Negrin, la fiaba e il senso di illustrare

Ripubblichiamo un articolo uscito su Gli asini nel numero Maggio 39/2017
L’uscita de “le pulci nell’orecchio”, nuova collana ad opera del rodato sodalizio tra Fabian Negrin e Orecchio acerbo, ci offre la possibilità di riscoprire alcuni racconti di autori del passato – in questo caso Matilde Serao, William Saroyan e D.H. Lawrence – che hanno i bambini come protagonisti e dà l’avvio alla coraggiosa impresa di costruire una preziosa biblioteca di racconti d’infanzia. La cura editoriale e la bellezza delle immagini offrono l’occasione per riflettere sul valore e sulla rappresentatività dell’opera di Negrin in questi ultimi anni. È una posizione isolata, quella occupata dall’illustratore nel panorama odierno, esito di un percorso articolato, di una piena consapevolezza della propria poetica e della necessità di prendere posizione nel panorama sempre più affollato dei libri con figure presenti oggi sui nostri scaffali.
Negrin ha iniziato la sua carriera lavorando per i periodici e solo in un secondo momento si è affacciato al mercato editoriale per l’infanzia, diventando uno dei protagonisti del grande rinnovamento che l’albo illustrato ha conosciuto in Italia negli ultimi venti anni. L’eclettismo dello stile, lo sperimentalismo nelle forme, la reinterpretazione in chiave inedita e a volte militante di certe storie classiche (da In bocca al lupo a Occhopin) lo rendevano presenza imprevedibile, a suo modo irriverente, forte di un’identità artistica sempre esplicitamente dichiarata. Questa istanza autoriale appare lontana a vedere la produzione degli ultimi anni, come se Negrin avesse scelto di fare un passo indietro, di mettersi dietro le quinte piuttosto che in prima linea, di abbandonare le vesti dell’“artista” per recuperare quelle del “figurinaio”, riprendendo la dicitura che Antonio Faeti brevettò nel suo Guardare le figure, ancora oggi imperdibile storia dell’illustrazione italiana da fine Ottocento alla metà del secolo successivo.
La rivendicazione della figura dell’illustratore come individualità artistica, dell’albo illustrato come terreno di sperimentazione, dell’infanzia come pubblico a cui poter offrire un alfabeto di forme ben lontane da canoni stereotipati, è stata un fenomeno inequivocabile di questi ultimi venti anni e ha avuto un impatto importantissimo. Pure ha preparato il campo a possibili derive che lo stesso Negrin ha saputo descrivere con grande lucidità su un recente numero di“Hamelin”: “Forse c’è stata una spinta iniziale che ha contribuito a questa situazione, un ‘peccato originale’ diciamo. I primi picturebooks ‘nuovi’ in Italia, e parlo anche di me in prima persona, li abbiamo fatti (in un’epoca in cui la stessa parola picturebook era per iniziati) come se abitassimo a New York, Parigi o Londra. Da lì arrivavano i libri che ci piacevano, i libri che hanno risvegliato in noi la voglia di realizzare oggetti simili. Non avevamo, però, la loro lunghissima tradizione in questo campo, una tradizione maturata nel corso di più di un secolo e che a sua volta ha generato in quei paesi un vasto pubblico di lettori, di normalissime famiglie che comprano albi illustrati da leggere per/con/insieme ai bambini. All’interno di quelle tradizioni, così consolidate, c’è spazio anche per libri ‘pazzi’, eccentrici, adulteggianti, sostenuti però dalla enorme quantità di bei libri ‘normali’, ‘medi’, comunque di buonissima fattura. È come se noi avessimo iniziato dalla fine, dai libri stravaganti, d’avanguardia, che piacciono tanto agli adulti, senza avere radici solidamente piantate nel terreno. Con la testa fra le nuvole di Brooklyn, non si è pensato che i nostri libri si sarebbero poi dovuti vendere e leggere a Cascina Gobba e Canicattì.” Proprio questa ricerca di “radici solidamente piantate nel terreno” diventa il fondamento del più recente operare di Negrin e si sviluppa almeno in tre direzioni, distinguibili ma perfettamente coerenti nella volontà di “mettersi al servizio”: in primo luogo la scoperta e lo studio dei maestri del passato – a uno di essi, Ugo Fontana, ha dedicato anche una mostra e un catalogo insieme a Giorgia Grilli. Si impone un nuovo sistema di valori nel far figure: è il primato del saper fare, di una perizia artigiana che è insieme virtuosa e umile, radicata in quella tradizione che va dalle botteghe rinascimentali ai figurinai di cui sopra, e vive di pazienza, di cura certosina, di attenzione ai particolari, un atteggiamento ben diverso da quello del puro “gesto artistico”, che ha nel tocco, nell’individualità di un segno, nell’impronta dell’io, la sua firma.
La seconda direzione è la scoperta dell’infanzia come vero destinatario, e la consapevolezza del rischio di assumerla piuttosto come pretesto per poter dare vita editoriale alle proprie sperimentazioni visive. Gli albi illustrati dell’autore negli ultimi anni sembrano abbandonare il gusto per il gioco bizzarro, per la trovata grafica o linguistica, per invenzioni allusive, ora in chiave di parodia e ora di satira, rispetto a storie già esistenti. A partire da Chiamatemi Sandokan (Salani 2011), che potrebbe essere letto come chiave di volta nel suo confronto diretto con il testo e la tradizione salgariana, Negrin ha cominciato a cercare una maggiore solidità di racconto, una diversa sintesi e linearità che sembra più rispettosa verso le esigenze dei lettori bambini e più consapevole di cosa valga davvero la pena raccontare. L’avventura, il gioco, il mito sono gli ingredienti di albi come Bestie (Gallucci 2012), Come? Cosa? (Orecchio acerbo 2016), nello sforzo di coniugare semplicità e universalità, caratteristiche anche degli interrogativi dell’infanzia, se la si sa ascoltare.
Infine, l’ultima direzione è l’esplorazione della fiaba, non più considerata semplicemente come immaginario di riferimento da stravolgere (In bocca al lupo, Favole al telefonino), ma come vero e proprio testo da illustrare e, di conseguenza, tradizione narrativa e iconografica con cui fare i conti. A partire dal 2012 e grazie al sodalizio con Donzelli, Negrin ha cominciato a dare visione alle raccolte di Andersen, dei fratelli Grimm, di Pitré e Letterio di Francia, creando un insieme di immagini che sono un tutt’uno (e alle quali si possono accostare per approccio anche le ultime de “Le pulci all’orecchio” la nuova collana di Orecchio acerbo) e che rappresentano un corpus autonomo nella sua opera. Qui siamo lontani dal distacco ironico e dall’allusività, l’autore non è più “sentimentale” ma ritorna “ingenuo”, se si usa la distinzione romantica della poesia. Negrin si tuffa e si immerge nel grande flusso della narrazione occidentale, oscillante tra oralità e scrittura, tra le aie contadine e le corti, tra il sacro popolare e riapparizioni pagane. A vederle insieme, queste immagini, si prova un grande senso di meraviglia che non muove semplicemente dalla bellezza estetica delle illustrazioni ma tocca la dimensione dello stupore che si prova di fronte al mistero e a un momento di rivelazione. Si raggiunge in altre parole quell’esito, delicato e altissimo, che è mancato purtroppo al film di Garrone tratto dalla raccolta del Basile, Il racconto dei racconti. Quello che là si limitava ad essere eleganza scenografica, décor, qui diventa sostanza di miracolo, irruzione dell’altrove; ciò che nella pellicola era puro racconto si trasforma qui in sospensione di senso; la chiarezza, per quanto in trama fantastica, lascia il posto all’ambiguità. Che si ritragga un momento cruciale o una situazione di stasi, il farsi di una metamorfosi o un gesto che solo prelude al compiersi di un destino, queste immagini hanno sempre un sentore epifanico, colgono tutta la violenza dell’apparizione. Questa frattura è il punto convergente verso cui si volge il campionario dell’umano di cui si è spettatori: la povertà e la fame, la luccicanza dell’oggetto prezioso, il rapporto con il paesaggio e gli animali, un eros diffuso, la deformità ora grottesca ora orrorifica. Negrin ha capito quanto a Garrone è sfuggito: per narrare la fiaba bisogna farsi da parte, deporre ogni gesto individuale e lasciare che sia lei a lavorare; è necessario fermarsi, fare silenzio e mettersi in attesa. Bisogna in altre parole diventare come i personaggi, che non riescono nelle loro esistenze per la forza volitiva, o per una particolare qualità morale, ma – ci spiega Jarmila Očkayová nella prefazione a Il re del tempo e altre fiabe slovacche di Pavol Dobšinský – perché sono estremamente attenti alle cose, e le cose vanno loro incontro.