Nell’Università di Genova studenti finalmente in rivolta

A Genova, prima in tutta Italia, un gruppo di studenti raccolti nel collettivo Comestudio ha occupato l’Università – il Dipartimento di Scienze per la Formazione – per tre settimane consecutive. Uno squarcio nel silenzio stagnante del mondo universitario nazionale, silenzio andato avanti per un anno da quando il Covid ha cominciato a stravolgere il nostro ordinario. “Mi sono spostato in una nuova città per iniziare un percorso di studi e mi sono ritrovato nella più completa impossibilità di tessere legami” spiega Lorenzo P., studente bolognese iscritto a Filosofia e membro del collettivo. Un isolamento che ha trovato eccezioni soltanto in alcuni spazi sociali, storici o nati sul momento. Comestudio Genova è nato proprio durante la pandemia con una prima rivendicazione concreta: abolire la terza rata universitaria alla luce dei mesi di chiusura. Ne è nato un percorso che ha presto allargato gli orizzonti al disagio di una generazione.
“Ci definiamo lavoratori studenti e lavoratrici studentesse, perché rifiutiamo la logica che rende esclusivi i due mondi, ma anche perché oggi per molti è impossibile studiare se non lavorando, e nella pandemia la prima cosa a crollare è stato il lavoro non tutelato”.
Così, dopo un anno di chiusura totale e di messa a sistema della didattica a distanza, il 19 aprile è scattata l’occupazione del Dipartimento di Scienze della Formazione, sopra il Ponte Monumentale che sovrasta la centralissima via XX Settembre. “È possibile – ci siamo chiesti – che a più di un anno dallo scoppio della pandemia, quando le vie dello shopping sono gremite da mesi, quando i negozi possono essere sovraffollati, quando i locali riaprono e tutto il carrozzone del consumo viene puntellato, che la cultura rimanga ancora bloccata?”
La scelta del polo Formazione è legata agli ampi spazi all’aperto che consentivano di svolgere molte attività in totale sicurezza, ma anche al senso di uno spazio che dovrebbe formare alla prossimità e si è ridotto per un intero anno alla didattica a distanza. “Non siamo qui per mettere in dubbio l’esistenza della pandemia, ma perché ne viviamo le conseguenze sulla pelle. Le richieste che abbiamo portato al Rettore sono il rientro in presenza immediato per esami e sessioni di laurea; spazi aggiuntivi a disposizione per lo studio e la vita universitaria; una presa d’atto pubblica della malagestione di questi mesi; l’abolizione della terza rata; e di farsi portavoce politico davanti alla Crui e agli altri organi competenti per l’abolizione dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, ndr), che con metodi illusoriamente meritocratici lavora per rendere sempre più ricchi gli atenei già prosperi, e più poveri quelli svantaggiati”.
Vogliamo poter entrare in relazione e organizzare il disagio, senza socialità non è possibile. Sembra che si possa fare a meno di cose che sono indispensabili
L’occupazione è stata occasione di proporre – finalmente in presenza, in gruppo – lezioni e dibattiti sui temi più attuali e le lotte radicali ancora vive nella città, nel Paese. Da incontri con la Calp – Compagnia autonoma lavoratori portuali, che boicotta l’attracco delle navi saudite che trasportano armi, al movimento NoTav della Val di Susa, esempio di una comunità che ha saputo resistere al sopruso territoriale; da rappresentanze dei movimenti palestinese, algerino, ucraino, al mondo dei camerieri, dei cuochi, dei medici, dei sindacati di base. Hanno avuto spazio e voce una squadra di calcio popolare e il mondo del carcere, il coordinamento Emergenza Spettacolo e le bande popolari. “La risposta della città è stata subito positiva: abbiamo registrato 300-400 persone al giorno. Qui sono confluite esigenze che prima non avevamo intercettato, i portatori di sofferenze causate da logiche di sistema oppressive che ricadono su mondi diversi, e che spesso non si conoscono, non si parlano”.
Fondamentale anche la presenza con lezioni aperte di alcuni professori militanti, che hanno facilitato una rilettura critica della pandemia, dei comportamenti collettivi, del flusso mediatico e dell’agire politico. “Significa che l’università può essere una presa di parola collettiva su problemi collettivi. Può essere un presidio pensante, di critica e autocritica nei confronti del reale, cosa che invece troppo spesso non avviene”. Ora che la zona gialla e le nuove misure consentono una riapertura anche dell’Università, il passaggio non è automatico. Per gli occupanti il rientro al 20% non è condizione accettabile, ma il prorogarsi di una logica emergenziale, con la chiusura dietro l’angolo se solo cambiassero nuovamente i dati del contagio. “Non vogliamo rinunciare a spazi che si possono gestire in sicurezza, se organizzati, e responsabilizzando le persone. Vogliamo poter entrare in relazione e organizzare il disagio, senza socialità non è possibile. Sembra che si possa fare a meno di cose che sono indispensabili. Abbiamo continuato a garantire il diritto di andarsi a comprare un paio di scarpe nuove, e non quello di poter fare socialità in un modo sicuro”.
La realtà genovese è stata in parte scossa dall’atto di una Università Liberata. Come sempre a macchia di leopardo, con ampie fette di mondo sociale sorde e inerti in flussi di vita paralleli; con settori del mondo politico e culturale diffidenti e giudicanti; ma anche con uno scuotimento ritrovato da parte di gruppi sensibili e pronti ad attivarsi. Il limite di linguaggi e simboli datati, nell’atto dell’occupare e dell’autogestire, rimangono e si ritrovano nei ventenni di turno. Ma d’altronde nel manifesto d’occupazione sono le ragazze e i ragazzi stessi a ripetere quel “già prima della pandemia”. Già prima soffrivamo di tutta una serie di dinamiche, soltanto svelate, nodi al pettine. “Quello contro cui combattiamo ha un nome preciso, si chiama neoliberismo, fin da Reagan e la Thatcher, e noi così lo vogliamo chiamare. Stiamo cercando di rielaborare in modo collettivo le ragioni storiche per cui ci troviamo a vivere delle vite che percepiamo come eccessivamente faticose, oppressive, prive di spazi di libertà. Per farlo occorre prendere consapevolezza del fatto che il mondo in cui viviamo è così perché si regge su una regola che è quella del profitto. Dobbiamo cercare di uscire da questa legge ferrea. Per farlo occorre anche riappropriarsi dell’università, come luogo di elaborazione del sapere critico, e non solamente come il cartellino che ti autorizza al mondo del lavoro. L’università dev’essere luogo di cambiamento, di rielaborazione, di autocritica collettiva sul reale, sul mondo che attraversiamo, in modo da cambiarlo in meglio. Certo presuppone scontrarsi con poteri molto forti, per questo ci serve raggiungere la complicità e la voglia di fare di tante e tanti altri”.
Quello striscione all’ingresso del Dipartimento, “Rivoluzione in presenza”, è la punta dell’iceberg di un mondo che ha qualcosa da dire, e ha colto la sfida di ritrovarsi per farlo di fronte alla società tutta. Anche a costo di entrare in conflitto con l’istituzione, dal Rettore al corpo docenti agli stessi studenti e studentesse che oggi protestano contro l’occupazione del plesso, convinti dalla retorica istituzionale che sia colpa degli occupanti se il rientro non è possibile. C’era bisogno di qualcuno che avesse il coraggio di mettere a nudo le contraddizioni di questo pezzo di realtà, quello in cui dovrebbe formarsi il futuro della società.