Non c’è gara!
La palestra popolare Gino Milli (PPGM) si trova in una zona popolare del quartiere San Donato di Bologna. Lo spazio è animato da persone che provengono in buona parte dai percorsi delle associazioni (Il Grinta, Leib) e dei gruppi sportivi (Pallavolo Gino Milli) che hanno ridato vita alla palestra dopo un lungo periodo di chiusura, sviluppando una militanza politica attraverso l’attività sportiva. Alcune lavorano a scuola, come insegnanti di educazione fisica e di altre discipline, altre lavorano in ambito educativo e pedagogico. Nel 2016 la riapertura della palestra del circolo Arci Guernelli di Bologna ha permesso a queste realtà e persone, che già operavano in città, di entrare in un percorso politico comune. Tutti questi gruppi avevano una “sostanza”, agire e decidere secondo una forma assembleare, sul modello dei collettivi, e una “forma” associativa che gli consentiva di attraversare gli spazi istituzionali, avere le coperture legali ed assicurative per fare attività sportiva dentro una palestra o per iscriversi ad un campionato, anche amatoriale. Attualmente la forma della palestra popolare è quella di una polisportiva e i vari collettivi ragionano all’interno di un’unica assemblea, sia per la gestione della palestra, sia per quanto riguarda le attività che portano avanti. Questa doppia natura di associazione e collettivo produce sempre una specie di tensione rispetto alla divisione dei compiti di gestione e dei poteri di decisione, che non viene mai sciolta del tutto. Non è per niente facile tenere assieme contenitore e contenuto, trovare un allineamento sui discorsi e le pratiche da portare avanti in palestra, sulle relazioni con il quartiere, sui rapporti con le istituzioni sportive, come la Uisp o il CSI (Centro Sportivo Italiano).
Da un po’ ci chiediamo cosa significhi popolare rispetto allo sport. Da una decina d’anni, a partire dal collettivo Leib, stiamo costruendo una co-ricerca sulle realtà di sport popolare in Italia. Lo sport di base nasce in Inghilterra durante la seconda rivoluzione industriale replicando i valori dominanti del proprio tempo: erano le élite che facevano sport. Il suo carattere esclusivo si esprime appieno nella struttura delle sue regole, che determinano una continua preclusione della partecipazione, per cui se non si è ritenuti forti o competenti rispetto a una pratica sportiva se ne viene progressivamente esclusi. Nel passaggio alla modernità si è tracciato un solco tra quelli che sono i giochi, che sono rimasti confinati alla dimensione dell’infanzia o in altri ambiti molto specifici, e quello che invece è un “gioco serio”, ovvero lo sport, un’attività che si presta solo alla relazione di competizione.
Il termine popolare riferito allo sport ha una storia. In Italia nasce con l’Unione Italiana Sport Popolare, la Uisp, una costola del Partito Comunista che tesserava e associava gli operai per permettergli di fare attività sportiva. Con la caduta del muro di Berlino e con lo scioglimento del PCI, si decide di abbandonare la definizione di sport popolare, probabilmente giudicata come troppo connotata, e Uisp inizia a significare Unione Italiana Sport per Tutti.
Con il movimento di Genova iniziano a nascere le palestre popolari in diverse città italiane, da Roma, a Torino, a Cosenza, che riempiono il vuoto lasciato dalla cultura di sinistra sul tema dello sport popolare. Grazie all’apertura delle palestre alcune realtà di movimento riescono ad entrare in relazione – facendoli entrare nei loro spazi – non solo con i giovani militanti, ma in generale con chi non potrebbe fare sport per ragioni economiche.
Oggi le palestre e le polisportive che si definiscono popolari hanno grande rilievo da un punto di vista numerico ma anche politico. Il movimento contro le Olimpiadi di Milano-Cortina viene portato avanti soprattutto dalle palestre popolari di Milano e spesso nelle manifestazioni politiche ci sono interi spezzoni animati da questo tipo di realtà.
Il nostro obiettivo è provare a scardinare i meccanismi di esclusione dello sport. Un primo aspetto riguarda l’accessibilità economica. La palestra è inserita in un comprensorio di case popolari: famiglie che hanno problemi di soldi, famiglie straniere che hanno problemi di documenti o che hanno situazioni interne gravi, seguite dai servizi sociali, mandano i figli ai corsi della PPGM o al doposcuola del Guernelli. Tutta la fascia di minori della palestra appartiene a quel contesto lì, che viene escluso, che viene emarginato. Noi, ad esempio, ragioniamo sulle relazione tra lo sport popolare e il transfemminismo o l’antirazzismo e, nello stesso tempo, stiamo con questi bimbi di sette anni che si urlano “figlio di troia” e “marocchino di merda”, in una relazione con le famiglie che è difficilissima, in cui si ha bisogno di tanti anni per costruire una relazione di fiducia. Quindi un aspetto decisivo è il fatto di essere accessibili, provando contemporaneamente a portare pratiche e riflessioni a delle persone che non appartengono al tuo giro e che non hanno la tua idea, con cui non fai assemblea. Pensando ai minori che vengono dai palazzi popolari, si è sperimentato un meccanismo di redistribuzione complessivo dei costi: gli altri corsi si prendono cura del corso che economicamente non ce la fa in modo da poterlo comunque garantire.
Dall’altra parte, abbiamo un altro tipo di accessibilità, che riguarda chi qui trova un posto sicuro per stare, per esprimersi, ad esempio persone trans, non binarie, o che in altri contesti hanno vissuto lo sport agonistico come una sofferenza, qui si trovano e riescono a rifiorire un po’ insieme: con noi portano avanti anche un discorso politico, condividono una coscienza, tendono però a provenire tutte da uno stesso ceto, non per forza agiato ma comunque di non difficoltà economica. Il percorso che abbiamo fatto insieme sul sessismo è stato molto forte. La questione degli spogliatoi binari sta creando una grande discussione al nostro interno. Non è una cosa che si può mettere in discussione in modo semplice, ma c’è l’idea di poter trasformare gli spazi a partire dalle persone che li attraversano, e questo rende quelle persone non dei meri fruitori, ma soggetti attivi di un percorso politico. Partecipare ad un percorso politico in fondo significa questo, potersi attivare dentro un processo che ti definisce. Il binarismo è una questione che se ben posta aiuta tutti i corpi, perché mette in discussione quello che percepiamo come naturalizzato producendo consapevolezza in tutti.
Ad esempio, vediamo che i minori che frequentano i corsi, finché sono piccoli, fanno sport e giocano senza molte differenze fra bambine e bambini. Crescendo, le ragazze vengono perché hanno bisogno di uno spazio loro, ma iniziano ad avere la percezione che lo sport sia una cosa da maschi. Già verso i dodici anni è più difficile coinvolgerle. Alcune delle più grandi hanno provato ad inserirsi nei corsi per adulti, però lì emerge proprio la dinamica di dire “sono una femmina, non faccio niente, sto ferma”. Abbiamo anche un corso solo per donne adulte, frequentato solo da 5-6 donne, a metà tra lo yoga e il fitness, pensato per tutte quelle persone che non andrebbero al corso transfemminista o al corso misto, ma hanno bisogno di uno spazio per il loro corpo.
Abbiamo al nostro interno una grande discussione sull’antiabilismo; infatti ci siamo accorte che il nostro spazio è per molti versi inaccessibile, e dobbiamo capire come trasformarlo. Inoltre, se il popolare diventa non competitivo e non agonistico, taglia fuori chi ha la necessità e il desiderio di un riconoscimento, come quello presente in molte palestre popolari attraverso la boxe, dove giovani razzializzati o senza documenti cercano il loro riscatto attraverso il successo sportivo nei combattimenti.
Pensiamo che le nostre pratiche debbano essere antisessiste, antifasciste, antirazziste, e tentiamo di declinare questa posizione nella realtà, ma facciamo grande fatica a intrecciare le dimensioni politiche, di genere e di classe. Abbiamo la capacità di accogliere molti tipi e fasce di popolazione, ma questo non vuol dire che le differenze poi si mischino realmente. La cosa però interessante è vedere come incontrandosi ci si riesca a trasformare in maniera reciproca, a partire dallo spazio che si attraversa.
Uno degli strumenti che danno forza a questo processo sono le autoformazioni. Come collettivo di palestra scegliamo a inizio anno delle tematiche che riteniamo fondamentali per il nostro percorso. Successivamente, durante l’anno, si forma un gruppo che pensa a delle giornate specifiche per lavorare su questi temi, cercando pratiche che consentano ai gruppi sportivi di declinare nelle loro attività il contenuto politico, ad esempio rispetto a come parlare di transfemminismo, di educazione o di corpi negli spazi sportivi. Questo serve anche ad andare oltre il singolo gruppo sportivo che richiede l’uso della palestra, per potersi definire non solo come semplici abitatrici di uno spazio ma per provare a costruirlo insieme. L’anno scorso abbiamo realizzato un vademecum sull’impostazione della palestra, uno strumento che si è rivelato molto importante per gestire l’attività, rispetto a come renderla più orizzontale possibile. L’idea è quella di creare una cassetta degli attrezzi. Nell’attività sportiva è molto facile replicare senza rendersene conto tutte le dinamiche di potere che esistono nello sport mainstream. Le riflessioni collettive sono determinanti per provare a evitare questo rischio.
Lo sport funziona progressivamente, anche crescendo con l’età, come un sistema di esclusione sulla base della competenza. C’è una selezione continua per cui i competenti sono sempre meno: a 13 anni tutti i maschi fanno la scuola calcio, verso i 16-17 molti meno, dai 19 solo pochi riescono a farlo in modo professionistico, tutti gli altri vanno a fare il calcetto il mercoledì sera. Questo vuol dire inoltre che gli sport funzionano attraverso sistemi di regole che favoriscono e inducono una selettività continua.
Uno sport ha delle regole per cui riesci a praticarlo tanto quanto sei competente in alcune specializzazioni del corpo. Più il gioco si specializza, più i corpi diventano molto simili fra loro. L’attività del corpo aiuta a percepire il suo limite, a farne esperienza. Però spesso lo sport, nel farti capire il tuo limite, è decisamente umiliante. Lo sport è il numero. Se faccio i 100 metri in 15 secondi, non sono più veloce di chi li fa in 12. Non c’è uno spazio di crescita, non c’è uno spazio neanche per riconsiderare che cos’è il limite, perché è fissato. Tu sei scarso e io sono bravo. Noi pensiamo che questa cosa possa essere ricontrattata.
Su questo tema, a Bologna, ci sono state una serie di sperimentazioni che si sono intersecate fra loro e con altri percorsi: il Torneo Dimondi, i Giochi Antirazzisti, gli ex Mondiali Antirazzisti.
Nel Torneo Dimondi è stata introdotta la figura del vagante nel calcio, una persona che per le sue caratteristiche non può essere attaccata dagli altri fin quando ha la palla fra i piedi. Soltanto il portiere può parare il suo tiro. Questo consente di includere delle persone che, ad esempio per una forte disabilità psichica, sarebbero escluse ma che provano un grande piacere a giocare a calcio. Oppure la possibilità di fare giocare più persone in una squadra che è più “scarsa” rispetto a una squadra più forte, ad esempio 7 contro 5, rendendo più piacevole e stimolante l’attività per tutti.
È necessario provare a rendere visibili le relazioni di potere, come quelle che possono intercorrere tra istruttore/istruttrice e allieve/i, dove si instaura una relazione asimmetrica. Nella pallavolo si è deciso di non avere un allenatore. Ovviamente ci sono delle persone che nella loro vita hanno giocato di più a pallavolo o che vengono da percorsi sportivi, che quindi hanno delle competenze tecniche più elevate. Però, di fatto, quello che succede è che si negozia di volta in volta sia il contenuto dell’allenamento sia la direzione che vuole prendere la squadra, mettendo in secondo piano l’interesse di vincere le partite rispetto al fatto di potersi sentire a proprio agio, di poter esprimere la propria personalità. Nei campionati non professionistici, anche nei campionati Uisp, c’è forte competitività, si percepisce una diffusa cultura machista, e dunque si sta ragionando sulla possibilità di fare un campionato con delle squadre che si riconoscono nei nostri valori.
Per questo, negli ultimi due anni abbiamo molto ragionato anche sul “coaching riflessivo”, che è una modalità di aiutare la crescita sportiva della persona senza essere prescrittivi e senza giudizio. Si cerca di mettere a proprio agio l’altro nelle modalità di attuazione dell’attività, tramite consigli e non attraverso ordini. Può sembrare una cosa da poco, ma guardando alle modalità di insegnamento dentro le realtà sportive ci si rende conto di quanto siano autoritarie.
L’avviamento allo sport arriva nell’età della crescita. In questa fase della vita, il primo luogo di produzione di saperi e pratiche attorno al corpo sono le scuole, con la loro pratica e il loro immaginario di possibilità e impossibilità di utilizzo e movimento del corpo. Poi c’è il mondo delle associazioni private che si occupano dell’avviamento alla pratica sportiva di bambini e adolescenti, ma che sono spesso le stesse che si occupano da esterne dei progetti sportivi a scuola. In questo quadro si produce una iperdifferenziazione molto precoce delle attività sportive, soprattutto in ambito extrascolastico: i bambini fanno tutti basket, calcio, rugby e karate, le bambine fanno ginnastica e danza. Fin da piccole/i, il modo di muoversi nello spazio è completamente diverso, come anche i modelli di sopraffazione dell’altro/a all’interno dei giochi. Il risultato finale di tutti questi processi è la produzione di corpi tutti uguali, e quando ciò avviene stai facendo quello che chiamiamo sport mainstream. Stai riproducendo corpi che si assomigliano l’uno all’altro perché stai modellando il corpo per il fine della vittoria.
La sfida della PPGM è invece tenere insieme tutti i tipi di corpi e allo stesso tempo dare a tutti la possibilità di trovare la loro maniera di stare insieme, di fare sport, di acquisire delle abilità. Quindi provare ad avere un interesse comune – che può essere giocare a pallavolo, fare boxe, giocare a basket. Ma farlo anche bene, nel senso che sia piacevole, che sia l’esperienza di una elaborazione non umiliante del proprio limite.
All’interno della cornice sportiva si ricerca sempre la competizione con l’altro e questo porta a spingere avanti i propri limiti. Nello sport questo diventa l’unico modo sociale che abbiamo di conoscere l’altro e di conoscere noi stessi, mentre noi vogliamo fare esperienza di tanti altri modi di sperimentare i limiti, al di fuori della competizione e del dispositivo sportivo per eccellenza che è la classifica. La grande sfida attuale dello sport popolare è minare il cuore della competizione, con tutti i suoi meccanismi.