanto sono solamente fumetti per bambini” è la giustificazione che si intuisce dietro la bassezza di tanti titoli; giustificazione che riesce nel compito non banale di sminuire a un tempo tanto il linguaggio quanto il suo fruitore. Poi ci si stupisce se i lettori forti, in Italia, sono soltanto il dieci per cento della popolazione…
Non è certo una novità che fin troppo spesso – pur non necessariamente con regolarità, anche all’interno di uno stesso catalogo – l’apertura al fumetto da parte di editori appena nati o che storicamente si erano dedicati alla narrativa tradisca una certa superficialità nell’intendere il linguaggio e le sua specificità: è in questa leggerezza, dovuta sperabilmente a inesperienza più che a malizia, che sono da ricercarsi le radici della gran quantità di titoli linguisticamente sciocchi, eccessivamente prolissi o nei quali la componente visiva è relegata al più a un ruolo ancillare. Una scarsa comprensione del potere narrativo del disegno, con tutta la stratificazione semiotica che potrebbe avere, è una trappola ben comune tanto per gli autori quanto per i lettori, specie se di formazione provenienza culturale romanzesca. E se già nel fumetto per adulti tocca constatare come sia sistematicamente difficoltoso uscire da prassi valutative che non vedono che l’intreccio e la prosa, nel caso del fumetto per bambini e ragazzi è fin troppo evidente quanto spesso si punti su una semplificazione del disegno che sa di sciatteria e approssimazione. Parrebbe essere convinzione diffusa che, specie nel caso di giovani lettori, il linguaggio visivo debba mantenersi superficiale, immediatamente decodificabile, spesso addirittura trascurabile con produzioni perfettamente fruibili anche attraverso la sola componente testuale. Ma un fumetto i cui disegni siano irrilevanti, disfunzionali o peggio brutti, semplicemente, non è un buon fumetto. Anche se magari racconta la storia più bella del mondo. Anche se magari tocca i temi più importanti del mondo.
E questo ci porta alla seconda criticità: la morbosa ossessione per la storia, per il tema, per l’intreccio. È una deriva trasversale che discende naturalmente da un modo di intendere il libro, e in particolar modo il libro per l’infanzia, che lo vorrebbe limitato alla funzione strumentale, brutalmente didattica nella peggior accezione del termine.
Quella dei libri a tema – per raccogliere sotto un’unica comoda etichetta tutte quelle produzioni in uno spettro che va dalla sterile rappresentazione biografica al manualino di psicologia spicciola al bignami su questo o quell’evento storico – è una piaga che ha corrotto il sistema culturale per troppo tempo, negando la premessa fondamentale che il libro sia più che un mezzo per raggiungere un fine (la conoscenza, intesa come didascalica collezione di nozioni). Piaga che si fa più dolorosa via via che il pubblico di riferimento si fa più giovane: per essere una società che si stupisce della sparizione dei suoi lettori adulti, siamo generalmente ben poco attenti al valore fondativo che la lettura dovrebbe avere in tenera età. Valore fondativo che non passa certo attraverso la “quantità di cose imparate leggendo questo o quello”, ma sul valore estetico del libro e sul piacere che provoca.
Il fortunatamente limitato, per ora, fenomeno delle riduzioni a fumetti dei classici della letteratura – che vanno ad allungare le fila dei romanzi a fumetti di cui non c’è davvero alcun bisogno – rivela poi l’altro lato della medaglia: quella di una legittimazione che sotto la luccicante superficie si rivela essere invece mancata o al più parziale. Sono appunto delle riduzioni, parola eloquente, e sembrano suggerire una gerarchia: si legge per imparare, se proprio non può essere un libro (“si sa che i ragazzi d’oggi hanno poca costanza”, sigh) che almeno sia un fumetto che si finisce in fretta ma che ti insegna qualcosa, e se proprio non ti insegna qualcosa che almeno sia un classico della letteratura (opportunamente mutilato per andare incontro alle necessità immaginate e alle mancanze supposte di un lettore che proprio non vogliamo credere meritevole di fiducia).
Lo strapotere della trama e soprattutto del tema, che in generale riesuma l’ormai superata dicotomia tra forma e contenuto, è senza dubbio una deriva da combattere. Ma è al contempo necessario diffidare sempre anche di quei titoli che nascondono, più o meno efficacemente, la loro vuotezza sotto un firmamento di disegnini piacevoli e sterili carinerie. Senza entrare nell’analisi semiotica, per quanto interessante e centrale, in prima battuta possiamo dire che il fumetto è un linguaggio ibrido che vive nel costante e complesso dialogo tra immagine e parola, nessuna secondaria all’altra, ognuna ugualmente protagonista. Ed è nella complessità di quel rapporto che sta la sua specificità e quindi il suo valore. Un fumetto “ben scritto” non può quindi che difendere questa ibrida specificità e anzi farne la sua forza, perché l’atto di scrivere è un atto mutevole che si compone di elementi diversi come diversi sono i linguaggi che si possono scrivere. Nel caso del fumetto classicamente inteso, teniamoci qui lontani dalle sperimentazioni, scrivere significa combinare testo e immagine affinché, assieme, costruiscano una narrazione. Trascurare anche solamente una di queste tre parti, nascondendola dietro l’importanza o la carineria delle altre, significa mistificare il linguaggio nella sua dignità e nella sua funzione. Da qui è poi poco sorprendente come mai il fumetto per ragazzi sia ancora così spesso considerato l’alternativa intellettualmente economica al romanzo: non si sta promuovendo il buon fumetto, ma una sua versione linguisticamente mutilata, strumentale nel contenuto o accomodante e superficiale nella forma (che si confà, è bene ribadirlo, in ugual misura di parole e immagini).
Si spiega così la notevole abbondanza di titoli caratterizzati da un discutibile o sterile valore estetico e da una funzione nozionistica o brutalmente “educativa” esibite, che paiono essere la loro unica ragion d’essere: la biografia per scoprire qualcosa di Frida Kahlo, il resoconto sulla strage di Bologna, la storia sul valore dell’amicizia anche di fronte alle difficoltà. Quest’attitudine non solo mortifica il libro a fumetti in quanto oggetto culturale pienamente legittimato, ma allontana poco alla volta il lettore potenziale prima dal linguaggio e poi dalla lettura tutta: con quale paternalismo possiamo pretendere che si continui a leggere oltre l’età dell’obbligo, se le esperienze di lettura proposte sono pensate per essere delle enciclopedie surrogate nelle quali scoprire informazioni e null’altro?
This was our pact di Ryan Andrews, di prossima pubblicazione italiana grazie a Il Castoro, è un ottimo esempio in questo senso (come del resto buona parte del catalogo di First Second, che per prima l’ha pubblicato negli Statu Uniti): è certamente una storia di amicizia pur non essendo una storia sull’amicizia, un racconto di viaggio e d’incontro (fisici e metaforici) senza diventare un racconto sul viaggio e sull’incontro… e via discorrendo. Disegnato splendidamente, questo romanzo a fumetti per ragazzi dalle medie in su trascina il lettore in un viaggio che riconosce il valore dell’elemento fantastico, che gioca con gli archetipi e con gli stereotipi (del viandante buono e della strega cattiva, per dirne due), che riconosce ai personaggi la loro complessità, che riempie di meraviglia. Non è certo una lettura che si pone l’obiettivo esplicito di insegnare qualcosa, e anzi rifugge l’appiattimento del riassunto da fascetta (“leggi questo libro per…”). Ma è innegabile che dall’ultima pagina se ne esca non soltanto svagati e intrattenuti ma soprattutto arricchiti e stimolati, con quel retrogusto che ti fa desiderare di averne ancora, di libri come questo. Ma anche come Piccolo Vampiro di Joann Sfar (in corso di pubblicazione per #logos), come Ariol di Guibert e Boutavant (BeccoGiallo). O, per ragazzi un po’ più grandi, come Su un raggio di sole di Tillie Walden (di prossima pubblicazione per Bao Publishing, in originale sempre First Second), La saga di Grimr (Tunué) o La fortezza di Sfar e Trondheim (Bao Publishing). Solo per citarne alcuni tra i più recenti.
L’attuale espansione dell’editoria a fumetti e, nello specifico, l’esplosione della produzione per bambini e ragazzi rimangono quindi, nonostante le criticità elencate sopra, un fenomeno positivo. Tuttavia se, nonostante i buoni esempi comunque esistenti, vogliamo che questo fenomeno non si riduca all’ennesimo rigurgito cieco di titoli senza arte né parte su un mercato che presto si stancherà anche della novità che sono le figure, è necessario alzare l’asticella delle pretese minime da ciò che è accettabile a ciò che è realmente buono. Non possiamo, ovviamente, avere il controllo su cosa e quanto viene pubblicato, ma armandoci degli strumenti critici necessari alla decodifica possiamo: scegliere con più attenzione cosa comprare, cosa leggere e cosa far leggere; difendere la qualità dove c’è e invece esporre, argomentando senza tema di smentita, le mancanze laddove abbondano.
Il fine non giustifica i mezzi, soprattutto se il fine è sbagliato. E l’accettazione di un’idea di lettura tanto superficiale, che non può che puntare a perpetrare se stessa come strumento d’apprendimento costantemente al ribasso, non può che essere il peggiore dei fini. O almeno non può che esserlo per qualcuno cui interessa la lettura. Un editore, un insegnante, o un genitore che vorrebbe i figli leggessero, ad esempio.