I minori e la giustizia

Ripubblichiamo un pezzo uscito sul numero 5/6- 2011 de Gli asini
Negli anni ottanta e novanta del secolo scorso mi è capitato di collaborare, assai marginalmente, come ricercatore dell’Ires Cgil e per l’associazione Oltre il razzismo, con gli interventi in difesa dei minori in difficoltà, in particolare stranieri, della Procura e del Tribunale dei minori di Torino. Mi sono trovato perciò a cercare di capire la natura e i limiti di quegli interventi e i compiti, civili, amministrativi e penali della Procura e del Tribunale dei minori; a conoscere giudici, procuratori, educatori, volontari, e qualcuno dei ragazzi; a riflettere sulle risorse culturali ed umane che animavano quegli interventi. Questa collaborazione, che è stata oggettivamente irrilevante ma molto coinvolgente, non mi ha reso né un giurista né uno storico della giustizia minorile in Italia (in particolare in Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, dato che la competenza dei Tribunali per i minori si estende alla stesse aree delle Corti d’Appello), ma ha consentito di farmi – forse costretto a farmi – un’idea generale di un punto alto della Giustizia minorile e delle sue successive difficoltà.
Raccontare questo quadro ai collaboratori e ai lettori de “Gli asini” ha il senso di invitarli a mettere delle date nelle loro riflessioni, a guardare, oltre il momento particolarmente pesante che attraversiamo, ai fini alti della Giustizia minorile; a ciò che è stato raggiunto in passato; alle responsabilità, non solo della destra xenofoba, per ciò che non è stato raggiunto; ai mezzi, alle competenze, alle risorse necessarie per proseguire e ricominciare; al rischio di seguire al ribasso gli Stati Uniti, che, dopo aver inventata la Giustizia minorile, sono ripiombati ai livelli di più di un secolo fa e, in certi Stati e per certi reati, puniscono i tredicenni come gli adulti.
Il limite al rischio di tracollo non sta certo nelle convinzioni dei minori che frequentano le scuole di Torino che, in alcuni istituti, sembrano essere favorevoli alla pena di morte, nei casi di omicidio, per gli adulti, ma anche per i minori; e contrari alla messa alla prova per i loro coetanei. Per la legge del taglione, per vendetta, i più; o per difesa, i meno. Appreso che, per la Costituzione italiana, a morte non si può condannare nessuno, i loro coetanei che delinquono gravemente li chiuderebbero in cella e butterebbero la chiave; incoraggiati, soprattutto se si tratta di stranieri, dalla destra xenofoba che ci governa. Ma non educati abbastanza alle differenze, al rispetto delle vittime ma anche al recupero dei colpevoli, né dalla televisione, né dalle famiglie, né dalla scuola.
Qualche antefatto
La Giustizia minorile nasce in difesa del minore. A fine Ottocento, negli Stati Uniti vengono istituiti per la prima volta i tribunali per i minori, per evitare che questi siano giudicati come adulti e incarcerati con loro, con le conseguenze che si possono immaginare sulla formazione e sulla frequenza degli abusi. La spinta politica viene dal femminismo, dalle società umanitarie, e si manifesta soprattutto nei primi decenni del Novecento. In Francia bisogna aspettare il 1919. In Italia la loro istituzione è del ’34, ma la loro realizzazione deve aspettare, in sostanza, la nascita delle Regioni. Il tribunale dei minori oltre alla funzione penale di rinviare a giudizio e giudicare i minori – con criteri diversi da quelli usati per gli adulti, in quanto nel loro caso il fine educativo deve prevalere di più che per gli adulti su quello afflittivo – ha funzioni amministrative e di iniziativa a difesa degli interessi dei minori. Il minore di 14 anni, in Italia, non è imputabile. Il minore di diciott’anni, anche in caso di reati gravissimi, come l’omicidio, può essere messo alla prova, cioè rimesso in libertà prima della scadenza della pena, purché dimostri ravvedimento. Il minore viene tenuto ristretto il meno possibile; viene sistemato in comunità; tenuto agli arresti domiciliari presso la famiglia, se ha una famiglia. In ogni caso sconta la pena in un carcere diverso da quello degli adulti; in caso di condanne lunghe anche per due anni dopo i diciott’anni. Ma la permanenza dei minori in galera è, mediamente, di settimane, di mesi, non di anni; salvo i reati gravissimi. Il carcere minorile ha educatori e psicologi che non solo aiutano il condannato, ma sono consulenti dei giudici del tribunale durante il processo, almeno fino a qualche anno fa.
Il tribunale dei minori interviene nell’interesse del minore nei casi di adozione; nelle controversie famigliari; per decidere l’affidabilità o adottabilità. Ha un potere di iniziativa per assicurare il diritto del minore a una vita dignitosa, all’istruzione, all’affettività, anche limitando la patria potestà: potere che può piacere o no, che può presentare dei rischi, ma che certo non ha il fine di punire.
Nei paesi che hanno istituito per primi i tribunali dei minori, la Giustizia minorile ha presentato una sorta di ciclicità connessa ai mutamenti sociali, al ciclo economico, al ciclo politico. La spinta politica iniziale alla loro istituzione nasce dagli orrori della giustizia degli adulti applicata ai ragazzi e ai bambini – che, in ogni caso, sotto i diciott’anni per il diritto e per le associazioni a difesa sono tutti children. Intorno ai tribunali minorili cresce una rete di educatori, di psicologi, di associazioni umanitarie che tendenzialmente fa pressione per estendere, e realmente riesce ad estendere, i diritti dei minori.
Ma l’adolescenza è una delle età più violente della vita. È anche un’età in cui si corre veloce, si scavalcano facilmente i muri, in cui la maturità manca, ma la capacità fisica a delinquere è già pienamente sviluppata. Fatalmente qualche minore rimesso in libertà dopo reati non gravi, o messo alla prova e scarcerato dopo reati gravi, si sente impunibile e commette reati gravissimi. Cosa che può accadere anche per gli adulti in libertà vigilata. Le bande organizzate cominciano ad usare i minori, soprattutto se non imputabili, come manovali efficienti, ma non punibili o poco punibili. Si sviluppa un’ondata di allarme sociale, soprattutto se il paese è molto violento, con molte armi, come gli Stati Uniti e si tratta di morti ammazzati e non di scippi, spaccio e bullismo. Parte un’ondata repressiva, cambiano i comportamenti della polizia e in molti casi i minori, anche undicenni, tornano ad essere processati come gli adulti, e si finisce condannati a morte anche per reati commessi da minorenni.
Gli Stati Uniti hanno attraversato l’ondata repressiva dalla fine degli anni settanta, quando in Italia era ancora in corso l’ondata liberatoria che ha coinciso con i movimenti degli anni sessanta e settanta, ma si è sviluppata anche negli anni ottanta e inizio dei novanta, con i suoi effetti positivi e i suoi abusi. Ricordiamo l’omicidio della fine di Così ridevano di Amelio, confessato dal fratello minore dell’assassino, innocente, per dovere familiare, perché rischia molto meno del fratello colpevole. È fiction, ma con una larga base di realtà. L’ondata repressiva è cominciata sul finire degli anni novanta, anche in coincidenza con l’arrivo dei minori stranieri. È questa ondata che dobbiamo affrontare e fermare, con strumenti giuridici e politici forti e sensati.
Le virtù e le risorse della Giustizia minorile a Torino.
La Giustizia minorile si sviluppa in un momento di grande vitalità sociale e culturale. La crescita del movimento operaio e studentesco si accompagna al movimento per la chiusura dei manicomi, alla nascita del Sistema sanitario nazionale, alla vitalità delle associazioni cattoliche, e anche del clero, dopo il Vaticano II. Tra le risorse su cui il Tribunale dei minori può contare c’è la sensibilità dei giovani appena entrati in magistratura, tra cui, per la prima volta in Italia, ci sono le donne; c’è la solidità culturale di psicologi e giudici – Scatolero, Vercellone – con qualche anno di più; c’è l’appoggio degli enti locali e quello della Diocesi; ci sono i preti operai – il cappellano del Ferrante, don Domenico Ricca, Mecu, è un salesiano vicino a quel movimento.
Quando Diego Novelli – primo sindaco comunista della città dopo Celeste Negarville, sindaco subito dopo la Liberazione – apre l’Ufficio nomadi, poi stranieri e nomadi, lo affida a Fredo Olivero, anche lui prete operaio, nato in valle, a meno di mezzo chilometro da Mecu.
Tutti si trovano a far fronte alla grande immigrazione meridionale. In rapida successione, i giovani da coltello, nello stereotipo, dopo i canavesani, sono i sardi, i meridionali, i marocchini, gli albanesi, i romeni, i moldavi. E gli zingari sempre, naturalmente, rom o sinti che siano, da dovunque provengano. Gli ospiti del Ferrante cambiano al cambiare dell’origine della migrazione. I giudici – le giudici in molti casi – cercano di tenerli dietro le sbarre il più brevemente possibile. Per riuscirci hanno però bisogno di una famiglia che esista, con un domicilio, un ambiente. Perciò nelle celle restano sempre quelli dell’ultima ondata, che una famiglia e un domicilio non ce l’hanno.
Il Ferrante non è perfetto; ma ci prova; un’educazione cerca di darla. Un riscontro singolare, un giudizio dal lato dei rinchiusi: una madre pugliese, operaia, una decina di anni fa, racconta a una ricercatrice universitaria come un grande successo il trasferimento di suo figlio dal carcere minorile della regione di origine al Ferrante, perché lì si sta bene. E magari, dato che lei una casa e un lavoro lo aveva, glielo avranno anche riconsegnato.
Un’emergenza minori stranieri si verifica in città sul finire degli anni ottanta per il vuoto legislativo sulla condizione dei minori migranti. I minori ricongiunti di fatto o arrivati soli hanno una esistenza giuridica solo se sono accusati di reati, perché in questo caso hanno diritto a un permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Altrimenti non possono essere né assistiti né ricongiunti alla famiglia nel paese di provenienza o in Italia, anche se il minore è identificato e la famiglia rintracciata. La procura e il tribunale dei minori prendono l’iniziativa, prevista dalla legge, di costituire una Intesa con gli enti locali, la Prefettura, la Questura, la Caritas migrantes, le scuole delle 150 ore, associazioni varie, per provvedere all’istruzione e alla vita sociale e affettiva dei minori stranieri presenti, a norma della convenzione di New York sui diritti dei minori, che l’Italia ha firmato, e che perciò, applicando la Costituzione, ha efficacia di legge anche in mancanza di una legge positiva. Che io sappia è l’unico caso di mobilitazione di questa vastità e di questo livello, anche se le procedure per l’accoglienza dei minori si estendono di fatto a molte Prefetture e molte Questure. In pratica si costituisce un circuito virtuoso per cui i minori si presentano – si presentano di fatto, non sono obbligati a presentarsi – vengono intervistati e iscritti. L’elenco degli iscritti viene presentato alla Questura, che avvia le pratiche per la concessione del permesso di soggiorno per istruzione, vengono assistiti dalla Caritas, dalle associazioni, dagli oratori, vivono con le famiglie, se ne hanno una, o vengono affidati. Ovviamente il circuito, legittimo ma non ben regolato, richiede un buon rapporto di fiducia tra scuole, Questura, Prefettura, minori e famiglie, che in effetti ha funzionato per diversi anni. Anche i minori che commettono reati, e sono la parte debole del circuito, si trovano a godere di una rete sociale vera, legittimata negli anni presso la Questura, ma anche di loro fiducia. Non bastano gli educatori in galera; ci vuole un ambiente non ostile fuori.
L’intesa si è rotta al momento dell’approvazione per legge del permesso di soggiorno per minore età, nella Turco-Napolitano. Da quel momento la Procura e il Tribunale dei minori hanno ritenuto di dover tornare all’atro loro compito di controllo del rispetto della legge. Ma il circuito virtuoso, di collaborazione tra istituzioni anche molto diverse, è andato avanti fino all’ondata xenofoba e repressiva più recente, accompagnata anche da mutamento di persone nei vari ruoli.
Non sono venuti meno la capacità culturale e l’impegno del Tribunale. Un Procuratore dei minori di Torino emerito, Pazè, dirige “Minori e giustizia”. I giovani che ne hanno preso il posto ne seguono l’esempio. Ma la rete si è un po’ strappata.
E i limiti
Un esterno non può sapere molto dei ragazzi del Ferrante, se non da loro, e fuori galera. Io ho avuto modo di parlare con vari ragazzi alle discussioni e ai seminari dell’Asai, che è l’associazione più importante che si occupa di minori in città. I documenti, anche dei processi passati in giudicato, sono segreti per settant’anni, a difesa del minore. Si possono intervistare educatori e psicologi, si possono conoscere storie anonime. Si possono avere i numeri esatti dei presenti, le durate della detenzione, raccolti con cura e resi pubblici dal cappellano. Si sa che le detenute più serene, spesso insieme a chiacchierare tra loro e con i bambini, sono le ragazze rom, che stanno molto male fuori e non sembrano risentire della perdita di libertà. Mentre ragazzi con storie familiari tragiche, madri e padri assenti o detenuti in paesi diversi, trovano difficile vivere sia dentro che fuori. Non si può pensare di farsi un’idea di prima mano delle condizioni di detenzione dall’esterno.
Ma ogni tanto ci sono le crisi. Gruppi di ragazzi si ribellano, si tagliano, bruciano i materassi, sfasciano le sedie e i tavoli, e trasformano la rivolta in un problema della città oltre che del direttore, della Polizia carceraria, degli educatori. Ci sono discussioni pubbliche, si nominano commissioni, si tenta di rimuovere le cause. L’ultima volta, ormai vari anni fa, forse la causa scatenante era stato l’attrito con un nuovo direttore. Ma le molte discussioni pubbliche, la Commissione di giuristi e sociologi nominata, portarono in primo piano i problemi veri: la debolezza della rete di accoglienza in città, la debolezza del sistema educativo nel carcere, la struttura stessa del carcere, che è proprio un carcere, come quello degli adulti e non facilita la vita né ai detenuti né agli educatori né al personale di sorveglianza. La relazione entrava nei particolari e proponeva persino un definito edificio, disponibile, per sostituire la sede fisica del Ferrante. La relazione fu presentata alle autorità e ai cittadini interessati in Sala rossa, la sede del Consiglio comunale di Torino. Il sottosegretario alla Giustizia, che rappresentava il Governo, ed era allora di sinistra, lodò moltissimo il lavoro, ringraziò gli studiosi e propose di… istituire una Commissione, per andare avanti. Uno dei giuristi autori del rapporto – Davide Petrini per la cronaca, che è un uomo mite ed equilibrato, ma non vile – per sua e nostra fortuna, protestò vivacemente, in termini corretti ma nettissimi, perché la Commissione aveva svolto un lavoro preciso, con una analisi definita, con una proposta operativa inequivocabile. Si poteva sostenere che la proposta era sbagliata, che era costosa, anche se la relazione sosteneva che non lo era; ma allora doveva essere criticata, non lodata e messa a marcire.
Gelo immediato; condivisione della protesta da parte degli altri commissari; imbarazzo del sottosegretario. Conclusione: non fu costituita neppure la Commissione, giustamente. Il lodatissimo rapporto fu messo a prendere polvere.
Poi il centro-sinistra perse le elezioni, l’onda repressiva crebbe, il Ferrante scomparve dalle cronache. E questa è una buona notizia perché quando le galere finiscono sui giornali è sempre per affollamento, suicidi, botte, morti. Se non finiscono sui giornali vuol dire che con le ridotte risorse, con il peggioramento normativo in atto, che ha quasi abolito le particolarità positive dei tribunali per i minori, nel loro carcerario ambiente, quelli del Ferrante fanno del loro meglio.
Cosa si può fare con i minori in difficoltà
I problemi di giustizia dei minori si risolvono più fuori che dentro il sistema giustizia. Le difficoltà sono nel contesto delle leggi e nelle risorse, economiche e sociali, e non nei tribunali. Non sono i giudici e i procuratori il problema, sono le leggi sull’immigrazione, i tagli alla scuola, la debolezza delle associazioni assistenziali e pedagogiche. Naturalmente la Commissione aveva ragione: le strutture del Ferrante sono più carcerarie che rieducative. I cancelli del Ferrante non spaventeranno, se ci dovessero finire dentro, i tostissimi ragazzini afgani che hanno a Torino una loro rete di contatti e arrivano sotto i Tir e dentro i container; né quelli che arrivano per mare, che hanno visto sbarre e affollamenti peggiori. Ma neppure li aiuteranno a capire che questa società è disposta ad accoglierli.
Inoltre, parlando sulla base delle poche cose che conosco, temo che la precarietà dei ragazzi e delle ragazze che vorrebbero aiutare i minori in difficoltà, ne renda inefficace il lavoro. Può darsi che l’essere precari poco meno di loro renda più facile la comunicazione, il rapporto, con i minori devianti. Ma toglie anche sicurezza, autorevolezza, esperienza, competenza. Non andremo lontano se non diamo una mano a rovesciare l’onda politica repressiva ed escludente che ci travolge e se non riusciremo a rendere più solide le istituzioni dell’accoglienza, dell’educazione, della formazione al lavoro, di cui tanti di noi fanno parte.