Mission: Hebron e i Territori
Il cinema israeliano ha offerto nel corso degli anni rappresentazioni illuminanti tanto delle complessità della società israeliana quanto delle problematiche dell’occupazione. Presentato al Pordenone Docs Festival lo scorso novembre, il cortometraggio Mission: Hebron di Rona Segal si aggiunge, con la sua scarna e potente eloquenza, a quanto di meglio sia stato prodotto in campo cinematografico negli ultimi decenni. Mentre scrivo, un’altra opera, il documentario Tantura di Alon Schwarz, è nel programma del Sundance Film Festival. Rievoca un massacro, avvenuto nel maggio del 1948 nel villaggio da cui prende il titolo il film, per tanto tempo occultato e infine pubblicamente negato quando, nel 2000, un solitario ricercatore ne svelò in una tesi di laurea l’accaduto. Un documentario di cui si tornerà a parlare quando sarà possibile vederlo in una sala o su una piattaforma. Intanto, è possibile vedere il cortometraggio di Segal, poiché è disponibile gratuitamente nella sezione Op-Docs del “New York Times”.
Si tratta di 22 minuti di interviste a 6 ex soldati che hanno in comune con la regista il servizio militare svolto nei Territori occupati e in particolare a Hebron, la più popolosa città della West Bank. Seduti su uno sgabello, in una scenografia spoglia, forse sotto una tenda, i soldati parlano dei compiti svolti durante il servizio di leva. Irruzioni notturne, posti di blocco, perquisizioni dei passanti per strada, controllo del territorio, per assicurare l’obiettivo cardinale, vale a dire proteggere i coloni ebrei. Per fare questo, li si incarica anche di un’operazione definita “sterilizzazione” (è proprio questo il termine usato) che consiste nell’impedire che di volta in volta e in determinate aree, circolino cittadini arabi. Colpisce l’uso di un sostantivo impiegato in genere per descrivere l’eliminazione di germi patogeni… Un termine che non può non colpire chi ha un po’ di familiarità con la storia di Israele e del popolo palestinese. Il lessico ricorda, infatti, quello usato nel 1948 nell’opera di pulizia etnica, come la descrivono i nuovi storici e in particolare Ilan Pappè, nel suo fondamentale The Ethnic Cleansing of Palestine, in cui i termini usati erano “ripulire”, “purificazione”, “eliminazione del lievito”.
Dal racconto degli intervistati, emergono chiaramente l’arbitrarietà e la brutalità dei comportamenti dei militari nei confronti dei civili palestinesi lungo tutto l’arco della giornata e, in particolare, a notte fonda quando avvengono le incursioni nelle abitazioni dei residenti. Famiglie risvegliate dalla percussione dei calci dei fucili sulle porte e radunate bruscamente in una stanza mentre i soldati buttano all’aria ogni cosa. Possiamo solo immaginare il terrore provocato, soprattutto nei bambini, e le conseguenze traumatiche a lungo termine. Questi giovani ritornati alla vita civile ammettono l’assoluta futilità, in termini operativi, tanto delle incursioni che dei posti di blocco, che finiscono nel 99% dei casi per non produrre prove che marchino gli abitanti come terroristi. Ma è chiaro a questi ex soldati che le loro azioni e la loro presenza, come il ventaglio di tutti gli altri atti di controllo, sono volte a ricordare ai palestinesi il potere soverchiante e onnipresente degli occupanti. Che è spesso letale: nel 2021, secondo B’tselem, nella West Bank sono stati uccisi 83 Palestinesi (17 minori e 5 donne), di cui 77 per mano dei soldati israeliani. 895 palestinesi sono rimasti senza casa, di cui oltre la metà minori, dopo la demolizione da parte di Israele di 295 strutture abitative. Scopo della presenza dei militari a Hebron e nei Territori è non soltanto quello dichiarato di proteggere gli occupanti ebrei, ma anche, come dicono gli intervistati, “instillare un continuo senso di persecuzione nella popolazione araba”, “fargli chinare il capo”. In piccolo, Hebron presenta le caratteristiche proprie dei Territori occupati e in particolare la frammentazione che rende impraticabile per i palestinesi non soltanto abbozzare una qualsiasi forma di opposizione politica democraticamente organizzata, ma soprattutto condurre una vita dignitosa.
Raccontate in maniera pacata, come se quei giovani stessero rievocando ricordi di un periodo lontano, le esperienze fatte soltanto uno o due anni prima hanno tuttavia lasciato in essi un disagio evidente (“ricordare Hebron mi rovina la giornata”, dice uno degli intervistati), una sorta d’inquietudine, da cui traspare incancellabile il ricordo di un’umanità violata. Tra di loro, due olim, due giovani ebrei immigrati rispettivamente dagli Usa e dal Brasile, grazie alla “legge del ritorno”. Uno dei due ha un’incerta padronanza dell’ebraico e finisce per rispondere alle domande in inglese. Nati altrove, si sono trovati a esercitare il monopolio della violenza in terre occupate, con diritti infinitamente maggiori di quelli dei nativi, schierati a proteggere una minoranza di coloni. Sembrano ancora perplessi e confusi per la stranezza dell’esperienza. “Mia madre mi prenderebbe a schiaffi”, dice l’immigrato dal Brasile, “se solo sapesse quello che ho fatto nei Territori”.
Hebron è definita nei titoli iniziali del cortometraggio un “annoso focolaio di violenza”. In effetti rappresenta un nodo simbolico arroventato. Al- Khalil per gli arabi, luogo sacro per le religioni abramitiche perché ospita le tombe di Patriarchi e Matriarche, include anche il sito della Kyriat-Arba dove Davide regnò per sette anni dopo esservi stato unto Re di Israele e di Giudea. Città tragicamente segnata nell’agosto del 1929 da un eccidio in cui gli arabi massacrarono 67 ebrei e ne ferirono 60. Allora, come nel maggio scorso e come il 28 settembre 2000 con la “passeggiata” di Sharon sulla spianata della moschee, la miccia fu accesa dalla paventata minaccia ai luoghi sacri dell’Islam. Nel 1968, tale memoria fu rievocata dall’insediamento di una comunità di coloni ebrei nel cuore della città e dalla fondazione a poco distanza dell’insediamento chiamato Kyriat Arba. Memoria, infine, tragicamente riaccesa dalla strage, compiuta da Baruch Goldstein nella moschea Ibrahim nella stessa Tomba dei Patriarchi, il 25 febbraio del 1994, che provocò 29 morti e 125 feriti tra i fedeli. Il conto dei morti non si è mai fermato, da allora, intensificandosi semmai nel corso della seconda Intifada.
Anche per molti altri soldati, prima di questi, Hebron è stata un’esperienza scioccante e illuminante al contempo. Il libro Lords of the Land, di Idith Zertal e Akiva Eldar, testo fondamentale per ricostruire le politiche dell’occupazione, riporta la testimonianza di Yehuda Shaul, uno dei fondatori dell’organizzazione contro l’occupazione, Breaking the Silence. Uno degli eventi che lo riscosse dal suo stato di inerzia morale, gli capitò nel centro della città. Una vecchia palestinese, carica di buste della spesa, che avanza a fatica. Alcune bambine, figlie degli occupanti ebrei, come in un automatismo surreale, raccolgono delle pietre e cominciano a lanciargliele contro. Alla domanda perché lo stiano facendo, rispondono: “Come puoi sapere quello che ha fatto nel 1929?” Nello stesso libro, un altro soldato ricorda: “Dopo un anno a Hebron, mi è apparso all’improvviso chiaro che la nostra presenza sarebbe dovuta servire non a proteggere gli ebrei, ma a proteggere i palestinesi dagli ebrei (…). Sono sicuro che fra i coloni vi sono discendenti di sopravvissuti all’Olocausto. Se sono capaci di scrivere “Morte agli arabi” sulle porte delle case, allora per me è cambiato il concetto stesso di ebreo”.
Sono testimonianze di questo tipo e opere come quella di Segal probabilmente che ispirano chi decide di fare obiezione di coscienza. Come Nave Shabtay Levin, 17 anni, citato da Amira Haas nel suo pezzo apparso su “Haaretz” il 30 novembre scorso (A Day in Our Lives as an Occupying, Dispossessing Nation). Illuminante quanto scrive: “Come tutti i ragazzi israeliani sono cresciuto in una cultura militaristica, violenta e razzista. In terza elementare, conoscevamo già tutti le storie ‘eroiche’ dei fondatori dello Stato, dei soldati coraggiosi che avevano cacciato le persone dalle loro case in modo che noi potessimo vivere qui. (…) Quando non studiavamo, giocavamo: ci vestivamo da soldati, impugnavamo fucili giocattolo e facevamo finta di essere quei soldati. (…) L’indottrinamento è poi cresciuto con noi. Alle medie ci hanno detto di imparare l’arabo. Non perché potessimo parlare e fare amicizia con ragazze della nostra età… ma perché entrando nelle loro case fossimo in grado di ordinargli di riunire la famiglia in soggiorno”.
È da tempo chiaro a chi ha occhi per vedere che le azioni della potenza occupante a Hebron e in tutta l’area C della Cisgiordania non sono volte a prevenire eventuali atti di terrorismo quanto a mantenere nel terrore la popolazione e in prospettiva costringerla ad abbandonare pascoli e campi e cederli ai coloni ultra-ortodossi di oggi e di domani. Sono la dimostrazione che quello degli occupanti in Cisgiordania non è soltanto un regime di apartheid, come ormai assodato in vari rapporti, ma anche un colonialismo d’insediamento, il cosiddetto “settler colonialism”, che si differenzia da quello in quanto modalità di dominio caratterizzata, secondo lo storico Patrick Wolfe, da una “logic of elimination”, cancellazione, spossessamento e sostituzione delle popolazioni indigene.
Il fatto è che i coloni nei Territori, confermando in questo lo schema di altre istanze di settler colonialism, dichiarano da più di mezzo secolo di essere loro i veri nativi. Il rabbino Zvi Yehudah Kook, ispiratore principale dell’organizzazione del movimento messianico Gush Emunim – il Blocco dei fedeli – nel gennaio del 1974 scriveva sul “Jerusalem Post”: “Tutta questa terra è nostra, non c’è dubbio che ci appartenga; non è cedibile ad altri nemmeno in parte. L’abbiamo ricevuta in eredità dai nostri progenitori (…) Quindi una volta per tutte è perfettamente chiaro che qui non ci sono ‘territori arabi’ o ‘terre arabe’, ma solo terre d’Israele su cui altri si sono insediati e su cui hanno costruito senza il nostro permesso e in nostra assenza (…) Non è affatto consentito immaginare (…) di cedere queste terre, in nessun modo al mondo! Pertanto, liberare queste terre dai loro abitanti è un obiettivo sionista di prim’ordine, persino più importante che occuparle con insediamenti ebraici”. Questa operazione è addirittura definita – con il lessico consolidato della pulizia etnica – “purificazione della terra dalla sua contaminazione”. Sempre secondo lo stesso rabbino, che è tutt’altro che una voce isolata, gli Arabi svolgono alcune funzioni: “ricordare agli Ebrei la loro unicità, il loro essere stati prescelti, e preservarne l’unità attraverso la guerra perenne per eliminarli”. Non sono, gli arabi, mai considerati esseri umani indipendenti, con uguali, inalienabili diritti”.
A proposito delle mutazioni seguite alle guerre, nessuna analisi possiede la sconvolgente icasticità del commento di un personaggio che, nel romanzo di Amir Gutfreund, Per lei volano gli eroi, riflette con il protagonista sulle conseguenze di quelle combattute da Israele: “La Guerra dei Sei Giorni, ricordi? È stato davvero un duello fra Davide e Golia, e noi eravamo Davide e abbiamo vinto; ma questo Davide, una volta tornato dal campo di battaglia, non si è accorto di avere già negli occhi lo sguardo di Golia…”. Negli anni Novanta, un avvocato dell’amministrazione dello Stato, Yehudit Karp, incaricato di analizzare lo stato dell’applicazione della legge nei Territori, scriveva riguardo alla violenza dei coloni: “Eravamo come Sodoma, assomigliavamo a Gomorra”. La Nakba, lungi dall’essere un evento del passato è, come sostengono molti palestinesi, una “catastrofe in corso”.
Lo sguardo di Golia non soltanto opprime i palestinesi della West Bank, considerati intrusi nelle terre di Israele, ma condiziona anche, deformandoli, gli stessi fondamenti democratici dello Stato di Israele e delle sue istituzioni – da quelle amministrative a quelle militari al potere giudiziario piegatosi in innumerevoli occasioni alla volontà e alle pressioni dei coloni.
I coloni di Hebron, come i giovani degli avamposti illegali sulle colline che oggi terrorizzano i residenti palestinesi con i loro attacchi, protetti e sostenuti dai soldati di difesa israeliani, come denunciano da tempo le principali organizzazioni umanitarie, sono i discendenti di quei coloni, che iniziarono la campagna di insediamenti all’indomani delle guerre. Ne incarnano gli stessi principi, inculcati in primo luogo in famiglia, poi nelle scuole, e nelle yeshivot hesder che combinano lo studio avanzato del Talmud con l’addestramento e il servizio militare. Hanno il suggello fondamentale dei rabbini e dell’esercito che schiera i propri soldati a loro difesa. Tra quei soldati qualcuno, tuttavia, continua a rifiutare coraggiosamente di conformarsi e di tacere e rende testimonianza, come gli ex soldati di Breaking the Silence e questi di Mission: Hebron, che hanno accettato di farsi intervistare – atto tutt’altro che scontato in una società divisa come quella israeliana e di cui pagheranno sicuramente il prezzo – da una regista altrettanto coraggiosa. Gliene sia reso merito.
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