Noi mammiferi. Un romanzo darwiniano
“In principio erano gli animali, e i cacciatori vivevano della loro morte”. È un romanzo sorprendente sin dall’incipit, Quando eravamo prede,dello scrittore quarantenne Carlo D’Amicis(pubblicato da minimum fax). Siamo negli anni del Cerchio, un tempo e un luogo indefinito, preistorico e arcaico, al centro del quale, nel Bosco, vivono i cacciatori, uomini che sopravvivono proprio grazie allo sfruttamento, all’uccisione della fauna che li circonda. Il Bosco è un luogo pericoloso, tantoché, proprio per la sopravvivenza del branco, le donne sono state relegate sugli alti pascoli, visitate ogni tanto da Toro, l’ultimo uomo rimasto capace di riprodursi, tra i cacciatori. Solo una donna si è ribellata alla regola, la Cagna, tentando con il vecchio e alcolizzato Alce di allevare Agnello, uno dei pochi giovani, nuovi nati e futuri cacciatori. Il mondo dei cacciatori vive nell’ignoranza: non si sa perché siano diventati sterili, non si sa che cosa ci sia dietro la Linea di confine e soprattutto che reale minaccia venga dalle Scimmie e dai Gorilla, le prime delle donne evolute, i secondi una sorta di polizia violenta e organizzata che vive nel mondo esterno.
Siamo apparentemente negli anni del Cerchio, un tempo e un luogo indefinito, insieme preistorico e ultra-moderno, quasi all’origine e alla fine della Storia allo stesso tempo: i cacciatori possiedono, infatti, dei fucili semi-automatici browning e barattoli e bottiglie di birra che distillano da soli negli scantinati, mentre il fiume recapita dall’esterno oggetti sconosciuti e rottami che soltanto il vecchio Formica, l’unico che possiede la tecnica,sa riciclare in munizioni per i fucili.
Due eventi, quasi in contemporanea, minacciano il mondo del Bosco: l’arrivo di una Scimmia, una donna che si è spinta oltre la Linea, che innesca sia la scoperta della “parola del Signore”, portando con sé una Bibbia, sia l’amore e il desiderio fino all’ora sconosciuto in Toro; l’inspiegabile scomparsa, nello spazio di una notte, di tutti gli animali necessari per la sopravvivenza, e la successiva comparsa di inquietanti topi mutanti, parassiti dell’ecosistema. I cacciatori devono allora compiere delle scelte: o incendiare una guerra per la sopravvivenza di tutti contro tutti, cibandosi dell’orrendo cibo corrotto che è rimasto, o tentare la fuga da quell’unico mondo conosciuto portando in salvo i giovani e quelli che verranno. Il bivio delle scelte finali è tra gli ominidi e gli uomini, uomini-bestie o uomini-uomini, cacciare o essere, definitivamente, cacciati.
D’Amicis ha saputo costruire un romanzo sorprendente e convincente dove non mancano i colpi di scena ed è impossibile una interpretazione univoca. Senza il distacco dell’ironia o scorciatoie prevedibili. Quando eravamo prede si serve, innanzi tutto, di un immaginario in equilibrio e ibrido, nel quale si incrociano atmosfere da albori della civiltà, da origine del mondo, con scenari post-apocalittici, da dopo-fine-Storia. Una citazione in apertura, dal Signore delle mosche di Golding, e i continui richiami nei titoli dei capitoli all’Antico e al Nuovo testamento, suggeriscono una visione pessimista della convivenza sociale e una lettura ottimistica sulla dolorosa fame di sapere, la scoperta degli altri, del mondo esterno e dell’ignoto. Non è da trascurare il fatto che la storia sia sempre filtrata dal punto di vista di un ragazzo, Agnello – il vero narratore dal nome più messianico che di vittima sacrificale – che insieme ai suoi coetanei, non ancora uomini e cacciatori, i pochi bambini del branco, assiste all’evoluzione e alla trasformazione radicale del mondo, così come lo hanno sempre conosciuto. I bambini del romanzo incarnano i tipi e le reazioni degli adulti: il cinismo, la paura e la speranza, ma è interessante che uno dei “giovani” del branco, Zebra, in seguito alla violenza e alla tortura dei Gorilla elabori la risposta più radicale e enigmatica alla piega degli eventi, una totale perdita e immersione nel Bosco morente, una sorta di suicidio mistico. Questo angolo di visione dà una sfumatura di romanzo di formazione, anche includendo una riflessione sul senso e la responsabilità della paternità da parte di Toro, il padre biologico del branco.
Quando eravamo prede può anche essere annoverato come un esempio di fantastoria, un genere che negli ultimi anni ha avuto fortuna sia sul versante distopico, se si pensa a La strada di McCarthy, che su quello sociologico e filosofico dell’ultimo Coetzee con L’infanzia di Gesù. Opere come queste tentano di dare una risposta alle grandi domande del nostro tempo, alla perdita di certezze e ideologie, di intuizione di eterno impantanamento e senso della fine della specie, attraverso ipotesi di cambio di passo della storia, di un nuovo inizio e di palingenesi. D’Amicis ha scelto la strada di mezzo tra la fantastoria e la fantapreistoria, ideando un mondo che sintetizza caratteri del pre- e del post-moderno. Forse proprio per questa scelta vengono in mente opere che hanno affrontato i grandi quesiti dell’evoluzionismo: da Prima di Adamo di Jack London, quasi il contraltare scientifico sulla struggle for life al capolavoro politico che è Il Tallone di ferro, a Galapagos di Vonnegut dove si immagina un’apocalisse biologica, un azzeramento dell’ecosistema della terra dovuto alla stupidità umana, senza dimenticare quell’insolita vetta dell’umorismo inglese che è Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis, una sorta di saggio comico dell’assurdità e della casualità della selezione naturale e del progresso umano.
Anche in Quando eravamo prede si avverte il respiro di una riflessione sull’evoluzionismo, sulla caoticità dell’evoluzione e sulla possibilità che questa non porti a futuri prossimi migliori, ma anzi inquietanti e pessimisti. L’aspetto più interessante è che queste riflessioni evolutive sono affidate ai bambini del branco, che riflettono sul linguaggio, sulla loro natura e la loro mutazione. “Noi non siamo più animali. (…) Né siamo ancora esseri umani”, dice Farfalla, la bambina verso la quale Agnello scopre l’affetto e l’amore.
Le più avanzate, e affascinanti, teorie evoluzionistiche datano buona parte dei nostri istinti primari, come rabbia e paura, dall’origine dell’uomo sulla terra, più di 2 milioni di anni fa. Anche le funzioni di sopravvivenza innate, ipotizzano antropologi e sviluppisti, hanno probabilmente un’origine preistorica “geneticamente pre-determinata”. È facile immaginare che la suzione nei neonati abbia origine dal bisogno vitale dell’alimentazione. Più sorprendente che il riflesso dei neonati di stringere il dito dei genitori, già nelle prime ore di vita, possa derivare, per alcune ipotesi, dalla necessità dei cuccioli di Homo sapiens di aggrapparsi al pelo della madre, o degli arboricoli (gli ominidi che si rifugiavano sugli alberi lontano dalle bestie feroci) di afferrare i rami. L’apprendimento, inoltre, è una funzione che già possediamo alla nascita, necessaria per acquisire tutte le funzioni non genetiche, essendo quasi tutti i linguisti concordi sul fatto che il linguaggio preceda l’esperienza.
Jack London immaginava nel suo racconto ora incluso in Quando il mondo era giovane (Cargo 2010) che il sogno ricorrente e molto comune della caduta nel vuoto fosse il ricordo delle cadute dagli alberi dei nostri antenati arboricoli. In Quando eravamo prede non è un caso che la scelta reazionaria del giovane Zebra sia quello di farsi tutt’uno col Bosco, di regredire a albero.