Numeri, virus, sanità e democrazia
“Tutto poteva essere vero, tranne le notizie ufficiali” – Marc Bloch, 1921
Il mondo industrializzato soffre della sindrome da quantificazione: ha un bisogno acuto di contare e rendicontare perché affida ai numeri ogni presunzione di conoscenza e ai bilanci ogni giudizio, compresi quelli di ordine morale, sociale e pedagogico, meglio se certificati. È un grave rischio e un limite, perché si finisce così per avere una visione incompleta, economicista della realtà e pure farlocca quando si includono nei calcoli anche grandezze non quantificabili. In questa situazione ci vuole poco – un invisibile microorganismo a RNA virale con diametro di 200 nanometri – per passare dall’avere dei numeri per le valutazioni (OMS e ISS), al farsi un numero sbagliandole (la struttura sanitaria in Lombardia) fino a dare i numeri (i governatori di Lombardia e Veneto) travisando i fenomeni da governare, soprattutto quelli sociali e naturali.
I numeri servono per rappresentare il mondo, non per controllarlo. Preferiamo invece illuderci che ne siano l’essenza, forse perché la rappresentazione matematica è asettica e possiamo fingere di esserne solo spettatori e che non ci coinvolga. Per fare ciò dobbiamo comunque stare al gioco e finiamo così per trascurare e dimenticare ciò che attraverso i numeri non è rappresentabile ma non per questo meno importante. Facciamo anche di peggio, perché anche quando abbiamo numeri che rappresentano bene la realtà, forse per la sacralità che attribuiamo loro facciamo poco o nulla per cambiarli, mentre sarebbe proprio quello l’obbiettivo: fornirci un’idea approssimativa di come va il mondo non per lasciare che resti tale ma per modificarlo, rendendolo migliore possibilmente assieme a noi che ci viviamo dentro.
I numeri dell’epidemia da Coronavirus (Covid-19) aggiornati su scala mondiale li offre il Centro per la scienza e l’ingegneria dei sistemi della Johns Hopkins University di Baltimora (USA), che in un mappa virtuale del pianeta elenca il numero di casi (oltre 110.000 il 9 marzo 2020, con l’emergenza che si sposta fuori dalla Cina), i decessi (3,5 % dei casi) e i guariti (più del 55 % dei casi, in crescita). La loro distribuzione cambia rapidamente: la maggioranza resta concentrata fra Cina (80 %), seguono Italia, Corea del Sud e Iran (6 % circa ognuna), mentre tutto il resto del mondo assieme non arriva (ancora) al 2 %. I decessi seguono distribuzioni disomogenee al momento inattendibili su scala locale: la Germania non registra finora nessun decesso con più di 1000 persone affette, mentre è attesa in media una letalità del 3 % dei casi conclamati. La Brexit pare aver aiutato il Regno Unito che conta finora meno di 300 casi in tutta la Gran Bretagna (20 guarigioni, 2 decessi). Si distinguono gli Stati Uniti che registrano i casi non a livello di Confederazione ma per stati singoli, tutti concentrati nelle grandi città, inferiori a 500 complessivamente con 20 decessi. Sembra inoltre che le donne siano in media meno vulnerabili degli uomini rispetto agli esiti più gravi dell’epidemia.
Come già sottolineato nell’intervista apparsa su “Lo Straniero” (N. 184, ottobre 2015) a David Quammen, autore di Spillover. L’evoluzione delle pandemie (Adelphi 2014) la crescita della popolazione umana, la sua maggiore esposizione in ecosistemi un tempo isolati e il suo impatto sugli stessi aggravano la situazione, non per lo sviluppo dei virus che convivono con noi da sempre, ma nel passaggio di questi dai loro originari ospiti animali all’uomo e poi nel meccanismo di diffusione della malattia da uomo a uomo. Quando un nuovo virus infetta la prima vittima umana e impara a replicarsi e trasmettersi da un essere umano all’altro, diventano determinanti i fattori legati alla densità abitativa, ai sistemi di trasporto, ai viaggi e alla globalizzazione. Per cui, se un uomo in Cina si ciba di un animale che ha un nuovo virus e si ammala, la nuova patologia (zoonosi) che un tempo sarebbe rimasta circoscritta al suo villaggio o alla sua etnia, oggi invece molto rapidamente si estende prima a Hong Kong o a un’altra delle megalopoli cinesi e poi da lì può viaggiare con il suo ospite comodamente in aereo verso qualunque altra parte del mondo in meno di 12 ore. I tempi per un intervento a posteriori di contenimento dell’epidemia sono estremamente ridotti in questa situazione e mano a mano che il virus si diffonde (“cresce”) gli tiene il passo soltanto il lievitare dei costi economici e sociali e del numero di vite perse. Per questo non bisognerebbe mai perdere di vista il bene comune e collettivo della vera prevenzione.
Negli anni ’60 e ’70 del novecento il diritto alla salute “bene fondamentale individuale e interesse collettivo” fu un punto di convergenza in Italia per la saldatura delle lotte studentesche con il movimento di rivendicazione ed elaborazione culturale di operai, ricercatori e operatori sanitari che si interrogavano sulla responsabilità della scienza nel perpetuare o sanare le ingiustizie di una società classista. Le riflessioni si allargarono presto anche al riconoscimento della difesa dell’ambiente di vita come naturale estensione della difesa della salute all’interno della fabbrica e alla necessità di usare la costruzione scientifica come strumento inclusivo di un sapere collettivo, partecipato, democratico. Si parlava allora della necessità di imparare a individuare non solo “le cause delle malattie” ma – si badi bene – anche “le cause delle cause”, compito mai entrato nella formazione del medico al quale invece si insegna non che le malattie epidemiche si sviluppano principalmente da malnutrizione, insalubrità e sovraffollamento abitativo ma dall’incontro sfortunato con un virus o un micobatterio nello stesso modo in cui si insegna che il cancro non deriva da un modo di produrre che distribuisce il rischio per accentrare il profitto, ma dalla scelta incauta di comportamenti individuali inappropriati.
Questa premessa è necessaria per comprendere a quale livello infimo di discussione e riduzione del problema della salute di tutti e di ciascuno si sia ridotto il discorso pubblico ai tempi del Coronavirus. Eppure mai come in queste settimane paranoiche di emergenza e censura è apparsa chiara la correlazione che quel movimento culturale – capace di dare a un paese che non se li merita più lo Statuto dei lavoratori (1970) e il Servizio Sanitario Nazionale (1978) – svelava fra salute e democrazia. Si parlava della malattia in generale come perdita di partecipazione e viceversa dell’assenza di partecipazione come sintomo di malattia, analizzando la storia della medicina nella prospettiva delle classi sottomesse e indicando come nemici della partecipazione democratica anche in campo sanitario l’autorità senza autorevolezza, l’efficienza senza efficacia (attenta cioè al funzionamento in senso tecnico ed economico ma non alla funzione delle istituzioni) e il provvidenzialismo inteso come peggiorativo del paternalismo, che esige perfino la delega da coloro che pretende di rappresentare.
Si valuti in questi giorni il livello di autorevolezza ed efficienza del Sistema Sanitario nelle tre regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) che più hanno spinto per l’Autonomia Differenziata, per avere cioè libertà d’azione nel campo dell’educazione, dei trasporti e della sanità e cosa resta dell’atteggiamento provvidenzialistico dei loro leader. Queste tre regioni ricche hanno oggi quasi il 90 % dei casi italiani di Covid-19: 60 % in Lombardia, 15 % in Veneto, 7 % in Emilia. Per la Lombardia, che si vanta del miglior sistema sanitario regionale in Italia non è scandaloso pensare che qualcosa non abbia funzionato. In provincia di Lodi, a Codogno – paese natale di Giulio Maccacaro fondatore del Nuovo Sapere – uno dei focolai di diffusione del virus in Italia, non può essere considerato normale il fatto che tra le persone contagiate dal paziente trentottenne (caso numero uno) diverse settimane dopo la comparsa del Coronavirus in Cina vi siano stati anche operatori sanitari e pazienti già ricoverati nell’ospedale locale. Come ha spiegato Vittorio Agnoletto “Le indicazioni dell’Oms sulle precauzioni universali e i protocolli da rispettare per gli operatori sanitari sono molto chiari. È sterminata la letteratura sull’obbligo dell’uso dei dispositivi di protezione individuale (…) da parte del personale sanitario, sulle modalità di accoglienza, di ricovero dei cittadini con patologie sospette e sulla gestione della sicurezza sanitaria nelle strutture ospedaliere. Misure da adottarsi quindi non solo di fronte ad un paziente già fornito di diagnosi” (Il fatto quotidiano, 27 febbraio 2020).
Le responsabilità non vanno attribuite agli operatori dei servizi sanitari che stanno lavorando in condizioni e con mezzi di emergenza, ma allo smantellamento progressivo del servizio sanitario pubblico a favore di quello privato perseguito da decenni con sistematicità in Lombardia, come in Veneto, Emilia Romagna e Piemonte, con tutta la deriva culturale e corruttiva che ne consegue. Si veda La nebbia sulla sanità privata in Lombardia e altri saggi disponibili su internet di Maria Elisa Sartor – curatrice del libro di Jacky Davis e Raymond Tallis, SOS SSN dall’Inghilterra. Come il Servizio Sanitario nazionale inglese è stato tradito e come si è deciso di salvarlo (Jago edizioni 2017) – che spiegano bene le deformazioni che derivavano nel rapporto medico-paziente e nella correttezza dell’informazione sanitaria dal profondo conflitto di interesse che mina la partecipazione democratica nella sanità privata. Ne hanno fatto le spese non i grandi centri specializzati lombardi dove ci si può curare con le migliori terapie disponibili al mondo, ma i servizi di prevenzione che sono stati ridotti al minimo, i pronto soccorso in condizioni fortemente critiche, i medici di base e gli ambulatori territoriali ridotti di numero mese dopo mese. Si noti – come riferisce Agnoletto – che il personale addetto al trasporto interno dei malati in ospedale a Codogno non solo non era munito di mascherine ma era costituito dai dipendenti di una cooperativa alla quale era stato esternalizzato il servizio, non da professionisti del Servizio Sanitario Nazionale.
Per settimane mentre il governo nazionale mobilitava operatori, volontari della protezione civile e l’esercito per l’emergenza, nessuna delle autorità regionali coinvolte ha ritenuto di invitare le strutture sanitarie private a mettere a disposizione le proprie competenze e il proprio personale; eppure la sanità privata è destinataria di somme ingenti da parte della Regione. Sembra che la tutela della salute pubblica non le riguardi e nessuno sente il dovere di chiedergliene conto. Anzi – come ancora sottolineato Agnoletto – in questi giorni di epidemia sono stati cancellati da parte delle strutture sanitarie pubbliche una grande quantità di visite ed esami già prenotati anche con codice d’urgenza e relative ad altri settori della medicina non coinvolti nella vicenda Coronavirus – come risulta dai microfoni di “37e2”, la trasmissione sulla salute di Radio Popolare – per cui chi economicamente poteva si è rivolto alla sanità privata che sta traendo ulteriori guadagni da questa situazione.
In numeri assoluti, i quasi 4.000 decessi al mondo (366 in Italia) correlati oggi con il Coronavirus (SARS-CoV-2) comparso in Cina nel dicembre 2019 impallidiscono se confrontati su scala mondiale con l’incidenza e la mortalità della malaria (219 milioni di casi, 435 mila decessi nel 2018 concentrati in 16 paesi subsahariani e in India), della tubercolosi (8 milioni di casi, 2 milioni di decessi) e dell’AIDS (1.7 milioni di casi nel 2018, 700.000 decessi).
In numeri relativi, le morti provocate dalla sindrome del Coronavirus (COVID-19) proiettando su scala annuale i dati al momento disponibili, rappresentano lo 0.02 % (atteso in crescita) dei decessi totali. In Italia intanto si contano ogni giorno circa 10 morti per incidenti automobilistici e altrettanti per le malattie causate dall’amianto, 3 morti per incidenti sul lavoro, 1 morte ogni due giorni per femminicidio. Le principali cause di morte al mondo sono le malattie cronico-degenerative legate al processo di invecchiamento dell’organismo: le malattie del sistema circolatorio assieme ai tumori rappresentano da anni le prime due più frequenti cause di morte, responsabili di circa il 70 % decessi. Le malattie del sistema circolatorio sono la prima causa di morte soprattutto per le donne (40 %), lo sono anche per gli uomini (34 %) ma statisticamente appena sopra i tumori (32 %). Molto meno frequenti sono tutte le altre cause: le malattie dell’apparato respiratorio rappresentano la terza causa di decesso, sia per gli uomini sia per le donne ma sono sotto il 10 %, seguite dalle cause violente fra gli uomini (5 %) e dalle malattie endocrine e del metabolismo (5 %) fra le donne, prevalentemente imputabile al diabete mellito che da solo è responsabile del 4 % di tutti i decessi femminili.
Ciò che più cambia la prospettiva sul Coronavirus non è il tasso di letalità (3 % di decessi su casi conclamati) e meno ancora la mortalità (0.2 % di decessi su tutti i casi totali ipotizzabili compresi quelli asintomatici) ma, assieme all’incidenza elevata tipica di un’epidemia influenzale, il fatto che non sia ancora stato trovato un vaccino per arginarne la diffusione come per la febbre emorragica del Congo, il virus Ebola, le febbri di Lassa, Marburg e della Rift Valley in Africa, la febbre di Nipah in India, e le sindromi respiratorie severe e acute (SARS) e del Medio Oriente (MERS). Per cui la potenzialità di rischio del virus SARS-CoV-2 non è – nonostante tutti i numeri a disposizione – calcolabile, considerando anche la possibilità di una sua ulteriore evoluzione; le conseguenze in termini di impatto sulla salute dei cittadini sono fortemente dipendenti dalla possibilità di accesso e dalla qualità dei servizi sanitari. È perciò opportuno adottare ogni possibile e ragionevole misura di precauzione, ma non è detto che i maggiori sforzi debbano indirizzarsi solo a misure, controlli e restrizioni per ostacolare contenere la sua diffusione.
La storia della salute insegna che molto più delle cure e delle terapie successive alla diagnosi hanno recato beneficio all’umanità le azioni preventive direttamente incidenti sulle “cause delle cause” delle malattie. Una buona nutrizione, l’accesso ad acqua potabile e un ambiente pulito prima di tutto, poi le vaccinazioni, gli antibiotici e la profilassi alimentare con l’igiene negli ambienti di vita e di lavoro hanno permesso agli italiani nei decenni successivi al secondo dopoguerra non solo di raddoppiare la loro attesa di vita, da 40 a 80 anni, ma addirittura di aumentare mediamente di altezza di quasi 10 cm (Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi, Il Mulino 2011). Ancora oggi il sostentamento alle partorienti e all’infanzia, l’educazione alimentare e sanitaria e la difesa dell’ambiente sono estremamente più efficaci in termini di prolungamento dell’attesa di vita rispetto a qualunque nuovo portentoso ritrovato chirurgico o farmacologico che può invece certamente incidere sulla speranza di vita dei singoli che possono permetterseli.
All’inizio dell’epidemia, una rappresentante dell’Organizzazione mondiale della sanità ha ricordato che di fronte a questa epidemia “siamo forti quanto è forte l’anello più debole della nostra catena”. Parafrasava forse Zygmunt Bauman che in Individualmente insieme (Diabasis, 2008) paragonando la società a un ponte spiega che, come la tenuta del ponte è determinata non dai pilastri più forti o dalla loro somma ma dalla capacità del pilastro più debole e può crescere solo insieme alla portata di quest’ultimo, così la fiducia e la ricchezza di risorse di una società si misurano dalla fiducia in sé e dalla disponibilità di risorse a disposizione dei suoi segmenti più deboli e cresce con il crescere di tali fattori. Paesi dal sistema sanitario zoppicante potrebbero essere travolti da un’ondata di ammalati che si è rivelata difficile da gestire perfino per un paese organizzato come la Cina ed è preoccupante capire come reagirà il sistema sanitario statunitense notoriamente classista e non universalistico se l’epidemia dovesse allargarsi anche in America.
Molti “padroni a casa nostra” sono ora preoccupati perché le quarantene imposte dai paesi confinanti potrebbero fermare i braccianti stagionali provenienti dall’Europa dell’Est – soprattutto da Macedonia e Romania – per la prossima stagione di raccolta nelle regioni del Nord Italia. Bauman li ammonirebbe ricordando che questa situazione è anche colpa di un abbaglio dovuto alla lettura dei numeri del mondo solo in chiave economica e contabile e che “Il perseguimento di una società più coesa dal punto di vista sociale è la precondizione necessaria per la modernizzazione” (Z. Bauman, Op. cit., p. 17). Quegli stessi politici che fino a pochi mesi fa perseguivano la criminalizzazione delle Ong, oggi ne cercano le competenze: “abbiamo bisogno delle migliori energie, qualsiasi contributo, da specializzandi a medici in pensione alle Ong, non solo è benvenuto ma assolutamente necessario” – ha affermato l’assessore al welfaredella Lombardia, rispondendo all’offerta d’aiuto giunta da Medici senza frontiere ed Emergency dopo l’ammissione di crisi ed emergenza della struttura sanitaria regionale.
Ci si potrebbe consolare osservando che le quarantene imposte a commerci e spostamenti su scala globale hanno ridotto le emissioni di CO2 in Cina di almeno il 25 % nelle ultime settimane, mentre nelle metropoli del Nord Italia i livelli delle polveri sottili sono ai minimi storici. Era accaduto un evento simile contro-intuitivo anche con il morbo della mucca pazza: l’insorgenza del prione che trasmise all’uomo l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE) portò negli anni’90 dello scorso secolo a una riduzione dei consumi di carne, già allora eccessivi, che si sarebbe rivelata statisticamente più benefica – in cinici e riduttivi termini numerici di bilancio fra mortalità – rispetto alle poche centinaia di casi riscontrati in Europa, soprattutto in Gran Bretagna. Si tratta però di magre consolazioni che non lasciano quasi traccia quando poi si supera il punto critico e si torna alla normalità.
Si consideri invece che la costituzione del Servizio Sanitario Nazionale universalistico nel 1978 in Italia rappresentò un tentativo di rinnovamento della scienza e della medicina in alleanza con il sistema democratico e con il mondo della ricerca e della formazione e si leggano anche solo le prima due pagine di quella legge grondante di parole bellissime: formazione, coscienza, educazione, cittadini e comunità, prevenzione, promozione, salvaguardia, salubrità, igiene, ambiente, superamento degli squilibri territoriali, sicurezza del lavoro, partecipazione, tutela, integrazione, eliminazione di ogni discriminazione e segregazione, recupero e reinserimento, identificazione ed eliminazione degli inquinamenti (Legge 23 dicembre 1978, n. 833, Istituzione del SSN).
Oggi il mondo della conoscenza è dominato in forma totalitaria dalla dimensione tecnologica mentre la politica delega al mercato la soluzione dei problemi economici a scapito della difesa di ambiente e salute. Non si parla più di prevenzione primaria facendo ricadere sui comportamenti individuali o collettivi – perciò da controllare, reprimere, impedire – la responsabilità della malattia. Partecipazione e libero scambio delle conoscenze restano però i caratteri fondanti della solidarietà fra lavoratori e fra popoli, indispensabili a promuovere il soddisfacimento dei bisogni fondamentali selezionando i processi e i beni in grado di soddisfarli, entro i limiti della natura (sostenibilità), contro lo sfruttamento (eguaglianza e diritti) e l’inquinamento globale (ambiente e clima). Si tratta di un impegno culturale e politico di ampio respiro che ribadisce la connotazione solidaristica della medicina come ricerca e assistenza che necessita tanto di rigore scientifico quanto di rigore etico. Come infatti spiegava Archibald Cochrane nella prefazione del suo libro del 1972, L’ inflazione medica. Efficacia ed efficienza della medicina (fatto conoscere in Italia da Giulio Maccacaro nella collana Medicina e Potere di Feltrinelli) le diseguaglianze sociali sono fonti di errore difficili da evidenziare nelle valutazioni statistiche in campo sanitario. Qualunque sperimentazione clinica, qualsiasi indice di efficacia per valutare un trattamento curativo, perde di rigore arrivando a fornire risultati falsi, se non è accompagnato da un indice di equità socioeconomica. Vale anche e soprattutto per la lettura di numeri e dati ai tempi del Coronavirus, la cui “causa delle cause” andrebbe ricercata nei villaggi più poveri e indifesi della Cina interna e lì sanata utilizzando mezzi molto più semplici, democratici e dai costi molto più economici di quelli che ci tocca adesso adottare per bloccare i virus – sempre provenienti da altri luoghi e altre genti, ma solo nel nostro immaginario – ad ogni costo, rinunciando anche a libertà che scioccamente credevamo irrinunciabili e gratuite.